La pandemia esplode nei luoghi più fragili del mondo, dove mancano acqua e casa

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    In questo weekend ho passato molte ore pensando ai progetti che coordino ed a quelli che sarebbero dovuti partire in questo periodo in Senegal, Madagascar e Kenya. Da questi pensieri sono scaturiti diversi stati d’animo, per prima cosa, ho provato nervosismo e preoccupazione legata ai fattori economici e sociali che questo slittamento progettuale ha comportato.

    In un secondo momento, però, la mia mente ed il mio cuore sono andati alle comunità che vivono nei paesi dove solitamente operiamo, il mio nervosismo è sparito ed è subentrata la preoccupazione per le condizioni igienico sanitarie nel quale vivono queste comunità, principalmente nei Paesi in Via di Sviluppo, le quali potrebbero essere messe a dura prova qualora il COVID-19 prendesse piede e si sviluppasse con la stessa forza che ha avuto in occidente.

    La mia società e la NGO di cui sono direttore italiano, se sommate, hanno un network di collaboratori e colleghi in più di 30 paesi nel mondo. Inviando qualche messaggio WhatsApp a colleghi ed amici ho capito che la preoccupazione si percepisce al sud come al nord, la si percepisce nelle favelas brasiliane, nei barrios venezuelani, nelle township sudafricane e negli slum in Kenya e India.

    Qua il report della Banca Mondiale sulla percentuale di popolazione urbana che vive in baraccopoli che conferma quando sia impossibile un distanziamento sociale. Quello che mi sto chiedendo e che sto chiedendo ai miei collaboratori più fidati è cosa succederà quando il COVID-19 si diffonderà in posti come questi? Cosa succederà quando si svilupperà colpendo il sottoproletariato globale in paesi con sistemi sanitari deboli e già vicini al collasso prima della pandemia?

    Il lockdown per imporre il distanziamento sociale ha provocato proprio il suo opposto, ovvero la compressione fisica, poveri asserragliati in anguste e baraccopoli con un problema importantissimo legato all’igiene sanitaria.

    Nelle Favelas brasiliane sono in aumento i casi, con un aumento simile a quello delle prime settimane italiane. Luiz Henrique Mandetta, Ministro brasiliano della sanità, ha detto che alla fine di aprile gli ospedali potrebbero collassare, dopodiché si è dimesso a causa di uno scontro con il presidente Bolsonaro sulla gestione dell’Emergenza, questo succedeva sue settimane fa.

    Nello stesso momento, i pellegrini sciiti di ritorno dall’Iran hanno contribuito a diffondere il virus in Medio Oriente, il 25 aprile il capo dell’ufficio per le malattie contagiose del ministero della salute irariano ha avvertito che le i contagi e le morti da Covid-19 sono in crescita.

    In India la situazione è molto complessa e la migrazione interna sta mettendo a dura prova un sistema sociale e sanitario già precario, migranti che dalle città in quarantena scappano verso i villaggi di provenienza. L’india ha messo in mostra tutte le sue diseguaglianze economiche e sociali, ed allo stesso tempo ha evidenziato la sua indifferenza nei confronti di chi soffre.

    Mentre l’industria ed i ristoranti chiudevano, i ricchi e la borghesia si rifugiavano nelle loro case, le capitali indiane hanno iniziato ad espellere i loro lavoratori ed operai, spesso migranti, come se fossero un oggetto estraneo e indesiderato. Molti sono stati licenziati dai loro padroni e milioni di persone povere, affamate, assetate, giovani o vecchie, senza un posto dove andare, hanno iniziato un viaggio di fortuna verso i loro villaggi nati. Qualcuno è morto lungo la strada mentre camminava verso casa, con la speranza di non morire di fame, sapendo che avrebbero corso il rischio di infettare i loro familiari, ma il bisogno di accoglienza e dignità, oltre che di cibo, hanno vinto contro la paura del virus.

