Dall’imprenditore di sé alla start-up esistenziale

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    Se entrate nella sede parigina di Amazon.com, a Clichy, una volta superati i controlli di sicurezza vi troverete in una sala d’attesa molto confortevole, dotata di divano, poltrone, cucina e macchine del caffè. Se poi vi guardate intorno, mentre attendete che vi venga stampato il badge che vi consentirà di passare gli ulteriori tornelli, noterete, un po’ dappertutto, degli schermi fissati alle pareti sui quali scorrono le ultime notizie riguardanti la vita aziendale. Noterete inoltre che tale flusso di notizie è regolarmente intervallato da una frase che ricorre senza sosta: “It’s still day one” – letteralmente, “è ancora il giorno 1”.

    Qualsiasi dipendente di Amazon, interrogato a proposito, potrà spiegarvi il significato di questo ritornello: è un invito a lavorare come se fosse sempre il primo giorno, come se Amazon fosse nata ieri – anzi, no, oggi stesso – mantenendo uno spirito start-up pure all’interno di un simile colosso del commercio elettronico. Del resto, è lo stesso fondatore e ceo di Amazon, Jeff Bezos, a illustrare il concetto nella lettera agli azionisti pubblicata il 12 aprile 2017: il giorno 2 è la stasi, la lentezza, il declino, la morte; il giorno 1 è sperimentazione, innovazione, energia, velocità, dinamismo, vitalità. Ecco perché bisogna riuscire a conservare una mentalità da start-up anche in un’impresa che nel 2015 ha fatturato 79,3 miliardi di dollari. […]

    Pubblichiamo un estratto dall’ultimo volume di Aut Aut: Fantasmi neoliberali

    È evidente che il termine start-up è divenuto una sorta di significante vuoto che oggi può ospitare facilmente tutto ciò che rimanda all’innovazione digitale, alla creazione di imprese innovative, all’integrazione di nuove tecnologie. Ma “start-up” è anche il nome della declinazione più aggiornata di quello spirito eroico che da sempre caratterizza il personaggio dell’imprenditore, ma che dovrebbe appartenere a tutti: il presidente e cofondatore del social network LinkedIn, Reid Hoffman, invita chiunque a gestire la propria carriera, il proprio curriculum vitae, e quindi la propria vita come una start-up, anche se non se ne fonderà mai una. […]

    Non è dunque sul piano della performance economica generale e della capacità di essere all’altezza delle promesse di crescita e di occupazione che è possibile rendere conto del successo politico e culturale di tutto ciò che ruota intorno al significante start-up nella fase attuale del neoliberalismo politico ed economico. Come nel caso dell’arcinota ingiunzione a divenire “imprenditori di se stessi”, l’analisi critica deve collocarsi probabilmente a livello della “condizione soggettiva neoliberale” e della “razionalità” più generale che la governa, piuttosto che nella dispersione delle singole politiche economiche […].

    [Per comprendere criticamente] la “razionalità start-up” […] sarà necessario ripercorrere questo andirivieni fra condizione soggettiva e razionalità di governo facendo una rapida digressione nella storia delle pratiche di produzione di forme della soggettività attraverso il lavoro, per poi ritornare al neoliberalismo e alla contemporaneità.

    Curiosamente possiamo trovare una specie di antecedente storico all’attuale situazione di atomizzazione della forza-lavoro e di riduzione di ciascun lavoratore a un imprenditore formalmente indipendente che contratta la vendita della propria forza-lavoro con i proprietari dei mezzi di produzione: il prefordismo.

    Nel corso del xix secolo, nell’occidente in fase di industrializzazione, la relazione del lavoratore con il datore di lavoro non rientra ancora nel quadro di una relazione di subordinazione, e il contratto di lavoro è in realtà un contratto individuale di natura commerciale che non prevede necessariamente la concentrazione di manodopera nella manifattura – vista come focolaio di pericoli morali, economici e politici. La vera e propria subordinazione salariale deve ancora essere inventata, così come la figura dell’operaio di fabbrica che attraverserà il novecento.

