Per più di 10 anni ci siamo concentrati su come far emergere e sostenere pratiche di innovazione sociale. Si è discusso su come riconoscerle, valorizzarle, dar loro continuità nel tempo. Sono emerse costellazioni di buone pratiche generate dall’energia di molte persone e sostenute da alcune istituzioni locali lungimiranti.
Va quindi tutto bene? Sì e no.
Sì, possiamo dire che quella dell’innovazione sociale è una storia di successo perché ha portato a far riconoscere che esistono energie e capacità che, quando trovano un contesto favorevole, possono diventare risorse sociali: persone e gruppi di persone, associazioni e imprese sociali capaci di affrontare problemi difficili e, al tempo stesso, rigenerare la società e il territorio in cui operano dando concretezza a temi come: la città della prossimità, il welfare di comunità, il cibo di prossimità e, in definitiva, la riscoperta dei beni comuni. Così facendo ha mostrato che la partecipazione non solo fa emergere a livello locale risorse di creatività e immaginazione presenti nella società, ma può anche portare a programmi capaci di incidere sulla società e il territorio a scala maggiore.
No, non possiamo dire che sia davvero una storia di successo perché, come nel tempo è diventato evidente, la crescente costellazione di buone pratiche che ne è emersa, pur se certamente si propone come un insieme di cambiamenti sistemici alla scala micro, di per sé, non è in grado di coinvolgere tutti portando le buone idee che produce in tutto il territorio e generando la forza sociale e politica necessaria per attivare politiche pubbliche capaci di sostenere cambiamenti sistemici a larga scala. Con il risultato che la mancanza di queste iniziative pubbliche ha fatto sì che l’innovazione sociale potesse essere vista da molti come il campo di sperimentazione per una nuova tipologia di politiche neoliberiste: quelle tese a mettere in atto soluzioni in cui cittadini, comunità e imprese si danno da fare per risolvere da soli dei problemi che prima erano di competenza dello stato.
Proprio perché siamo stati e siamo sostenitori dell’importanza dell’innovazione sociale, proprio perché pensiamo che essa ci indichi anche una linea per nuove forme di intervento pubblico, qui vorremmo discuterne i limiti e cercare di vedere se e come potrebbero essere superati.
1. Valore e limiti dell’innovazione sociale
Partiamo da una necessaria precisazione. L’innovazione sociale si è presentata nella storia diverse volte in diverse ondate con diversi risultati. Quella cui in queste note ci riferiremo è costituita da modi di pensare e di fare emersi all’inizio di questo secolo che, nel loro insieme, sono apparsi come promettenti nella transizione verso la sostenibilità ambientale e sociale. Precisamente, hanno mostrato che l’interesse individuale, quello della comunità e quello del pianeta possono convergere quando le persone scelgono di operare in modo collaborativo, in prossimità e stabilendo relazioni di cura reciproca e per l’ambiente. Quando cioè le si orientano verso un benessere collaborativo. Il che sembra semplice ma è esattamente l’opposto di ciò verso cui ci portano le idee e le pratiche insostenibili oggi dominanti.
Quando e dove le persone hanno scelto, e concretamente potuto, agire così hanno al tempo stesso sviluppato progetti di vita collaborativa e generato inedite forme di comunità e di beni comuni. Più precisamente hanno mostrato che tra stato e mercato è possibile introdurre un terzo polo: le comunità aperte, leggere e basate sui progetti di vita collaborativi che emergono, appunto, da questa innovazione sociale. Similmente, esse hanno mostrato (o meglio: hanno reso nuovamente evidente) che, oltre ai beni privati e quelli pubblici, ci sono anche i beni comuni, tra cui quelli che queste nuove comunità, con le loro attività di cura, possono generare.
Inoltre, l’innovazione sociale ci ha mostrato che la partecipazione può non riguardare solo i processi decisionali, ma anche quelli produttivi. In altre parole, può non comportare solo di discutere cosa dovrebbe essere fatto (assumendo che poi qualcun altro lo farà), ma implicare anche la possibilità di (collaborare a) fare insieme ciò che si vuole ottenere.
