L’ultima rilevazione Audiweb ha stimato che il tempo medio di connessione alla Rete degli italiani è pari a circa tre ore nel giorno “medio”, in crescita del 5,6% mese su mese. Secondo l’indagine, il tempo di connessione tende a diminuire in base all’età, passando dalle oltre tre ore per gli individui dai 18 ai 24 anni alle due ore e venti per gli ultrasessantenni, senza mai azzerarsi del tutto. Motori di ricerca, fornitori di servizi e piattaforme di riproduzione video sono le categorie di siti web su cui viene dedicata la maggior parte del tempo.
Ricerche come questa stanno già diventando rapidamente obsolete, tuttavia, con grande sorpresa di chi ritiene sia ancora possibile distinguere in maniera netta tra il tempo speso “online” e il tempo dedicato alle cose e alle relazioni nel mondo “offline”. Da tempo la connessione alla Rete non avviene più solamente tramite pc, smartphone o tablet, perché sono sempre più numerosi gli oggetti connessi presenti nelle case: videocamere, televisori, frigoriferi, smart speaker, smartwatch e innumerevoli tipologie di oggetti e prodotti “smart” che accumulano di continuo dati sulle abitudini, i gusti, i comportamenti dei consumatori.
Circondarsi di oggetti che hanno bisogno di essere connessi per poter funzionare implica, in questo senso, l’impossibilità di distinguere nettamente tra tempo di connessione e tempo di disconnessione in senso assoluto. Anche durante il sonno uno smartwatch indossato al polso può rilevare i parametri vitali e comandare a uno smart speaker il momento ideale in cui far partire la musica per il risveglio, accendere le luci del soggiorno, preriscaldare la macchina del caffè. In una casa connessa il tempo dedicato alla conversazione o al gioco con gli altri componenti della famiglia trascorre in una continua attivazione di sensori collegati alla Rete: vuoi per rispondere a un comando vocale (“che tempo farà oggi?”, “metti una canzone”, “accendi la luce del salotto”) vuoi per compiere specifiche azioni in base alle informazioni ricevute dall’esterno (ad esempio, chiudere le finestre in base alle previsioni del meteo).
Questa condizione di connessione perpetua è la realtà quotidiana di un numero significativo di individui, almeno secondo i dati del Politecnico di Milano secondo il quale sono più di 140 milioni gli oggetti connessi attivi in Italia nel 2023, per una media di più di due a persona. Dati probabilmente sottostimati rispetto a oggetti utilizzati in maniera condivisa da più persone all’interno dello stesso nucleo familiare, e che raccontano una silenziosa ma irreversibile trasformazione delle abitazioni private in luoghi costantemente connessi alla Rete, attraverso oggetti che rimangono in funzione anche quando apparentemente non vengono utilizzati da nessuno (basti pensare al destino di molti smart speaker, acquistati nel momento di massimo entusiasmo per questi dispositivi e ora sottoutilizzati rispetto alle loro possibilità).
Sarà sempre più difficile, in questo scenario, ridurre al minimo la propria esposizione alla sorveglianza digitale, come molte persone hanno cercato di fare in questi ultimi anni non aderendo o disiscrivendosi dai social media, o ritardando fino all’inverosimile l’acquisto di uno smartphone o di un computer di nuova generazione. Non avere prodotti “smart” in casa propria non sarà sufficiente, infatti, per non finire nel raggio d’azione di una videocamera, di un microfono, di un sensore di un oggetto connesso alla Rete nel momento in cui si deciderà di varcare la soglia dell’abitazione di un amico, di un collega, di un ufficio, di un luogo frequentato da altre persone. Non sarà neppure possibile poter disporre sempre e comunque di alternative analogiche per soddisfare bisogni e necessità quotidiane. Anche solo ascoltare una canzone, o vedere un film, o leggere un libro “offline” potrebbe presto diventare una possibilità alla portata di pochi, a causa del venir meno dei supporti tradizionali.
Di fronte alla prospettiva di un’intera esistenza trascorsa in uno stato di perenne connessione credo che l’errore di valutazione più grande sia quello di giudicare questa trasformazione unicamente dal punto di vista personale, pensando che ciò che non pone gravi rischi per la propria salute, privacy, libertà individuale non possa generare rischi per gli altri. È sufficiente soffermarsi a riflettere su quali potrebbero essere le conseguenze per la vita di un minore costantemente sottoposto in casa “propria” alla sorveglianza di gesti, parole, movimenti, abitudini da parte di decine di oggetti connessi alla Rete – a cui sommare la sorveglianza compiuta dai social media, motori di ricerca, siti web – per rendersi conto di come sia irrealistico pensare di gestire questa nuova condizione esistenziale con gli strumenti tecnologici e normativi attuali, per di più in assenza di una vera educazione digitale.