    All’epoca, personaggi ibridi e inquieti popolano i luoghi della produzione: l’“operaio-contadino”, più legato alla terra che alla fabbrica e pronto a lasciarla non appena si presenti l’occasione; l’“operaio delle popolazioni fluttuanti”, miserabile, senza legge, e in continuo movimento; l’“operaio professionale”, indipendente, dotato di savoir-faire ricercato ma “il cui talento è proporzionale alla sua resistenza a ogni disciplina”.

    […] Il problema più grave che il capitalismo deve affrontare agli albori dell’industrializzazione è quello di fissare “l’instabilità operaia”, ostacolarne il nomadismo, “infeudare” una forza-lavoro mobile e recalcitrante all’interno dell’impresa.

    […] A questo compito di supplenza psicologica risponde l’estensione nei luoghi di lavoro delle tecniche disciplinari elaborate nei conventi, nell’esercito, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri – e sarà l’ingegner Friedrick Winslow Taylor a dare una sistemazione organica a tutti i tentativi di disciplina del lavoro che lo hanno preceduto nel corso del xix secolo. […]

    Ma un dispositivo di controllo del lavoro e della produzione che agisce all’interno di una più ampia razionalità di governo degli individui non può limitarsi al piano microscopico del potere disciplinare. Altre misure, di carattere più generale e macropolitico, devono contribuire a fissare una certa “funzione soggetto” alla singolarità somatica facendo in modo che essa funzioni come principio di individualizzazione e di organizzazione dei comportamenti. […]

    L’esistenza scandalosa del dissipatore che attenta alla propria forza-lavoro si radica in tutto un modo di esistenza, in forme collettive di rifiuto e di sabotaggio del lavoro. Essa ostacola la sintetizzazione della vita in lavoro produttivo, contesta la traduzione del principio di realtà in prestazione lavorativa, sabota la naturalizzazione del lavoro come essenza dell’uomo. Certo, il dissipatore, come il disertore, è un personaggio perdente, che si scioglie nel bagno di realtà del principio di prestazione. […]

    Le associazioni popolari di lavoratori indipendenti e “uguali”, per la produzione e per il consumo, create per esempio dagli operai francesi tra il 1848 e la Comune di Parigi per rifiutare la filantropia padronale e auto-organizzare in modo cooperativo e mutualistico le proprie condizioni materiali di vita e di lavoro senza consegnarle al principio di prestazione, saranno superate dalla funzione mediatrice dello stato sociale o riassorbite nel produttivismo dei socialismi reali, mentre in occidente l’invenzione del management scientifico prepara l’avvento della società delle risorse umane.

    Con l’invenzione della società salariale basata sul contratto di lavoro subordinato e sui suoi supplementi d’anima, la relazione di lavoro smette di essere considerata una relazione di scambio fra agenti liberi e diventa una relazione gerarchica e d’autorità fra coloro che danno ordini (proprietà e management) e lavoratori dipendenti. […]

    Eppure, come notava Bruno Trentin, che i lavoratori abbandonino i propri diritti di liberi cittadini sulla soglia dell’impresa per accettare di entrare in un rapporto di subordinazione all’insegna della prestazione non è cosa che vada da sé – e infatti deve essere accompagnata da adeguati dispositivi di compensazione, dalla certezza del reddito all’accesso ai consumi. […]

    L’individuo produttivo liberale del xx secolo vive e lavora in un mondo strutturato in spazi (e tempi) compartimentati: interno ed esterno della casa, privato e pubblico, mercato e lavoro, spazio del consumo libero e spazio del lavoro subordinato ecc. La razionalità liberale è una razionalità della divisione, della separazione fra sfere distinte: essa assegna esperienze e finalità in contraddizione a spazi separati. Governa separando. In questo senso, la forma della soggettività che corrisponde a questa fase del liberalismo contiene (almeno) il due, è divisa al suo interno: un soggetto delle istituzioni democratiche, che è anche un soggetto economico, libero, razionale, autodeterminantesi sul mercato, e un soggetto lavoratore che accetta di essere assoggettato e diretto una volta varcata la soglia dell’azienda.