    Non tutti sono riusciti ad abbandonare le capitali, dopo giorni di cammino sono stati fermati e costretti a tornare negli accampamenti delle città da cui stavano scappando. E così anche i senzatetto ed i disoccupati sono dovuti restare nelle città, dove la miseria era in crescita già prima della pandemia. Sul tema riguardante la crisi abitativa e lo sviluppo urbano dobbiamo porre la lente di ingrandimento anche su quello che sta succedendo in Sudafrica, dove in alcune città stano continuando le demolizioni di baracche nelle township.

    Questi interventi rischiano di peggiorare la crisi sanitaria durante il lockdown che in Sudafrica è in vigore dal 27 marzo e dovrebbe allentarsi proprio nei primi giorni di maggio). A Lawley, vicino Johannesburg, sono state distrutte decine di abitazioni irregolari, informa News24. A marzo invece è toccato a Khayelitsha, vicino a Città del Capo, dove sono state demolite oltre 49 abitazioni, ma un tribunale ha stabilito che la polizia aveva abusato dei suoi poteri.

    Il lockdown per imporre il distanziamento sociale ha provocato proprio il suo opposto, ovvero la compressione fisica, poveri asserragliati in anguste e baraccopoli con un problema importantissimo legato all’igiene sanitaria. Questo ci fa pensare che l’esodo di migrazione interna indiana, dove riuscita, è causata dalla divisione in classi sociali.

    Un altro aspetto interessante è che i migranti di questo esodo non sono neanche le persone più povere, ma quelle che fino ad un attimo prima della pandemia avevano un lavoro, preoccupate per il virus certamente, ma ancor di più per la fame e la violenza della polizia.

    Alcuni paesi come l’India ed il Brasile, oltre ad essere grandi come continenti, sono potenze economiche, accomunate da diseguaglianze sociali, da un alto tasso di malattie pregresse, da piccole élite e grandi fette di popolazioni povere che non hanno i mezzi necessari per accedere ad informazioni corrette e soprattutto autorevoli. In India, tre milioni di persone soffrono di tubercolosi ed ottanta milioni di diabete, mentre il sistema immunitario di molti africani, al contrario, è indebolito dalla malnutrizione e dalla malaria.

    La situazione in Africa non è molto diversa. In Tanzania, il presidente John Magufuli sta lanciando appelli per riunirsi nelle chiese per pregare contro la pandemia giocando, così, con la salute della popolazione. In Malawi, dove più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, i letti di terapia intensiva sono 25. In Mali e in Mozambico i respiratori sono uno su ogni milione di abitanti, in questi paesi c’è un medico ogni 5000 abitanti, mentre in Europa possiamo trovarne uno ogni 300 abitanti. La verità è che sono le cose per noi più banali, a mancare nei paesi emergenti, come sapone, disinfettanti ed acqua pulita.

    Sono numeri impressionanti, ma fanno capire perché alcune nazioni africane hanno chiuso le frontiere ancora prima che si accertassero casi di COVID-19. È stato così in Sierra Leone ed in Madagascar, dove sarei dovuto andare a luglio per costruire una serra idroponica all’interno di una scuola ed iniziare un percorso di formazione per la coltivazione fuori suolo.

    Capisco il pensiero che ha portato questi governi alla chiusura totale, il problema però, è che in questi paesi il contenimento pesa ancora di più e sono completamente d’accordo con la dichiarazione del primo ministro pakistano, Imran Khan, che ha detto: “ Se chiudiamo le nostre città salveremo le persone dal virus, ma le condanneremo a morire di fame”, perché la maggior parte di queste persone sono prive di una rete sociale e sanitaria che possa sostenerle.

    La pandemia è arrivata in un momento devastante per il continente africano, che vede alcuni paesi ancora in lotta contro l’ebola ed altri che stanno combattendo contro le locuste, dove la seconda ondata sarà venti volte più grande della prima e decimerà i raccolti del Kenya, dell’Etiopia e di tutta l’Africa orientale in generale.

    Secondo gli esperti, le uova nate dalla prima ondata di locuste si stanno schiudendo e la loro maturità coinciderà con la stagione delle piogge e della semina, rappresentando una minaccia per la sicurezza alimentare, già precaria nella regione.