Infine, l’innovazione sociale di cui stiamo parlando ci ha mostrato in concreto che partecipare significa non solo condividere cosa si vuole fare, ma anche collaborare nel farlo. Cioè nel mettere in pratica i progetti e gestirli giorno per giorno. Questo tipo di partecipazione collaborativa, che è al tempo stesso deliberativa e operativa, per certi versi risulta più difficile e onerosa di quella solamente deliberativa. Ma, per altri versi, può anche essere percepita come più concreta e motivante: si partecipa a fare qualcosa di cui si vedono immediatamente risultati. Il che può mettere in moto energie impreviste.
Riconosciuto tutto questo, occorre però prendere atto che l’esistenza di questi progetti, di queste comunità, e dei beni comuni che esse generano, non può prescindere dall’attivismo di chi se ne fa carico. Non è un caso che spesso si parli di eroi dell’innovazione sociale perché per realizzarla è necessaria una partecipazione ad alta intensità di impegno (impegno di tempo, energia ed attenzione).
Per questo esse possono fiorire solo dove un numero sufficiente di persone è in condizione di attivarsi e collaborare perché ha il tempo, l’energia e l’attenzione da investire in queste attività. Simmetricamente, dove queste condizioni non sono date, cioè dove chi vi abita non può prendersi altri impegni, tutto non può succedere. Il risultato è che la mappa delle buone pratiche, cioè delle comunità e dei nuovi beni comuni, generati da questa innovazione sociale, ha solitamente delle aree vuote, o quasi. E queste aree sono proprio quelle abitate dalla popolazione più fragili in cui si concentrano rischi di impoverimento economico, relazionale e sociale.
Questa constatazione, più volte verificata, costituisce la base per una delle più motivate critiche alle innovazioni sociali di cui in questi anni ci siamo occupati. Quella secondo cui, in definitiva, si tratterebbe di attività praticabili solo da ceti medi (più o meno impoveriti) che cercano di migliorare la qualità della loro vita. E che lo possono fare perché, come si è detto, possono investire le risorse (di tempo, energia e attenzione) necessarie. Con questa visione, l’innovazione sociale rischia di essere percepita come pratica di resistenza a vantaggio di pochi e non come motore politico per un cambiamento inclusivo e redistributivo per tanti.
Rispetto a queste critiche si può rispondere che sì, può anche essere così, Ma questo non è uno scandalo: le innovazioni sociali avvengono dove è possibile. Cioè, dove le persone hanno le risorse da dedicare. Il che, però, non ne riduce l’importanza se, come nel nostro caso, con la loro esistenza indicano modi di essere e di fare promettenti e replicabili in altri contesti.
2. Politiche pubbliche e innovazione sociale
Fino ad ora, alcune meritorie politiche pubbliche si sono confrontate con l’innovazione sociale riconoscendone il valore e proponendosi di stimolarla e sostenerla nel tempo.
E’ successo infatti che alcuni amministratori locali più a contatto con le tante buone pratiche emerse in questi anni hanno capito che era necessario mettere in atto nuove forme di governance. Tra di esse, le iniziative che rappresentano al meglio quest’inedito incontro tra istituzioni e innovatori sociali sono i “patti di collaborazione con i cittadini”. Nati a Bologna più di dieci anni fa, questi patti si sono moltiplicati abilitando centinaia di comunità e rivelandosi non solo un efficace strumento amministrativo, ma anche l’espressione di una nuova idea di relazione tra istituzioni pubbliche e cittadini. Un nuovo modo di produrre beni comuni.
