In un bar di East London sto aspettando Sam. Sam ha ventisei anni, si è laureato a Oxford in letteratura inglese, ed è in procinto di completare un master a Londra. Arriva, vestito come sempre con maglione e pantaloni scuri dal taglio semplice, calzini di spugna bianchi, e scarpe stringate nere. Ordina un flat white, che è la sua bevanda preferita, oltreché il simbolo della hipster economy. Io prendo un vittoriano earl grey. Nel corso di tre ore e due flat white, Sam mi racconta del modo in cui lui e le persone intorno a lui usano Tinder, o altre app simili. Descrive il suo rapporto con Tinder come una “relazione intermittente”, spesso infatti lo cancella perché “è frustrante”, ma poi lo rimette perché la sensazione di “far qualcosa” per la sua dating life lo fa sentire meglio, ed inoltre è divertente parlarne con gli amici, specialmente con le sue coinquiline.
In circa un anno Sam è uscito soltanto con due ragazze. Appuntamenti che si sono conclusi con un educato saluto, e che non hanno portato a niente se non ad un ritorno alla app. Altri appuntamenti sono stati disdetti all’ultimo momento, a volte in modo brutale, come quando una ragazza poco prima di incontrarlo gli scrisse: ‘Are you tall?‘, Sam onestamente rispose ‘Not particularly‘, e così non se ne fece di nulla. Sam si chiede che ci faccia la gente su Tinder e che ci fa lui stesso. Io gli faccio eco: “Se Tinder serve a incontrarsi, che senso ha usarlo senza incontrarsi?”. Come disse mio fratello Arturo, giocando con il paradosso: “Sarebbe come usare Uber giusto per vedere che autisti ci sono in giro, ma senza voler andare da nessuna parte!”.
Eppure è quello che molti fanno. Usano Tinder o simili, ma non si incontrano, magari si scrivono per un po’, a volte pochissimo, spesso neanche quello. Sophia, una ragazza di appena vent’anni che studia Media nel nord dell’Inghilterra, mi ha confessato che lei usa la geolocalizzazione addirittura “al contrario”, cioè per vedere solo quelli che stanno a più di qualche miglio di distanza, perché sarebbe “troppo imbarazzante incontrare, magari all’università, qualcuno con cui hai matchato!”. E io che, probabilmente vittima di un pregiudizio provinciale, pensavo che queste app venissero usate proprio per incontrarsi, e magari in senso biblico!
Non intendo certo negare che ci siano persone che usano Tinder per far sesso – ne conosco almeno un paio cui Tinder permette una certa serialità – e nemmeno voglio dire che non ci si possa innamorare di qualcuno incontrato tramite un’app – proprio una settimana fa sono andata al primo compleanno della figlia del mio ex-coinquilino, che ho visto transitare, grazie a Tinder, dallo stato di asociale perennemente cotto d’erba, a quello di padre di famiglia che griglia salsicce nel cortiletto di una casa di proprietà. Tuttavia, questi non sono gli unici propositi per cui l’app viene usata. Tinder fa anche altro. È pur vero, come mostra per esempio Lisa Wade, che i millennials non sembrano essere granché interessati al sesso. Forse, come diceva Lacan, e come non si stanca di ripetere Arturo, che oltre ad essere mio fratello è il mio lacaniano di riferimento “la liberazione del sesso si tramuta in una liberazione dal sesso”. Probabilmente in una società in cui la razionalità produttiva si è insinuata in ogni dimensione della vita, l’amore risulta come un’inutile perdita di tempo, qualcosa che in fondo non serve a niente? Ha ragione Zizek quando dice che viviamo nell’epoca dell’amore razionalizzato, sterilizzato, love without the fall?
Allora forse potremmo guardare a Tinder come a ciò che permette in effetti di non incontrarsi, pur rendendo possibile la mobilitazione della dimensione sessuale ed amorosa. Tinder sta al posto dell’incontro, al posto della seduzione, al posto dell’amore. Questo significa che piuttosto che domandarsi come ci si relaziona agli altri tramite Tinder, occorre chiedersi come ci si relaziona a Tinder tramite gli altri. Si tratta di un rivoltamento di prospettiva suggerito da tempo dagli studiosi dei media che, da McLuhan in poi, ci hanno insegnato che la tecnologia è anche soggetto, agisce, crea, molto più di quanto il nostro antropocentrismo ci consenta di ammettere. Come scrisse Donna Haraway: ‘Le nostre macchine sono vitali in maniera disturbante mentre noi siamo spaventosamente inerti’.