    Nella Repubblica Democratica del Congo pochi giorni fa una alluvione ha travolto la città di Uvira, Fiumi di fango precipitati dai monti hanno travolto ogni cosa: case, auto, persone. Le barche del lago Tanganica sono state scaraventate dove prima c’erano le strade. Le persone rimaste senza dimora sono decine di migliaia, i morti centinaia.

    Vi è un grande problema finanziario nell’economia del sud del mondo. Le conseguenze sulle economie dei paesi emergenti hanno appena cominciato a manifestarsi e secondo l’economista Joseph Stiglitz, ci sono buone ragioni per ritenere che questi paesi saranno devastati dalla pandemia, molto più delle economie avanzate. Questi paesi infatti hanno già perso investimenti di miliardi di dollari, non hanno turismo e la produzione di materie prime ha subito un forte calo, riducendo fortemente i redditi.

    Sono venute a mancare anche le rimesse dei migranti, anche loro in difficoltà nei paesi occidentali, facendo crollare economie familiari che basavano l’intera sussistenza su questo trasferimento di denaro da parte dei loro familiari partiti in cerca di fortuna nel nord del mondo. Quando la gente vive alla giornata, senza protezione sociale, perdere il reddito può portare a morire di fame.

    Un rapporto del 30 marzo della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) ci offre una panoramica di quello che succederà alle economie emergenti. Le più dinamiche hanno puntato sulla crescita di reddito guidata dalle esportazioni, che però adesso crolleranno per la contrazione dell’economia globale. Per molti paesi sarà impossibile rinnovare, a condizioni ragionevoli, i debiti in scadenza quest’anno.

    Per evitare un fallimento economico al continente africano, servirebbero più dei 50 miliardi previsti dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Intanto Trump ha deciso di bloccare i fondi all’Organizzazione Mondiale della Sanità da parte degli USA, il primo contributore con 400-500 milioni l’anno. La crisi economica è arrivata, quella politica continua.

    Per evitare un fallimento economico al continente africano, servirebbero più dei 50 miliardi previsti dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale

    Dobbiamo ammettere che questa terribile disperazione ci offre la possibilità di rivedere la struttura sociale ed economia che abbiamo costruito negli anni. Niente potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità, a questa insostenibile normalità. Perché ha ragione Alessandro Gilioli quando, nel suo articolo del 17 marzo 2020 per L’Espresso, ha dichiarato “una puttanata” l’essere tutti uguali di fronte al virus e che il virus attacca ugualmente ricchi e poveri. I ricchi ne usciranno indeboliti (alcuni) i poveri, invece, moriranno e chi riuscirà a sopravvivere, vivrà una vita segnata dal dolore, senza il supporto e l’assistenza sociale necessaria, soprattutto nel sud del mondo.

    Storicamente le grandi crisi sociali, sanitarie ed economiche hanno imposto all’uomo di rompere con il passato e ridisegnare un nuovo futuro. In questo momento dobbiamo scegliere se tornare alla normalità che ha segnato le nostre vite fino a qualche settimana fa, mantenendo il nostro odio, la nostra avidità ed un capitalismo sfrenato, oppure affrontare il nostro futuro in maniera più socialista ridisegnando un mondo più equo.

    Infine, chi spera che le migrazioni siano frenate dalle immagini degli ospedali europei si sbaglia, perché il virus non ha avuto confini ed anche coloro che vivono in povertà, guerra e condizioni sanitarie inumane, non vedranno confini davanti alla speranza di una Vita piena di dignità. Ad oggi, i poveri sono bloccati, ma le gravi ripercussioni economiche, politiche e sociali della pandemia, li porteranno nuovamente a viaggiare ed emigrare verso una vita migliore e forse, noi, dovremo imparare ad abbracciarli ed aiutarli ad inserirsi in quel mondo, forse utopico, fatto di accoglienza e solidarietà che avremo scelto di costruire.
    Mai, come in questo momento, abbiamo avuto in mano il nostro destino.

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