L’insieme delle buone pratiche ci ha mostrato diversi possibili mutamenti a partire dal fatto che i cittadini non sono più da considerare destinatari passivi di servizi. Il punto è che in un momento storico in cui siamo tutti intenti a reinventarci di fronte alle sfide inedite che stiamo vivendo, le opportunità offerte dalla partecipazione diventano necessarie per riprogrammare e ripensare gli approcci tradizionali. Non tutto è inedito, sono tensioni che abbiamo storicamente sperimentato più volte, ma i processi di globalizzazione e i nuovi strumenti digitali hanno messo in crisi le forme della rappresentanza moderna, con una ricombinazione di logiche che impattano sul modo di progettare. Le trasformazioni radicali sono tali da poter essere affrontate solo con un nuovo modello basato sul coinvolgimento e l’innovazione aperta; le conoscenze, le idee, le risorse arrivano da fonti esterne che devono essere gestite; nascono nuovi modelli organizzativi e figure che cercano di curare le relazioni con le comunità, di stare nella prossimità non solo fisica ma relazionale, per ascoltare, coinvolgere, coprogettare.
Però, se pure politiche come queste possono fare molto per stimolare e sostenere una varietà di buone pratiche, per loro natura, possono farlo solo dove già esistano risorse sociali attive o pronte per essere attivate. In altre parole, solo dove c’è chi può impegnarsi in queste attività. Quindi, anche quando hanno successo, non possono ridurre le diseguaglianze di possibilità tra chi questa possibilità di impegnarsi ce l’ha e chi, sopraffatto dalle difficoltà della vita, non ce l’ha. Cioè non ha il tempo, l’energia e l’attenzione richiesti per partecipare a delle attività collaborative (così come fino ad ora sono state proposte).
Ne deriva che, accanto alle politiche di sostegno all’innovazione sociale lì dove essa si presenta, dovrebbero emergere nuove politiche finalizzate a praticarla o a mettere in atto ciò che ci ha insegnato anche nelle aree più difficili e svantaggiate o verso fasce di società normalmente poco proattive. In altre parole, politiche che portino a ridurre anche le diseguaglianze anche su questo terreno.
L’idea di fondo che vorremmo discutere è dunque questa: dopo tanti anni di attenzione alla relazione tra innovazione sociale, politiche e nuovi beni comuni, occorre aprire un altro filone di discussione e di esperienze sulla relazione tra innovazione sociale, politiche e nuovi beni pubblici, intesi come beni disponibili per tutti, e che danno a tutti la possibilità di accedere a forme di benessere collaborativo.
Per muoversi in questa direzione sono necessarie delle politiche pubbliche capaci di mettere in atto una nuova generazione di servizi, che qui chiameremo servizi pubblici e collaborativi (SPC).
Per rendere chiaro ciò che stiamo proponendo, si possono portare alcuni esempi che, pur essendo emersi in momenti diversi, in ambienti diversi e spinti da diverse motivazioni, hanno in sé dei caratteri propri di quello che vorremmo veder succedere: sono servizi pubblici che nascono offrendo la possibilità di partecipazione collaborativa in forme molto diverse e tali da essere (potenzialmente) attraenti ed accessibili a persone con particolare fragilità culturale ed economica. Ed anche per persone e gruppi di persone per le quali le difficoltà nella vita quotidiana sono tali da avere poca o nessuna possibilità di prendersi altri impegni.
Alcune con una lunga storia, le più note e da tempo dibattute sono le scuole e biblioteche aperte verso il territorio con tutta la varietà di servizi e di attività che intorno ad esse possono gravitare.
In tempi più recenti sono poi emersi altri esempi di servizi che si avvicinano all’idea di servizi pubblici collaborativi, e che lo fanno partendo da altre motivazioni e seguendo altre strade: le case di quartiere presenti a Torino, Brindisi, Reggio Emilia, Padova e Bologna e, seppur con qualche differenza, gli spazi culturali diffusi in tutto il paese. Il caso delle edicole che diventano portinerie sociali a Torino e in altre città (che, intrecciando una varietà di servizi d’interesse locale possono diventare centri di rigenerazione del tessuto sociale). I negozi del progetto “Un negozio non è solo un negozio”, a Bari che integrando le loro normali attività commerciali con delle iniziative di interesse pubblico, estendono il loro tradizionale ruolo sociale di prossimità.