    […] Il “carattere” come aggregato permanente di aspetti emotivi, credenze, attitudini che determinano un habitus costituisce la verità da cercare al fondo dell’io, dal momento che la vita quotidiana e “superficiale” non fornisce che delle esperienze contraddittorie e disperse – da cui il proliferare di “psicologie della profondità” che cercano la coerenza dell’io in un’unità individuale situata al di sotto della superficie screziata di un’esperienza disseminata in spazi e tempi separati. Ma il soggetto produttivo e prestazionale che rimbalza fra produzione e consumo nella società industriale avanzata e dei “trenta gloriosi” trova nelle faglie della sua stessa costituzione il modo di contestare l’ordine delle cose che lo fa esistere come tale. […]

    Prima di tutto, se definiamo l’impresa come quello spazio separato dal mercato la cui organizzazione è fondata sulla subordinazione gerarchica, il neoliberalismo è stato il suo primo agente di distruzione. In effetti, il costruzionismo neoliberale ha mostrato come “la frontiera edificata tra la cooperazione organizzativa e la competizione sui mercati non è un dato di natura”, e quando l’impresa inizia a essere teorizzata – come nel caso della “teoria dell’agenzia” – come un “nodo di contratti”, allora l’opposizione fra un “dentro” dell’impresa e un “fuori” del mercato non ha più ragion d’essere. […]

    Tutto ciò determina delle conseguenze paradossali. Da un lato, la governance dell’impresa ricalca sempre di più il modello della concorrenza e del mercato: piuttosto che tendere all’integrazione verticale delle diverse fasi della produzione e della distribuzione, le unità di produzione vengono messe in competizione fra di loro per migliorare la performance. Dall’altro lato, si tende a un alleggerimento delle gerarchie attraverso la messa in opera di pratiche “collaborative” e “cooperative”, attraverso le quali si conferiscono quote sempre più ampie di autonomia ai lavoratori.

    Come noto, le teorie manageriali descrivono questo processo con il nome di empowerment, termine prelevato dai movimenti radicali di emancipazione che designa il processo di acquisizione di potere decisionale da parte dei lavoratori.

    Questa trasformazione si situa nel contesto delle politiche neoliberali del lavoro fondate sulla teoria del “capitale umano”, secondo cui più l’individuo consuma prodotti e attività culturali, più arricchisce il proprio spirito dentro e fuori i luoghi di lavoro, più egli aumenta il valore del proprio portafoglio di competenze relazionali, culturali, emotive – ovvero le soft skills che costituiscono ormai l’atout più ricercato dalle imprese e dal management. […]

    Il management neoliberale introduce nel regno della subordinazione il principio di scelta tipico dell’agire soggettivo nel mercato, per fare del lavoro un’esperienza di realizzazione in cui l’individuo si gioca il senso di tutta la propria esistenza. […]

    Come abbiamo cercato di argomentare altrove, i termini di quel contratto psicologico che nella società salariale scambiava fedeltà all’impresa con certezza dell’impiego mutano per offrire, in cambio del lavoro indefesso che non ammette alcuna dissipazione di energie, la possibilità di prodursi, autentificarsi e riconoscersi come imprenditore ed efficace manager di sé e della propria esistenza. Non a caso, il processo storico di estensione globale della razionalità di governo neoliberale incentrata sull’imprenditore di sé si dispiega parallelamente a quella “cultura del narcisismo” e a quella “tirannia dell’intimità” che registrano l’invasione della società da parte dell’Io – la lacaniana “Io-crazia” […].

