Pubblichiamo un estratto dal saggio, Materia vibrante. Un’ecologia politica delle cose (Timeo editore, Traduzione Angela Balzano). Ringraziamo l’editore per la disponibilità
Spinoza attribuisce ai corpi una vitalità peculiare: «Ogni cosa, per quanto è in sé, si sforza [conatur] di perseverare nel proprio essere»1Baruch Spinoza, Ethica, p. 178.. Con conatus Spinoza indica l’«impulso attivo», la tendenza a durare e perseverare2Freya Mathews, For Love of Matter, p. 48. . Sebbene egli distingua il corpo umano dagli altri corpi notando che la sua «virtù» consiste nel «vivere secondo la guida della ragione»3Baruch Spinoza, Ethica, p. 169., ogni corpo non umano condivide con ogni corpo umano una natura conativa (e quindi una «virtù» adeguata alla sua configurazione materiale). Con la parola conatus, desiderio, viene qui indicata una potenza presente in ogni corpo:
ogni cosa sia essa più perfetta o meno perfetta potrà perseverare sempre nell’esistere con la stessa forza con la quale comincia a esistere, così che sotto questo aspetto tutte le cose sono uguali.4Ivi, pp. 233-34.
Persino una pietra che cade secondo Spinoza si sforza «per quanto può di persistere nel movimento»5Baruch Spinoza, Lettera 58, p. 2113. In questa famosa epistola Spinoza connette il concetto di desiderio alla critica della volontà umana intesa come libera: «Questa pietra, certamente, in quanto è consapevole unicamente del suo conato al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun’altra causa se non perché lo vuole. E proprio questa è quella libertà umana che tutti si vantano di possedere e che consiste unicamente nel fatto che gli uomini sono consapevoli dei loro appetiti ma ignorano le cause dalle quali sono determinati». Hasana Sharp sostiene che l’analogia tra esseri umani e pietre «non è iperbolica come appare. Per Spinoza, tutti gli esseri, comprese le pietre, […] sono dotati di una forza del pensiero che corrisponde esattamente alla forza dei loro corpi […]. Allo stesso modo ogni essere, nella misura in cui conserva la sua integrità in mezzo a infiniti altri esseri, come sicuramente fa una pietra, è dotato di […] un desiderio di […] preservare e migliorare la sua vita nella misura in cui la sua natura lo consente» (Hasana Sharp, The Force of Ideas in Spinoza, p. 740).. Come nota Nancy Levene, «Spinoza sottolinea sempre la continuità tra l’umano e gli altri esistenti» perché «non solo l’umanità non rappresenta un impero in sé, non è neppure al comando dell’impero, la natura, di cui è solo una parte»6Nancy K. Levene, Spinoza’s Revelation, p. 3. Yitshak Melamed si spinge sino ad affermare che «dal momento che il concetto di conatus […] è alla base della teoria morale di Spinoza, sembra probabile che potremmo persino estendere la teoria morale a ippopotami e rocce» (Yitzhak Melamed, «Spinoza’s Anti-Humanism, p. 161). .
L’idea della potenza delle cose ha una somiglianza familiare con il conatus di Spinoza, così come con il Selvaggio di Henry David Thoreau e con quella presenza disturbante che avvertiva nei boschi di Concord e in cima al Monte Ktaadn, e che si manifestava anche in quel mostro chiamato ferrovia, e in quell’entità aliena chiamata Genio. La natura selvaggia era una forza non-proprio-umana che disorientava e alterava i corpi umani e non umani. Chiamava in causa una dimensione della materia irriducibilmente strana, un esterno. La potenza delle cose è inoltre affine a ciò che Hent de Vries, nel contesto della teologia politica, chiamava «l’assoluto», quella «intangibile e imponderabile» recalcitranza7Hent de Vries, introduzione a Political Theologies, p. 42. . Sebbene l’assoluto sia spesso identificato con Dio, specialmente nelle teologie che enfatizzano l’onnipotenza divina o l’alterità radicale, De Vries lo definisce in modo più aperto come «ciò che tende ad allentare i suoi legami con i contesti esistenti»8De Vries sembra confermare tale associazione quando si chiede se il concetto di Baruch Spinoza di corpi interagenti guidati dal conatus possa spiegare l’emergere creativo del nuovo: «Sembrerebbe che l’eccesso, il dono, l’evento […] non abbiano posto qui» (ivi, p. 22). Perché? Perché l’unico luogo plausibile della creatività è, per De Vries «quasi-spirituale», da cui il nesso con il secondo attributo del dio/natura di Spinoza, ossia il pensiero o le idee. Ma se fosse la materialità stessa ad alimentare la vitalità creativa?. Questa definizione ha senso se guardiamo l’etimologia della parola assoluto: ab (da) + solvere (sciogliere). Assoluto è ciò che è sciolto, senza vincoli. Quando, per esempio, un prete cattolico compie l’atto di ab-soluzione, diventa veicolo di un’agenzia divina che scioglie i peccati dal vincolo che li lega a un’anima particolare: i peccati si ritrovano separati, profughi stranieri che vivono una vita propria, strana e impersonale. Quando De Vries parla di assoluto, si riferisce a qualcosa che nessun parlante potrebbe mai vedere, qualcosa che non è un oggetto di conoscenza, che è staccato o radicalmente libero dalla rappresentazione, un qualcosa che dunque non è nessuna cosa. Ossia l’assoluto non è nient’altro che la forza o l’efficacia della separazione.