Ci si potrebbe anche riferire alle Case della Salute e a come potrebbero evolvere quando diventassero Case della Comunità (come previsto dal PNRR, anche se crescono i dubbi sull’effettiva volontà di andare in questa direzione), in cui gli spazi di cura e il modello di assistenza sul territorio dovrebbero essere ridefiniti, affiancandosi al modello assistenziale e diventando centri multifunzionali costruiti attorno alle attività di cura.
3. Anticipazioni: casi di innovazione socio-istituzionale
Ciascuno di questi esempi, come si diceva, ha una propria storia. Alcuni sono nati prima dell’onda di innovazione sociale cui qui, fino ad ora, abbiamo fatto riferimento. Altri sono emersi in tempi più recenti e sono, in maniera maggiore o minore, influenzati da essa.
Non solo. Ciascuno, pur offrendo un servizio pubblico, ha una diversa natura: alcuni sono servizi forniti direttamente da un ente pubblico (come, per esempio, le scuole e le biblioteche), altri hanno in concessione edifici e operano in ottica di sussidiarietà con la Pubblica Amministrazione, operando con finalità civiche e per l’interesse generale. Altri infine sono erogati da associazioni e privati in collaborazione con l’ente pubblico (come le portinerie sociali o i negozi-che-non-sono-solo negozi, di Bari).
Per ciò che a noi qui interessa, questi sono esempi di ciò che dovrebbe fare una politica pubblica con la Pubblica Amministrazione che offre a tutti la possibilità di praticare qualche forma di partecipazione, aumentando efficacia grazie ad una condivisione delle azioni. Così facendo, essi propongono all’ente pubblico un nuovo modo di porsi: quello tradizionale di erogatore di soluzioni, ma anche quello nuovo di piattaforma di possibilità. E, in particolare, della possibilità per i cittadini di partecipare ad attività e progetti collaborativi.
Per argomentare quest’affermazione iniziamo considerando due dei casi prima proposti. Quello delle biblioteche e quello delle scuole che si aprono al quartiere.
Una biblioteca, tradizionalmente, è al tempo stesso un servizio e un luogo. Il servizio rende disponibili al pubblico dei libri e dei materiali audiovisivi. il luogo è uno spazio fisico dove leggere e vedere video, oppure andare a ritirare libri in prestito. O anche dove andare a studiare e incontrare degli amici.
Oggi, alcune biblioteche (anche a fronte della necessità di evolvere in un mondo in cui buona parte di ciò che tradizionalmente hanno offerto può essere ottenuto a casa in forma digitale) hanno iniziato ad aggregare altre attività attorno a quelle tradizionali: dai gruppi di lettura ai cicli di conferenze; da attività per la riduzione del digital divide al supporto alla genitorialità con corsi per neo genitori e consulenze con esperte/i; dalle esposizioni di arte visiva alle performance teatrali; dai doposcuola per i bambini alle attività inclusive per cittadini di origine migrante, con corsi di lingua e letture nelle diverse lingue madri. Fino all’organizzazione di momenti formativi per supportare i residenti a sviluppare idee e competenze. Non solo, le biblioteche più dinamiche sono diventate punti di riferimento per le associazioni culturali del quartiere e, allo stesso tempo, essendo connesse con altre biblioteche, luoghi in cui le reti corte della cultura locale si intrecciano quelle lunghe, delle iniziative cittadine e internazionali.
Evidentemente, cambia anche il ruolo del bibliotecario: se nel modello tradizionale, si rivolgeva a degli utenti seguendo delle procedure precostituite e codificate, nel nuovo modello collaborativo, invece, diventa anche un agente socioculturale. Cioè un operatore capace di stimolare, coordinare e supportare le attività e i progetti di gruppi di persone che alla biblioteca fanno in vario modo riferimento. E quindi di accompagnare la biblioteca stessa nel processo che la porta ad operare in modo flessibile e aperto. A diventare un’infrastruttura civica che opera come un presidio culturale e sociale di prossimità. Una piattaforma che connette operatori del servizio pubblico e cittadini e cittadine. Tutto questo ha come risvolto pratico per il bibliotecario la necessità di acquisire nuove competenze e, non da ultimo, definire delle nuove basi contrattuali.
