Chi ha mai visto due culture incontrarsi o scontrarsi?

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    Pubblichiamo un estratto da Le voci del Suq. Dal 1999 l’intercultura in scena a cura di Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino con Alberto Lasso e Carla Peirolero

    Da oltre due decenni, e in particolare dopo l’11 settembre 2001, l’espressione “scontro di culture” ha pervaso le retoriche delle destre e di tutti coloro che, in nome di una rinata idea di “purezza”, paventano “l’invasione”. Sul lato opposto della barricata, anche se molto più timidamente, si sente invece evocare in termini peraltro vaghi l’incontro di culture. In tutta sincerità, chi ha mai visto due culture incontrarsi o scontrarsi? A incontrarsi o scontrarsi sono donne, uomini, bambini, che giorno dopo giorno, come tutti, cercano di costruirsi un domani. E poiché gli esseri umani non sono pietre, sono propensi, a volte costretti, a cambiare le loro percezioni del mondo, ovvero quelle che chiamiamo solitamente “culture”. Si è spesso portati a pensare che la cultura sia insita nell’individuo e de- terminata dal luogo di nascita. L’antropologia, invece, ci insegna che la cultura nasce “tra” gli individui: la cultura infatti è il modo in cui i membri di una comunità costruiscono le relazioni tra di loro, tra di loro e gli altri, tra di loro e l’ambiente in cui vivono. Nel lontano 1871 Sir Edward Tylor, uno dei padri nobili dell’antropologia, formulò una definizione destinata a durare nel tempo: “La cultura… presa nel suo significato etnografico più ampio, è quell’insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanza acquisita dall’uomo come appartenente a una società”.

    Due passaggi della frase di Tylor sono particolarmente importanti. Il primo è “acquisita dall’uomo”: con queste parole l’autore sottolinea come la cultura non sia un elemento innato, ma il prodotto di un’educazione prolungata, di una costruzione sociale. La cultura è quindi il prodotto di un lungo e articolato processo di costruzione. Questo dato, messo in evidenza già alla fine dell’Ottocento, sarà invece messo in discussione, come vedremo più avanti, dalle molte teorie razziali. Il secondo passaggio è quello finale, quel “come appartenente a una società” che mette in luce come la cultura sia il frutto di relazioni tra più individui e non l’esclusiva di una persona sola. È dal dialogo, dallo scambio, dall’incontro che nasce ogni cultura. Potremmo dire che le culture stanno nelle relazioni, in quello spazio tra le persone che deve essere riempito con forme di comunicazione e di comportamento condivisi. Le culture sono strumenti che servono agli uomini per ordinare a modo loro il mondo che li circonda, per ricollocare, secondo i loro parametri, ciò che apparentemente non ha un ordine o meglio non ha un ordine “umano”. È attraverso i modelli culturali, agglomerati ordinati di simboli significanti, che l’uomo dà un senso agli avvenimenti che vive. Ogni società opta arbitrariamente per una gamma di regole e di espressioni, che finiscono per diventare un patrimonio da cui attingere. Alcune di queste scelte sono determinate da condizioni ecologiche, storiche o economiche, altre sono puramente arbitrarie. Gli esseri umani creano in questo modo una cultura, in quanto membri di un determinato gruppo più o meno ampio.

    Il grande paleontologo André Leroi-Gourhan ha scritto: “Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere cominciati dai piedi”, per poi ribadire che la storia dell’umanità “è fatta con i piedi”. Sì, perché la nostra è una specie in cammino, da sempre ci siamo spostati, incontrati e scontrati, scambiandoci continuamente informazioni, che sono entrate a far parte del patrimonio culturale di altri gruppi, dando vita a un meticciato culturale complesso e articolato. Proprio per questo è sempre più difficile tracciare confini netti tra le cosiddette culture. Ciascuno di noi è intriso di elementi che vengono da altri. Recitava un manifesto tedesco degli anni Novanta: “Il nostro Cristo è ebreo, la nostra democrazia è greca, i numeri che usiamo sono arabi, guidiamo auto giapponesi, beviamo caffè brasiliano, usiamo walkman fatti in Cina, indossiamo camicie hawaiane. Il nostro vicino però è straniero”.

    Siamo noi a creare lo straniero, basandoci peraltro su presupposti spesso errati o inventati appositamente per pensarci diversi. Ci attacchiamo alla metafora delle “radici”, come se gli esseri umani fossero piante, costretti a rimanere sempre nello stesso terreno. In questo modo costruiamo un “Noi” spesso fittizio, utile solamente a definire, in modo quasi sempre negativo, “l’Altro”. Alla base di tutto questo c’è il pregiudizio, la scarsa conoscenza. “Il non parlarsi, non affratella” recita un proverbio africano, che potrebbe diventare lo slogan del Suq, che da vent’anni cerca di far dialogare le persone che lo frequentano, in un contesto che evoca, non a caso, proprio un mercato mediorientale. Sì, perché il mercato non è solo un luogo dove si vende e si fanno acquisti, il mercato è innanzitutto un luogo di incontro. Per questo, fin dall’antica Grecia, nell’agorà vigeva il divieto di portare armi, per favorire il dialogo, l’incontro, anche tra di- versi. Un’usanza che vale ancora oggi in molti mercati rurali dell’Africa. Incontrarsi, parlarsi, solo così si scardinano i pregiudizi. Nel bellissimo film “Gran Torino”, Clint Eastwood interpreta la parte di un becero conservatore, che odia gli asiatici per avere perso la guerra in Vietnam. Alla fine, familiarizza con i vicini (asiatici) e arriva a dire: “Ho più cose in comune con loro, che con i miei figli”. Così è l’incontro, serve ad andare oltre il pregiudizio. Non siamo ingenui, non ci illudiamo che il Suq, come molte altre manifestazioni simili, possa risolvere i problemi della convi- venza e dell’immigrazione, ma di certo aiuta. La sua capacità di mescolare persone diverse, magari anche solo perché attratte dal cibo “etnico”, dalla musica o dagli oggetti di artigianato, finisce per contagiare, positivamente le persone, per avvicinarle. La strada per la convivenza è ancora dura e impervia, ma l’esperienza del Suq ricorda l’antica favola del colibrì.

    Un giorno scoppiò un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e scapparono spaventati. Mentre fuggiva veloce come un lampo, il leone vide un colibrì che stava volando nella direzione opposta.

    “Dove credi di andare?”, chiese il Re della Foresta. “C’è un incendio, dobbiamo scappare!”
    Il colibrì rispose: “Vado al lago, per raccogliere acqua nel becco da buttare sull’incendio”.

    Il leone sbottò: “Sei impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio gigante con quattro gocce d’acqua!?”
    Il colibrì rispose: “Io faccio la mia parte”.

    Immagine di copertina da Unsplash: ph. Seongho Jang

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