Il concetto di assoluto di De Vries, come quello di potenza delle cose che cerco di esprimere, tenta di rendere conto di ciò che si rifiuta di dissolversi del tutto nel sapere umano. Ma c’è anche una differenza di accenti. De Vries concepisce questa esteriorità, questo esterno, prima di tutto come limite epistemologico: in presenza dell’assoluto, noi non possiamo conoscere. Ciò da cui l’assoluto si è separato è proprio il pensiero umano; l’assoluto marca i limiti dell’intellegibilità. La formulazione di De Vries tende quindi a mettere in rilievo gli esseri umani in quanto corpi conoscenti, e non le cose per quello che esse possono fare. Il concetto di potenza delle cose invece considera la cosa come attante; cercherò, cosa alquanto impossibile, di nominare il momento di autonomia (dalla soggettività) agito dalle cose, un momento che deve esistere per forza, dato che le cose affettano realmente altri corpi, accrescendone o diminuendone la potenza. Passerò dal linguaggio dell’epistemologia a quello dell’ontologia, dalla recalcitranza elusiva che oscilla tra immanenza e trascendenza (l’assoluto) alla potenza attiva, terrena, non-proprio-umana (la materia vibrante). Proverò a dar voce a una vitalità intrinseca alla materialità, a liberare la materia dalla lunga storia che la associa all’automa e alla macchina.
Le cose stranamente vive che incontreremo in questo capitolo — un topo morto, un tappo di plastica, un rocchetto di filo – sono i personaggi di una onto-narrativa speculativa. Il racconto si azzarda a offrire un resoconto della materialità, anche se sembra al contempo troppo aliena e troppo vicina per risultare comprensibile, e anche se la lingua si rivela insufficiente allo scopo. La storia renderà evidente in che misura persone e cose si sovrappongono, in che misura il noi e l’esso scivolano l’uno nell’altro. Noi siamo anche non umani, e parallelamente le cose giocano un ruolo vitale nel mondo: è questa la morale della storia. La speranza è che questa storia accresca la sensibilità verso la vita impersonale che ci circonda e ci pervade, che diffonda una maggiore consapevolezza della complessa rete di connessioni dissonanti tra corpi, che inneschi forme più sagge di intervento in questa ecologia.
la potenza delle cose 1: rifiuti
In un soleggiato martedì mattina sulla grata che sormonta il canale di scolo che porta alla Chesapeake Bay, di fronte al Sam’s Bagels di Cold Spring Lane a Baltimore, c’erano:
un guantone da lavoro in plastica nera da uomo,
un fitto tappeto di polline di quercia
un topo morto intatto
un tappo di bottiglia di plastica bianca
un bastoncino di legno liscio
Guanto, polline, topo, tappo, bastoncino. Al primo incontro questi oggetti mi sono parsi oscillare avanti e indietro tra lo status di rifiuti e lo status di cose: da un lato erano cose da ignorare, fatta eccezione per i loro rimandi all’attività umana (le fatiche operaie, il gesto di chi aveva gettato via i rifiuti, il successo del derattizzatore), dall’altro erano cose che reclamano attenzione di per sé, la cui esistenza prescinde l’associazione con significati, abitudini o progetti umani. In questa seconda forma, le cose rivelavano la propria potenza: lanciavano una chiamata, anche se non capivo bene cosa stessero dicendo. Di certo suscitavano in me degli affetti: provavo repulsione per il topo morto (o era semplicemente addormentato?) ed ero turbata dalla sporcizia, ma provavo anche qualcos’altro: una consapevolezza senza nome dell’impossibile singolarità di quel topo, di quella configurazione del polline, di quel tappo di plastica che per altri versi era solo un banale oggetto prodotto in serie.
Ero colpita da quella che Stephen Jay Gould ha definito «lancinante complessità e intrattabilità9Stephen Jay Gould, Structure of Evolutionary Theory.» dei corpi non umani, ma proprio perché ne ero colpita mi resi conto che la proprietà di questi corpi non si limitava a una passiva «intrattabilità» ma includeva anche la capacità di far accadere le cose, di produrre effetti. Se la matericità del guanto, del topo, del polline, del tappo di bottiglia e del bastoncino ha iniziato a luccicare e a scintillare, è stato in parte a causa del quadro contingente che le cose andavano a comporre con la strada, con il tempo quella mattina e con me. Perché se il sole non avesse illuminato il guanto nero, forse non avrei visto il topo; se il topo non fosse stato lì, forse non avrei notato il tappo della bottiglia, e così via. Però c’erano, così com’erano, e quindi ho intravisto una vitalità energetica dentro ciascuna di queste cose, cose che generalmente concepivo come inerti. In questo concatenamento gli oggetti apparivano come cose, cioè come entità vivide non del tutto riducibili ai contesti in cui i soggetti (umani) li collocano, mai del tutto esauriti dalla loro semiotica. Nel mio incontro con la grata di Cold Spring Lane, ho intravisto una cultura delle cose irriducibile alla cultura degli oggetti10Si vedano «Waste Matter» di Tim Edensor e The Ethics of Waste di Gay Hawkins. . Ho raggiunto, per un momento, quello che per Thoreau era l’obiettivo di una vita: essere in grado, come dice Thomas Dumm, di «farci sorprendere da ciò che vediamo»11Si veda A Politics of the Ordinary di Thomas L. Dumm per una precisa analisi dell’«oscuro potere dell’ordinario». Il mio tentativo di parlare per le cose è un progetto vicino al tentativo di individuare nell’ordinario un potenziale sito di resistenza alle pratiche convenzionali e normalizzanti..