Sarebbe un errore, inoltre, pensare di poter circoscrivere in maniera netta tra categorie di persone a rischio e non, tra coloro che possono vivere serenamente in un ambiente perennemente connesso alla Rete e altri per i quali è necessario prevedere un livello di sicurezza ulteriore e preventivo. I rischi che gli oggetti connessi portano con sé possono variare con il tempo in base al contesto, all’ambiente in cui vengono utilizzati, alle scelte delle aziende produttrici, alle intenzioni di coloro che ne detengono le credenziali di accesso. Un esempio, in tal senso, viene da numerosi casi di violenze domestiche perpetrate tramite gli oggetti connessi nei confronti di partner ed ex partner: dall’ascolto delle conversazioni al monitoraggio dei comportamenti e della posizione di questi ultimi, fino ad arrivare all’utilizzo degli oggetti da remoto per creare senso di panico, di impotenza, di terrore (ad esempio, aumentando la temperatura di casa, spegnendo le luci, aprendo le porte da remoto).
Il rischio più grave potrebbe essere, infine, quello di dare per scontata l’esistenza di una strutturata e coerente rete di protezione legale e giudiziaria capace di tutelare gli utilizzatori di oggetti connessi nei confronti della perdita di dati personali, delle violazioni informatiche, degli abusi perpetrati tramite oggetti connessi. Nella realtà, questioni di importanza cruciale come il diritto alla riparazione dei software, il diritto alla cancellazione dei dati, la responsabilità dei produttori a fronte di mancati aggiornamenti o vulnerabilità non corrette per tempo, la disponibilità di aggiornamenti nel lungo periodo, la trasparenza sui prezzi, la riutilizzabilità dei componenti, la possibilità di utilizzo in modalità offline e l’ereditarietà degli account sono tutti temi oggetto di leggi e proposte di legge che procedono in ordine sparso, da Paese a Paese, e la cui reale applicabilità coincide con un gigantesco punto interrogativo.
A mancare, più di tutto, è una chiara delimitazione di dove finisca oggi il potere che le persone possono esercitare su un oggetto connesso e dove cominci quello che possono esercitare i produttori, i noleggiatori, i venditori di quest’ultimo. La proprietà degli oggetti digitali, come ho dimostrato attraverso le storie e gli esempi raccolti nel mio libro “L’uomo senza proprietà” (Egea, 2024), può essere descritta come “un’area grigia”, dove coloro che hanno regolarmente acquistato uno smart speaker, un televisore, una videocamera, un giocattolo, un ebook o qualsiasi altra tipologia di prodotto connesso dispongono solo in parte del pieno controllo di quest’ultimo. La possibilità di riparare l’oggetto, di modificare le sue modalità di utilizzo, di condividerne l’accesso con più membri della famiglia o con amici, di poterlo rivendere ed ereditare dipendono dai suoi termini di utilizzo, che spesso tendono a penalizzare oltre misura gli utenti per contrastare al fine di contrastare gli abusi (si pensi, per fare un esempio, alle sempre più stringenti restrizioni riguardanti la condivisione di account di servizi di streaming).
La sfida che abbiamo di fronte, a mio giudizio, è quella di non farsi cogliere impreparati una seconda volta. La condizione degli uomini e delle donne “senza proprietà” del mondo digitale è una realtà già nota agli utilizzatori abituali dei social media: gli account che le persone aprono su Facebook, Instagram o TikTok per intessere relazioni, condividere contenuti, costruire community e acquisire visibilità rimangono infatti di proprietà delle aziende che forniscono il servizio, con grave danno per coloro che si vedono chiudere il profilo dopo averlo curato per anni. Una dinamica che si ripropone pressoché identica con gli account che servono a registrarsi ai servizi e utilizzare gli oggetti digitali: account che possono essere limitati nelle loro possibilità essere costretti a pagare un “extra” per funzionalità dapprima gratuite, quando non sospesi per presunte violazioni dei termini di servizio o impossibilitati a condividere l’accesso a più utenti contemporaneamente o nei confronti dei propri eredi.
Eppure, di tempo per prepararci a questo scenario ne dovremmo avere già avuto a sufficienza.