Analoghe considerazioni possono essere fatte in riferimento alle scuole, nei casi in cui si aprono al quartiere e alla società. Alcune di esse, grazie a iniziative locali e al fuori degli orari scolastici, diventano spazi non solo per il potenziamento dell’offerta formativa a supporto agli studenti, ma anche per l’ampliamento dell’offerta di servizi educativi, per l’integrazione di nuove competenze e per la generazione di una gamma diversificata di iniziative culturali. Così facendo, diventando spazi aperti ad attori e a visioni che provengono dalle reti civiche e associative del territorio, introducono anche nuove pratiche educative (come quella delle comunità educanti e dei patti educativi territoriali). Tutto ciò porta a generare un’idea di scuola intesa come piattaforma relazionale basata su patti tra i diversi attori sociali coinvolti e comunità educante. Una scuola che si propone come centro di una molteplicità di attività di prossimità coinvolgendo studenti, genitori, insegnanti, realtà associative del territorio. E che, per farlo, cercando anche nuovi spazi all’aperto, invadendo e vitalizzando giardini, piazze e parchi circostanti.
L’approccio collaborativo non incide solo sulle dinamiche organizzative, ma ha riflessi anche sui contenuti. I programmi delle scuole e le attività delle biblioteche diventano flessibili in base alle richieste, rompendo gli schemi tradizionali e facendo emergere l’esigenza di dotarsi di nuove competenze per attuare questo nuovo modo di progettare, per ascoltare e gestire comunità. Con modalità di apprendimento informale e tra pari, per promuovere percorsi di empowerment, per avere il tempo della cura.
Simili osservazioni possono essere fatte per gli altri esempi prima elencati (le case di quartiere, le portinerie sociali e, forse in futuro, le case della comunità). Infatti, se pure in modi diversi, nascono tutti dalla decisione politica (presa in genere da un ente pubblico, ma non sempre e non solo) di partire da infrastrutture date che, per loro natura sono diffuse sul territorio (come le edicole, i negozi di prossimità, i bar), trovando il modo per farle diventare centri di una molteplicità di altre attività tra loro compatibili. E quindi portandoli a funzionare, con modalità e scale diverse, come hub relazionali capaci di offrire ai residenti una varietà di possibilità di collaborazione. Cioè un’ecologia di forme di collaborazione.
4. Prototipi di servizi pubblici collaborativi: tratti comuni
A questa prime caratterizzazioni degli esempi proposti se ne possono aggiungere altre che, nel loro insieme, motivano meglio il perché ci pare di poterli considerare prototipi della nuova generazione di servizi di cui qui stiamo parlando.
Come si è visto, tutti i casi proposti si sono sviluppati attorno ad un centro e ad un gruppo di funzioni preesistenti e chiaramente connotate, aggiungendo ad esse altre attività. Il risultato è che, in modo diversi, scuole, biblioteche, edicole e negozi che si avviano su questo percorso diventano hub socio-culturali: punti di incontro di una molteplicità di progetti, piattaforme multifunzionali cui fanno riferimento una varietà di “pubblici”: gruppi di persone mosse da interessi diversi e dotati di diverse disponibilità in termini di tempo, energia e attenzione. Per cui, tra loro, c’è chi vuole e può impegnarsi per attivare e cogestire un nuovo progetto, ma c’è anche chi vi partecipa solo quando può e come può, fino a chi si limita ad usufruire dei risultati sentendosi però parte della comunità che li ha prodotti.
Operare in questo modo richiede di scavalcare, o meglio reinterpretare, i modelli di funzionamento esistenti. Ciò significa mettere in atto delle sostanziali innovazioni nel loro modo di funzionare e, in definitiva, nella loro stessa natura.