    Dissipare il proprio capitale umano, sottrarsi all’imperativo della sua valorizzazione, resta il peccato più grave, o quanto meno un gesto orrendo di auto-sabotaggio, sanzionato dal punto di vista economico, stigmatizzato dal punto di vista morale. Per di più, quando diventa difficile distinguere il lavoro come impiego destinato a produrre un reddito dal lavoro ascetico di produzione di sé, quando le trasformazioni cosiddette cognitive del lavoro, l’incertezza occupazionale e il bisogno di aggiornare continuamente la propria dotazione di capitale umano che traluce nel curriculum producono un rinnovato “attaccamento al lavoro”, quest’ultimo diventa ultra-lavoro – “lavoro smisurato”, nel doppio senso che non finisce mai e che è impossibile da misurare secondo le tradizionali teorie del valore.

    È il motivo per cui in anni recenti Pierre Dardot e Christian Laval hanno parlato di “ultra-soggettivazione” in merito al soggetto di prestazione neoliberale e autoimprenditoriale: una fabbricazione di soggettività che non tende tanto un solido e stabile possesso di sé – e a un differimento del godimento – quanto a un continuo al di là, a un infaticabile superamento di sé, a un’iperattività in cui risiede il godimento stesso.

    Eppure, anche questa volta, la forma egemone della soggettività si incrina, è forata, come probabilmente la fase specifica del neoliberalismo che l’ha creata. La crisi che la colpisce è una crisi di stanchezza – di più – l’imprenditore di sé è esausto. L’ultra-lavoro (su di sé) neoliberale e la corsa frenetica alla performance producono sintomaticamente un plus di iperattività, di “bulimia di lavoro” di “bougisme”: avere un’agenda ingolfata di impegni professionali è motivo di vanto, e mostrarsi nelle reti sociali alle prese con estenuanti carichi di lavoro è una specie di pratica di integrazione sociale. Ma questo tipo di rilancio sull’ultra-lavoro non rappresenta che l’altra faccia degli “infarti psichici del soggetto di prestazione”, delle sue depressioni e della sua conseguente (auto)medicalizzazione. Inchiodato alla responsabilità individuale della valorizzazione del proprio capitale umano, l’imprenditore di sé – ben lungi dal mettere in discussione il contesto sociale ed economico in cui opera e a cui invece sceglie di adeguarsi – soggettiva il proprio fallimento e si deprime, si medicalizza, e, se ci riesce, ricomincia con un ulteriore supplemento di iperattività. […]

    È qui che incontriamo la razionalità start-up da cui siamo partiti […].

    Bisogna, prima di tutto, imparare a considerare la propria vita come un work-in-progress, un’opera di continuo perfezionamento di sé, come tale destinata a restare incompiuta. Bisogna, inoltre, concentrarsi quotidianamente su di sé per migliorare le proprie competenze e capacità: anche qui il lavoro è senza fine e presuppone la capacità di conciliare gli obiettivi esistenziali con la flessibilità necessaria ad adattarsi ai continui cambiamenti del mercato delle competenze. Bisogna, infine, saper accettare il rischio come aspetto essenziale dell’esistenza che espone inevitabilmente quest’ultima alle dimensioni dell’incertezza e dell’imprevisto. “Trasformarsi o morire”, “uscire dai sentieri battuti”, “vivere nell’incertezza, nel rischio, nell’innovazione continua e di rottura”, avere “la capacità di cambiare radicalmente se stessi”, essere “sempre in stato di urgenza” e all’interno di un cantiere permanente di sviluppo personale, e poi energia, resistenza allo stress, fatica, solitudine, individualismo, adrenalina, entusiasmo, visione, talento, audacia, creatività – questi alcuni dei ritornelli della copiosa manualistica elaborata da esperti, giornalisti, “imprenditori seriali”, consulenti, startuppers di successo.

