Lo spazio pubblico nella vita delle persone

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    Michele Cerruti But in avvicinamento al convegno Public!: “vorrei ragionare sulla nozione di “pubblico” dal punto di vista urbanistico e sociologico, provando a mettere in campo le nostre competenze per approfondire in particolare la dimensione spaziale e quella dell’azione, muovendoci dentro a quella contrapposizione o complementarietà ormai tradizionale che si riconosce tra Spazio pubblico e Sfera pubblica”.

     

    È in questo senso che negli ultimi anni, con un gruppo di ricerca, abbiamo provato a ripensare lo spazio pubblico definendolo altrimenti. Siamo partiti anzitutto dalla definizione secondo il regime della proprietà, muovendoci tra le distinzioni di pubblico e privato e, seguendo il ragionamento di Rodotà, e poi di Ugo Mattei, Gregorio Arena, Anna Poggi e altri, verso la nozione di “bene comune”. In seconda istanza, abbiamo esplorato una definizione di spazio pubblico che fosse fondata sul regime dell’uso.  Secondo Pier Luigi Crosta, «Lo spazio è luso che se ne fa», e osservarlo in questo modo ci permette di capire come spazi quali la Cavallerizza di Torino, il Macao di Milano, il Teatro Valle a Roma e altri siano pubblici proprio in funzione degli usi e delle pratiche che le comunità mettono in campo. Esiste poi un terzo modo di pensare lo spazio pubblico, che abbiamo sviluppato a Torino con la guida di Cristina Bianchetti, ovvero pensarlo in funzione di un punto di vista “relazionale”: Come stiamo, cioè nello spazio pubblico? Da questo punto di vista, ci pare che lo spazio pubblico non sia più solamente quello spazio habermasiano, piano, in cui poter esprimere quella dimensione politica  libera e orizzontale tipica del Novecento, ma che diventi piuttosto uno spazio in cui cerchiamo anche forme diverse del “vivere insieme”: accanto alla tradizionale forma collettiva, infatti, ci pare di osservare un tentativo di usare lo spazio pubblico per stare da soli, anzitutto, e dunque uno spazio che diventa di “intimità”, ma anche un modo di stare “per piccoli gruppi”, entro una dimensione di esibizione che Lacan avrebbe definito di “extimité”.

    Queste diverse declinazioni ci hanno portato a porci oggi la domanda non tanto su cosa sia lo spazio pubblico, ma su che cosa piuttosto lo spazio pubblico faccia o possa fare nella vita delle persone, degli individui e della società.

    Filippo Barbera Dal mio punto di vista, in Italia ce lo insegna Ota De Leonardis, la sfera pubblica ha una vita quotidiana, esiste una dimensione intrecciata nella quotidianità della sfera pubblica. Non bisogna pensare alla sfera pubblica come qualcosa di straordinario ma come qualcosa di ordinario. Quindi un ritorno dello sguardo alle scienze sociali e alle scienze del progetto sullordinario non per conservarlo ma per innovarlo. Bisogna chiedere con forza la rimessa al centro dellordinarietà, della banalità, della quotidianità e della dimensione pre-riflessiva che diamo per scontata e viene tematizzata solo quando non c’è. Solo ne momento in cui alcuni elementi diventano problematici allora li pensiamo altrimenti vengono dati per scontato. Lenfasi sulla quotidianità non è pre-politica ma è qualcosa di politico, è nell’articolazione della sfera pubblica come uno spazio condiviso dove si fanno cose che si genera un senso di giustizia e una domanda di futuro condiviso.

    Riprendendo Ota de Leonardis, si genera un intreccio forte tra trama dei bisogni individuali e l’ordito delle soluzioni collettive, questi non vengono concepiti come pezzi diversi ma come trama di un unico tessuto. Non bisogna quindi chiedere alla sfera pubblica di mettere a tema il futuro collettivo in modo indipendente dai bisogni individuali. Al contrario, è bene individuare soluzioni collettive che si intrecciano ai “progetti” individuali in modo inestricabile, generando soluzioni che hanno una dimensione di giustizia in quanto soluzioni collettive. 

    La sfera pubblica, intesa come luogo dove le persone fanno cose e interagiscono in un certo modo, è il luogo dove linterazione tra le persone si struttura generando questi intrecci. Questo è il punto da ripensare oggi, in quanto la dimensione fisico-spaziale della sfera pubblica è venuta meno. Gli anni in cui i bisogni individuali e la dimensione collettiva avevano questo intreccio erano luoghi di conflitto urbano, prettamente urbano: nelle fabbriche, nelle sezioni di partico, nelle piazze, nei corpi intermedi con capacità di rappresentanza. Vedendo la storia di Torino, come si legge nel nostro libro Torino 2030. A prova di futuro si capisce come la nuova classe dirigente della città negli anni 90, con la prima giunta Castellani e post scandalo mani pulite, prova a traghettare la città verso una nuova visione che si era sedimentata all’interno di spazi intermedi. La nuova classe formata da intellettuali, pezzi di sindacato, parti di Università, di Politecnico, le seconde file della classe politica e dirigente locale, aveva passato gli anni precedenti a discutere in luoghi e spazi dedicati al confronto e alla discussione. Era così diventata una sorta di “coalizione epistemica”, poi fattasi classe dirigente. Quindi, il tema della dimensione fisico spaziale della sfera pubblica riguarda da un lato la vita quotidiana delle persone comuni e, dall’altro, anche il venir di questi spazi che erano luoghi di elaborazione tecnico-politica dei partiti e dei corpi intermedi in generale. Luoghi dove intellettuali, tecnici e politici insieme ideavano e pensavano il futuro dei luoghi e dei territori. Il venir meno di questi spazi ha indebolito la sovrapposizione tra bisogni individuali e soluzioni collettive. 