Tinder è vitale perché fa qualcosa, e ci fa fare qualcosa. Innanzitutto, banalmente, Tinder intrattiene, tiene compagnia. Sam ha romanticamente sottolineato che lui su Tinder ci va soprattutto quando è al bagno. Rose, coinquilina e coetanea di Sam, la pelle radiosa di chi veste cashmere e ha letto Jane Austen, mi disse che usava Tinder soprattutto in malinconiche giornate di hangover. Stiamo su Tinder in modo quasi compulsivo, senza un’intenzione precisa, come d’altronde accade per Instagram o Facebook, e però non per molte altre app (chiedetelo agli startappari falliti). Dunque un’app, per attirare la nostra compulsione, per chiamare a sé le nostre mani, deve pur darci qualcosa.
Una delle cose che Tinder fa e che dà, senza bisogno di nessun incontro se non con Tinder stesso, è il match. Molti telefoni sono pieni di matches, e nessuna o pochissime conversazioni (ma che te devo di’?). Io stessa ieri mattina, indulgendo in una dolce pigrizia domenicale, la brezza leggera di Napoli come una carezza, ho matchato con tali Paolo e Michele, ma nessuno dei due mi ha scritto, e non credo lo faranno mai. Stanno là sul mio telefono in qualità di matches, di possibilità di dialogo (incontro?) in giacenza, i matches si possono accumulare. “Quanti matches hai?”. Il match dà una momentanea sensazione fisica di benessere, un’allerta, un risveglio, il match è un segno – sta per qualcosa, rimanda a qualcosa – è una conferma – sì, piaci, sei bella, sei attraente. Il match è un algoritmico solletico seduttivo che Tinder ti sa procurare. E che ti fa aspirare a cosa? Ad altri matches. In una ricorsività di cui l’app è il fulcro.
D’altronde, anche qualora avvengano gli appuntamenti possono subitaneamente prendere una brutta piega. Brad, studente di Media in un paesino del Regno Unito, diciannove anni, non molto attraente secondo i canoni estetici tradizionali, eppure nel processo di rivedere il suo guardaroba in chiave hipster, e dunque possessore di una maglietta nera con dei fenicotteri rosa, ha usato Tinder per qualche mese, ma è riuscito ad organizzare un solo appuntamento. È andato a passeggiare per le vie del centro di Peterborough con una ragazza che studia veterinaria, appassionata di cani, e che per mezzora gli ha parlato del suo cane. Brad, in un moto di sincerità, le ha confessato di essere allergico ai cani. Appuntamento finito.
Comunque, anche nel caso in cui l’appuntamento si svolga senza brusche rotture, sembra difficile che ve ne possa seguire un secondo. Spesso la sensazione è che sì, magari si è anche stati bene, ma perché rivedersi? Giulia, una ragazza di Venezia di 26 anni che si sta facendo strada nell’industria creativa londinese, al secondo appuntamento con un tizio che “non aveva nulla di sbagliato” se n’è andata dopo giusto un’ora perché non era “scattato niente”. Quando me lo raccontò pensai che Tinder sembra imporre una temporalità davvero impietosa: in poche ore bisogna decidere se la persona può essere giusta, se qualcosa scatta o non scatta, quando è più che logico che per sentirsi attratti da un altro essere umano possa volerci del tempo. “Vero” rispose Giulia “Ma mica posso uscirci di nuovo se non mi va?”. Sacrosanto. Ma perché quando c’è Tinder di mezzo è così difficile sentirsi curiosi? Esperire il desiderio di conoscere l’altro?
Forse perché invero la relazione la si ha con Tinder, è Tinder a significare l’orizzonte di possibilità inesplorate che è parte essenziale della seduzione (quello che quando cominciamo a desiderare ci fa chiedere “mi chiamerà? che farà? che ne sarà di noi? come sarebbe andare al parco insieme? come sarebbe farsi toccare?”). È Tinder, con il suo accumulo di matches, con la sua incessante e ripetitiva offerta, a sussumere in sé e ri-mediare il senso di infiniti possibili che è causa del nostro desiderio, amoroso e non solo. Tinder ti dice: ‘Ehi guarda quante persone ci sono, con ognuna di queste ci potresti parlare, potresti incontrarla, potresti scopare, sposarti, fare figli, morire, chissà, guarda, guarda…’. Così facendo Tinder esibisce un simulacro di seduzione poiché detiene il potere di produrre l’immaginario essenziale alla creazione dell’oggetto amoroso, appropriandosi della virtualità dei mille futuri possibili. In questo quadro l’appuntamento in sé, l’appuntamento con un altro essere umano, è già possibilità cristallizzata, è già morta. È già formalizzazione ossificata del magma seducente di possibilità che abita nella app.