Guardando tutto questo dal punto di vista delle persone, questi servizi concorrono a creare una varietà di iniziative che, nel loro insieme, definiscono un nuovo, esteso ed articolato campo di possibilità per le politiche pubbliche. Tra le quali, momento per momento, ognuno può trovare, se ne ha desiderio, una forma di partecipazione accessibile e vicina ai suoi interessi.
Ai fini della riflessione che qui stiamo facendo, questo punto è quello centrale. Possiamo dire che ciascuno di questi servizi (cioè ciascuna di queste biblioteche o scuole o negozio) offre delle possibilità di partecipazione collaborativa con diversi gradi di intensità.
Inoltre, poiché è un servizio pubblico, questa possibilità viene data a tutti. Anzi, se l’intenzione politica è quella di ridurre le diseguaglianze, ciò è fatto privilegiando le aree più difficili, in cui in cui vivono persone che, come si è detto, sono fragili anche, e prima di tutto, della possibilità di impegnarsi per migliorare in modo collaborativo il proprio contesto di vita.
Nel caso degli esempi che abbiamo proposto, le reti sociali che essi stimolano e sostengono richiedono forme di partecipazione relativamente leggera (se non altro perché le attività più professionali e gravose sono fatte dagli erogatori dei servizi stessi – su questo torneremo nel prossimo paragrafo) e ad intensità variabile (grazie all’adozione di appropriate piattaforme digitali). Il che rende possibili diverse forme di partecipazione: dall’attivismo di chi vuole e può praticarlo, a forme di partecipazione più flessibile ed episodica, per tutti gli altri.
L’insieme di queste proprietà, dunque, è ciò che fa considerare questi casi come prototipi di quello che potrebbero essere i servizi pubblici collaborativi cui stiamo pensando. Come tutti i prototipi, essi ci dicono che l’idea può funzionare, ma non sono ancora l’idea nella sua maturità. Per arrivarvi occorre passare dallo stadio dei prototipi a quello delle proposte mature, superando quelli che ne possono essere i punti di debolezza e mantenendo invece quelli che ne sono i punti di forza (cioè quegli aspetti che ci hanno portato a riconoscerli come soluzioni ricche di potenzialità).
5. Dagli eroi sociali agli eroi istituzionali, ed oltre.
Per discutere di come passare da questi prototipi alle soluzioni mature occorre mettere in chiaro anche un’altra questione: fino ad ora si è parlato del diritto alla partecipazione collaborativa, visto sul versante delle persone direttamente interessate ai sui risultati. Il che ci ha portato a discutere la possibilità di estenderne il numero al di là degli eroi sociali che hanno animato i primi passi di queste iniziative. Così facendo, si è arrivati alla proposta di servizi pubblici capaci di offrire possibilità di partecipazione anche con un basso investimento in termini di tempo, energia e attenzione. Ma una volta fatto questo passo, e gli esempi indicati ci mostrano che è possibile farlo, emerge un altro problema.
La loro stessa esistenza e il loro buon funzionamento, per come fino ad ora lo abbiamo visto, non è solo un fatto organizzativo, ma dipende, e soprattutto, dalla dedizione e dalla qualità delle persone che li propongono e gestiscono. Cioè dalla loro sensibilità, capacità ed energia. Sono queste persone che potremmo chiamare eroi istituzionali, che, specie nelle fasi iniziali della progettazione e avvio del servizio, fanno la differenza.
Guardando meglio si può infatti osservare che, quasi sempre, la riduzione dell’impegno richiesto alle persone dal lato utenti deve essere controbilanciata da quello richiesto a chi organizza e gestisce il servizio. In altre parole, questi servizi collaborativi, nella forma prototipale in cui li abbiamo conosciuti fino ad ora, mentre riducono l’intensità partecipativa richiesta sul lato degli utenti richiedono più impegno da parte di chi progetta e gestisce il servizio.