Questa finestra su un esterno tanto eccentrico si è aperta grazie a quella composizione che casualmente era venuta a crearsi, ma anche grazie a una certa prontezza anticipatoria del mio interno, a uno stile percettivo aperto a cogliere la potenza delle cose. Perché quando ho incontrato guanto-polline-ratto-tappo-bastoncino avevo in testa Thoreau, che mi esortava a praticare con disciplina «l’arte di guardare sempre ciò che c’è da vedere»; avevo in testa l’affermazione di Spinoza quando diceva «tutte le cose sono animate anche se in gradi diversi»; e avevo in testa Maurice Merleau-Ponty, la cui Fenomenologia della percezione mi aveva insegnato che «questa rivelazione di un senso immanente o nascente nel corpo vivente si estende […] a tutto il mondo sensibile, e il nostro sguardo, ammaestrato dall’esperienza del corpo proprio, ritroverà il miracolo dell’espressione in tutti gli altri oggetti»12Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 749..
Come già accennato, le cose a terra quel giorno vibravano, rivelandosi un momento come roba morta e quello dopo come presenza viva: prima rifiuti, poi soggetti rivendicanti, prima materia inerte, poi collegamenti vivi. In quel momento mi ha visceralmente colpita come il materialismo americano, che pretende che un numero sempre maggiore di prodotti vengano comperati in cicli sempre più brevi, sia, di fatto, l’antimaterialità13Per una buona analisi delle conseguenze sulla democrazia della cultura dell’usa e getta si veda Sustainable Democracy di John Buell e Tom DeLuca. Basta anche solo l’immenso volume di merci e la necessità iperconsumistica di gettarle via per far spazio a quelle nuove a eclissare la vitalità della materia. In The Meadowlands – un diario di viaggio ispirato a Thoreau della fine del Ventesimo secolo – Robert Sullivan si avventura sulle colline di spazzatura del New Jersey appena fuori Manhattan e descrive la vitalità che persiste persino nella spazzatura:
Le montagne di spazzatura sono vive […]. Miliardi di organismi microscopici prosperano sottoterra in comunità prive di luce e ossigeno […]. Dopo aver ingerito ogni minuscola porzione degli scarti di New Jersey o New York, queste cellule esalano giganteschi fumi sotterranei di anidride carbonica e metano caldo e umido, colossali venti tropicali nati morti che filtrano nel terreno per alimentare gli incendi delle Meadowlands, o penetrano nell’atmosfera per consumare […] l’ozono […]. Un pomeriggio […] camminavo lungo il perimetro di una collina di spazzatura, un cumulo di rifiuti compattati alto dodici metri che doveva la sua topografia alla spazzatura della città di Newark […]. La notte prima aveva piovuto, quindi non ci misi molto a trovare una piccola infiltrazione di percolato, una melma nera che gocciolava lungo il pendio della collina, un espresso di rifiuti. In poche ore, questo flusso si sarebbe fatto strada nelle […] acque sotterranee delle Meadowlands; sarebbe andato a mescolarsi con altri flussi tossici […] Ma ora, nel momento della sua nascita […] quella piccola infiltrazione era puro inquinamento, uno stufato immacolato di olio e grasso, di cianuro e arsenico, di cadmio, cromo, rame, piombo, nichel, argento, mercurio e zinco. Ho toccato questo fluido – il mio polpastrello diventò color caramello bluastro – ed era caldo e fresco. A pochi metri di distanza, dove il ruscello si raccoglieva in una pozza profumata al benzene, un germano reale nuotava solitario14Robert Sullivan, The Meadowlands, pp. 96-97. .
Sullivan ci ricorda che una materialità vitale non potrà mai essere «gettata via», perché continua ad agire, anche se sotto forma di merce scartata o rifiutata. Per Sullivan quel giorno, come per me quella mattina di giugno, la potenza delle cose è emersa da una pila di spazzatura. Non Flower Power, non Black Power e nemmeno Girl Power: Thing-Power, la potenza delle cose. Quella bizzarra capacità delle cose inanimate di prender vita, di agire, di innescare effetti sia plateali che discreti.
Immagine di copertina di Luca Laurence da Unsplash