E quindi c’è poco da esser curiosi. E neanche da soffrirne però: non importa cercare di convincersi per alimentare il desiderio (alzi la mano chi non l’ha mai fatto – per noia o per eccesso di ottimismo) perché non c’è nessun horror vacui dopo la fine brutale di un inizio. Tinder sta là a offrirti di nuovo l’accumulo di possibilità, a sedurti con i suoi matches, a intrattenerti se ti annoi, a riempire il vuoto di segni, incoraggiarti poi, quanto matchi, con le sue frasette. Infatti, una volta matchato con qualcuno, Tinder vi scrive cose del tipo “Are you waiting for an invitation?”, provocandovi, sarcastico. Oppure: ‘#WeBothSwipeRight”, per una rassicurazione 2.0. O ancora: “Send a message before your battery dies’ giocando sul senso dell’urgenza. Ne sa una più del diavolo.
E poi, grazie a Tinder, si può parlare della propria dating life, si può fare del gossip, interpretare, giudicare, immaginare, chiedere “cosa gli scrivo?”, chiedersi “Chissà se mi scrive?”. Permette quindi, da sé, senza bisogno che un incontro romantico avvenga, di accedere alla dimensione sociale del discorso sull’amore, sul sesso, sugli incontri. In effetti è una delle cose più divertenti che si possono fare con Tinder, usarlo in compagnia, giocare a Tinder insieme. Non è un caso che la maggior parte delle persone installi l’app insieme a degli amici, e insieme scelga le foto e la biografia da inserire. Io stessa, al momento di mettere Tinder, ho aspettato una cena con amici, perché da sola mi sembrava una cosa triste. E i momenti in cui Tinder mi è sembrato più interessante sono quando ne ho parlato con gli altri, ascoltando i loro consigli, le opinioni, i pensieri. Davanti ad una pizza cattiva in un ristorante hipster di Covent Garden, Sam ha puntualmente osservato: “è un triangolo tra te, me, e Tinder”.
Naturalmente questo è sempre accaduto, nel senso che parlare delle proprie conquiste, interpretando i messaggi, prospettando scenari possibili, è parte della cultura legata al sesso e all’amore da molto tempo. Ad essere notevole però è il fatto che Tinder renda possibile accedere a questo linguaggio, a questa dimensione sociale dell’amore e del sesso, che è anche legata all’acquisizione di un certo status (non passare per sfigate, o sfigati, represse, problematici…), senza dover necessariamente incontrare davvero qualcuno. Basta l’app.
Tinder intrattiene, gratifica, talvolta delude, sempre seduce. Si fa portatore dell’orizzonte di possibilità che definisce il gioco amoroso nelle sue fasi iniziali, si fa portavoce di incoraggiamenti e ingiunzioni, richiede e dà, rifiuta e disattende. La sua automatica e ripetitiva produzione di segni (il match, il super-like, il messaggio ricevuto) articola un certo tipo di pienezza, in ultima analisi un riempitivo, un segnaposto che si posiziona nello spazio dell’incontro. E poiché provvede l’immaginario amoroso, producendo un discorso amoroso senza bisogno di referente alcuno, esso solleva dal rischio e dall’impegno. Difatti per alimentare tale discorso e immaginario tutto ciò che è richiesto sono piccoli automatismi, compulsioni, azioni senza un vero referente o con così tanti referenti da annullarsi a vicenda.
Nell’incontro con un altro soggetto, per riuscire ad alimentare l’immaginario e il discorso amoroso sarebbe necessario rischiare, esporsi, proporsi, ferire, ferirsi. Lo sa bene chi ama l’amore e si strugge pur di mantenerne in vita immagine e discorso. Lo sa bene chi, come Dorothy Parker, ha aspettato una telefonata come si aspetta un segno divino. Tinder invece offre la possibilità di accedere a discorso e immaginario senza dover davvero farsi vedere, senza rischiare l’orrore della fine, il dolore del trauma, l’angoscia dell’incertezza. Quello che si riceve in cambio è un immaginario vuoto, destituito di soggettività. La struttura dell’immaginario senza immagine, la struttura del discorso senza linguaggio, l’amore senza soggetto. In una società che impone l’amore e il sesso come forme di affermazione narcisistica del sé, trasformandoli così in domanda, imperativo, e ostruendo lo spazio del desiderio, Tinder è ideale perché permette di rispondere all’imperativo senza però desiderare.
Immagine di copertina: ph. Amy Shamblen da Unsplash