Il risultato è che il ruolo di “eroe” passa dal cittadino collaborativo (l’eroe sociale dell’innovazione di cui si è parlato all’inizio) all’operatore collaborativo (l’eroe istituzionale dei nuovi servizi collaborativi). Ma, anche su questo versante, il numero di eroi disponibili è limitato, che siano bibliotecari o presidi nel caso di biblioteche o scuole. E questo, ovviamente, costituisce un limite alla diffusione di questi servizi. Ne risulta che il passaggio verso soluzioni più mature non deve solo normalizzare le forme di partecipazione a bassa intensità dal lato utilizzatori, ma anche quelle dal lato operatori. E quindi, deve implicare una riduzione dell’intensità di partecipazione anche per loro.
Se e come in futuro tutte le scuole e le biblioteche, le case di quartiere e quelle della comunità potranno andare davvero in questa direzione, e se e come le portinerie sociali, i negozi attivi di prossimità si moltiplicheranno e nasceranno altri luoghi dotati di queste stesse caratteristiche dipende in larga parte da come riusciranno a funzionare chiedendo un’intensità partecipativa accettabile per tutti. Sia sul versante degli utilizzatori, sia su quello di chi progetta ed eroga il servizio. Il che può essere fatto muovendosi su diversi piani, raggruppabili in due categorie di azioni: progettazione di sistemi abilitanti e sviluppo di nuove politiche pubbliche.
Rispetto al primo punto, va detto che alcune tra le iniziative indicate come prototipi di servizi pubblici collaborativi sono iniziate decenni fa. Quindi prima del diffondersi della connettività e dei media digitali; prima dell’emergere dell’innovazione sociale di cui qui stiamo parlando; prima della crescente crisi sociale che stiamo vivendo. Altre sono nate più di recente, anche sotto la spinta di questi temi. Ora questi prototipi possono essere fatti evolvere progettando servizi coerenti con le possibilità contemporanee.
Per farlo, è ovviamente fondamentale il ruolo di tutti i metodi progettuali che abilitano la collaborazione e delle tecnologie digitali (cioè della connettività, dei social media, dei servizi e piattaforme). Ad essi occorre guardare come strumenti non solo per la co-progettazione, ma anche per la co-produzione. Cioè per la loro capacità di facilitare il coordinamento operativo e di dare i supporti tecnici necessari per far funzionare le cose. In altre parole esse devono costituire l’infrastruttura sociotecnica di connessione di queste diffuse attività di co-progettazione e co-produzione di cui stiamo discutendo. Su questa azione emerge chiaramente un ruolo proattivo del terzo settore, parte integrante del sistema culturale e di welfare del nostro paese.
Qui occorre introdurre il secondo punto, quello delle politiche pubbliche e degli strumenti giuridici, amministrativi e organizzativi necessari per portare l’idea dei servizi pubblici collaborativi a maturità. Non si tratta solo di fare dei bandi evoluti o dei processi di partecipazione mirati. E neppure di predisporre usi gratuiti nelle sale delle biblioteche. In ogni settore o area dell’Amministrazione, si tratta di accompagnare un mutamento con impatti nel diritto, nella comunicazione, nell’organizzazione. Si tratta di rimettere le persone al centro, con i loro bisogni e le loro competenze dando fiducia e collaborazione, superando l’idea che l’amministrazione controlla i cittadini e che per scegliere serve creare percorsi competitivi. Non ci sono comunicazioni ma conversazioni, il tempo diventa fattore di abilitazione di cura, perché le relazioni diventano elemento preliminare a qualsiasi percorso.
Serve progettare e gestire servizi che, una volta messi in pratica, lascino spazio alla partecipazione. Servizi che abbiano in sé quello che potremmo dire “un vuoto da riempire” con le azioni e le scelte dei cittadini. Servizi-piattaforma per i quali, chi progetta e amministra accetti, e veda come un suo successo, il fatto che questi vuoti vengano riempiti da altri. Che generino azioni e scelte che non sarà lui a fare. In definitiva, chi progetta e amministra deve accettare e promuovere una ridistribuzione del potere.