    Certo, si tratta di un insieme di consigli assai banali, tipici di quei manuali di self-help che rappresentano la caricatura post-moderna delle antiche “arti di vivere”. Tuttavia manifestano una trasformazione essenziale dell’impresa di sé neoliberale: qui non si tratta tanto di gestire in modo manageriale ogni aspetto della vita secondo un calcolo costi-benefici, di pianificare la propria esistenza per ottenere risultati misurabili e raggiungere obiettivi consapevolmente fissati attraverso un esercizio di autocontrollo, quanto di accettare di esporre il proprio capitale individuale al rischio speculativo. La scelta delle parole non è innocente: laddove l’“impresa di sé” degli anni ottanta rinviava pur sempre a la costruzione di un Io solido e destinato a permanere nel tempo, il significante “start-up” rimanda all’incompiutezza della sperimentazione.

    […] Laddove l’ordine psichico si fondava su un’unità individuale da cercare nelle profondità del sé al di là delle separazioni strutturanti la vita quotidiana, il soggetto start-up deve creare un’unità superficiale, un sé sperimentale la cui verità non sarebbe celata nelle profondità della struttura psichica ma risiederebbe nella capacità di gestire “in superficie” molteplici progetti esistenziali, di coordinare sul piano orizzontale del project management gli investimenti e le performance. Il virgiliano “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” ripreso da Freud come insegna della psicanalisi è ribaltato, o piuttosto appiattito: la verità del soggetto non è il frutto né di una discesa, né di uno scavo, essa ha piuttosto la forma di un obiettivo da raggiungere nel futuro, della remunerazione degli investimenti effettuati su di sé.

    […] Per restare all’interno della metafora dei piani geometrici, ci sembra che sia all’opera una torsione del tradizionale piano verticale della soggettività verso l’orizzontalità di un sé che si riconosce autenticamente come superficie di un investimento continuo – il che è l’autentica verità profonda che si scopre e si riscopre attraverso l’ultra-lavoro di realizzazione di sé. Dopo le coppie dentro/fuori, obbedienza/disobbedienza, assoggettamento/soggettivazione, la razionalità neoliberale confonde la coppia superficie/profondità deformando la topologia classica della soggettività verticale – o, meglio, proiettando la verticalità di un soggetto tradizionalmente organizzato secondo una superficie visibile e un fondo invisibile su un piano orizzontale di creazione continua di start-up esistenziali. La questione della verità del soggetto non è certo obliterata, ma ricollocata, in questa torsione tra verticale e orizzontale, a livello della capacità individuale di investire su di sé. […]

    The start-up of you: l’ultimo episodio dell’antica storia della trasformazione di ogni istante della vita in una forma specifica di forza-lavoro performante e produttiva, e di naturalizzazione dell’idea borghese che la libertà – come avrebbe detto Adorno – non sia altro che una forma di “superattività”. Giunti alla fine di questo testo, anche noi ci sentiamo un po’ stanchi (per non parlare della stanchezza del nostro eventuale lettore o lettrice).

    Per di più, di fronte al discorso galvanizzante della start-up esistenziale o delle nazioni start-up – con tutta quella genealogia della morale imprenditoriale che esso sottende – il nostro senso di spossatezza non fa che aumentare. E ci ritroviamo così passatisti e reazionari da pensare che per trasformare la nostra condizione di forzati del lavoro su di sé sia necessario ascoltare le voci di quei lavoratori indipendenti francesi – ma anche italiani, inglesi, tedeschi – che abbiamo già incontrato in questo testo, e che nel xix secolo si sono organizzati in cooperative e società di mutuo soccorso per sottrarre la loro vita alla presa del lavoro come vocazione, prestazione, morale. Sono loro, insieme ai tanti altri che hanno spezzato la continuità della storia del lavoro nel xx secolo – e non Jeff Bezos – che sembrano sussurrarci in un orecchio: eh, sì, it’s still day one.

    Note