Quello di cui stiamo parlando è dunque un profondo cambiamento di sistema: se fosse messo in atto diffusamente permetterebbe la diffusione di modi di essere e di fare che sono collaborativi ma, al tempo stesso, leggeri, modulabili e flessibili. E, per questo, compatibili con la vita quotidiana di una varietà di persone. Comprese quelle che non sono nelle condizioni di agire come eroi sociali. E questo sia sul versante delle persone attive, che su quello di chi questi servizi li organizza e gestisce.
6. Dai prototipi alle politiche: una discussione da continuare
Abbiamo visto che i servizi di cui qui parliamo, seppure nella loro forma di prototipi, di per sé, non sono una novità. Ciò che con queste note abbiamo voluto fare è di metterli in parallelo e guardarli nel loro insieme. E passare dalle buone pratiche singole a politiche. Ciò che dunque in queste note ci pare nuovo è il fatto di dare un nome comune ad esperienze che fino, ad ora, sono state discusse separatamente, come espressione di specifici e diversi campi d’azione.
Adottando questo sguardo d’insieme ci pare che diventi più facile riconoscerne il valore e promuoverne l’evoluzione da prototipi a forme più mature di servizi che abbiamo chiamato servizi pubblici e collaborativi: pubblici, perché aperti ed accessibili a tutti; collaborativi, perché capaci di dare a tutti, anche a chi ha da investirvi poche risorse (in termini di tempo, attenzione ed energia), la possibilità di essere e sentirsi parte di progetti condivisi attinenti la qualità dell’ambiente in cui si trovano a vivere.
Abbiamo poi visto che, per svolgere questo duplice ruolo, questi servizi devono anche essere trasversali alle politiche e distribuiti sul territorio (in modo da arrivare anche nelle aree più difficili. Anzi: in modo da a partire dalle aree più difficili).
L’insieme di questi caratteri fa dei servizi pubblici collaborativi delle infrastrutture capaci di produrre ambienti ricchi di possibilità per tutti. Nel senso che in essi tutti hanno la possibilità di partecipare e di farlo in modo coerente con i propri interessi e le proprie disponibilità. In altre parole, ambienti in cui tutti sono messi nelle condizioni di essere attivi, anche senza diventare degli attivisti, e di stabilire relazioni collaborative, anche senza prendersi l’intera responsabilità di un progetto ed anche senza sentirsi parte organica di una comunità.
Ci è ben chiaro che ottenere questi risultati come frutto di un’azione dall’alto, è quanto mai difficile. Anzi, il farlo in modo diretto è impossibile: le relazioni umane, la collaborazione, la cura reciproca non possono essere decise, progettate e prodotte per decreto. Quello che però si può fare invece, è il promuovere, anche dall’alto, le condizioni che, a livello molecolare, rendano possibili e probabili delle iniziative di prossimità dotate di una spiccata vocazione all’apertura e al coinvolgimento. E quindi tali da stimolare e supportare una varietà di forme di collaborazione.
In queste note abbiamo cercato di anticipare alcune idee su come si potrebbe fare. Ciononostante, tutto quello che fin qui abbiamo proposto è una materia molto discutibile e va discussa su diversi punti. I più profondi (cioè quelli da cui tutti gli altri discendono) ci sembrano questi: possiamo davvero immaginare servizi pubblici che siano anche dei campi di possibilità per un’ecologia di forme di partecipazione? E’ possibile cioè creare condizioni tali per cui tutti possano partecipare e collaborare? Dove “tutti” include anche chi è più povero di tempo, energie ed attenzione da investire in progetti collaborativi, chi deve crearne le premesse politiche, amministrative e organizzative, ed anche chi, dall’interno di questi nuovi servizi pubblici, si troverà a dover quotidianamente stimolare, coordinare e, in vario modo, supportare una molteplicità di progetti collaborativi.
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