    Questo “assottigliamento” della dimensione fisico-spaziale della sfera pubblica non è lunico elemento che ha concorso all’indebolimento di questa capacità condivisa di futuro, un altro elemento è stato il venir meno di un’organizzazione sociale fortemente sincronizzata. Per alcuni decenni le persone sono diventate adulte nello “stesso modo”. Cioè cerano degli eventi marcatori che accadevano in tempi simili e in modi simili come eventi di transizione dalla vita adulta: fine studi, inizio lavoro, uscita dalla famiglia d’origine, matrimonio e figli. La sequenza di questi momenti configurava il modo corretto e legittimato di “diventare adulti”. Dalle analisi dei sociologici, si vede come questi eventi fossero fortemente sincronizzati: tutti perlopiù facevano queste tappe in modo completo, con la stessa sequenza e con gli stessi tempi. I sociologi lo chiamano rituale naturale”, la società che si muove in modo sincrono. Come in tutti i rituali, la sincronizzazione ha effetti simbolici: genera identità collettiva, appartenenza e valori condivisi. Questo oggi non c’è più e quindi rende ulteriormente difficile la costruzione di un tessuto connettivo. La sfera pubblica, i sincronismi sono come un telaio che mette insieme trame e ordito, sono condizioni che ritualizzano il “senso del noi”.

    Giuste le cose dette, la parte da cui si può iniziare per raggiungere dei risultati nel breve medio periodo è la dimensione fisico-spaziale della sfera pubblica. La costruzione di luoghi e di spazi nella città e nelle aree interne, spazi organizzati di interazione dove far sedimentare il senso del noi, dove il mio bisogno diventa la soluzione futura di tipo collettivo, è qualcosa che la progettazione sociale e spaziale può fare e pensare (un esempio sono le case del quartiere a Torino, ma ne esistono molti altri). Questo non rappresenta la soluzione, ma il punto di equilibrio tra problema e possibilità di realizzazione nel breve termine.

    M. Nel dibattito urbanistico ci troviamo spesso a definire lo spazio pubblico come “infrastruttura della vita”, ovvero quel che permette di abitare il presente ma anche di immaginare il futuro. In qualche modo, cioè, lo spazio non è più qualcosa che va più o meno tecnologicamente infrastrutturato o dotato di ulteriori dispositivi, ma è esso stesso, spazio e paesaggio, infrastruttura. In questo senso mi pare ci si possa porre almeno tre grandi questioni: in che modo, per chi e dove avviene questo modo di abitare?

    Rispetto alle modalità, va ricordato che anni fa si riteneva che il conflitto e i moti urbani fossero delle forme attraverso cui le società potevano esercitare il loro diritto alla città. A osservare però lo spazio pacificato dell’occidente contemporaneo, soprattutto europeo, quel che emerge è che in realtà il modo in cui questo diritto prende forma è oggi fondato su una categoria completamente diversa, quella che con alcuni amici abbiamo chiamato “Tensione urbana”. Nello spazio pubblico pacificato, gruppi, organizzazioni e individui non sono in conflitto tra loro, non esercitano forme di prevaricazione violenta, non esprimono vincitori o perdenti, ma prevale piuttosto una forma di negoziazione senza soluzione di continuità. Per fare un esempio concreto, potremmo richiamare il caso di Prato, dove due comunità produttive, quella del fast-fashion e quella del tessile, coabitano lo stesso spazio esprimendo esigenze e bisogni diversi che sono in funzione sia del tipo di produzione sia dei modelli esistenziali. Questa forma di coabitazione produce sullo spazio delle trasformazioni continue, e lo fa entro una dimensione non conflittuale ma di dialogo e negoziazione, in modo che nessuno dei due gruppi subisca dei danni. L’infrastruttura dell’abitare, però è radicalmente modificata, ed è lo spazio stesso ad abilitare questo dialogo e questa forma di relazione. 

    La seconda questione su cui confrontarsi è quella dei soggetti, ovvero chi siano coloro che abitano lo spazio pubblico, di chi sia la voce che lo spazio dovrebbe poter ascoltare e far emergere. Nelle ricerche che conduco con alcuni studenti negli ulti anni, mi pare di intravedere tre tipi diversi di risposte, o, meglio, di voci: la voce del clima, la voce di quel che chiamiamo post-natura e la voce dei territori intermedi. 

    Quella del clima, anzitutto, che per secoli abbiamo considerato come un oggetto di nostra proprietà, come qualcosa su cui possiamo agire o che possiamo modificare. Tuttavia il clima è un sistema di relazioni, ha cioè una dimensione ecologica, non è certamente solo lambiente o solo un oggetto. Ed entro una dimensione pubblica può parlare, sia come interfaccia della relazione tra umani e non-umani, sia come soggetto esso stesso, sia come un bene comune. La voce della post-natura, in secondo luogo. Dal punto di vista spaziale tendiamo a raccontare che la natura sia un oggetto contrapposto all’urbano: città e natura, uomo e natura, artificio e natura, cultura e natura. Eppure, grazie a una ricerca che stiamo portando avanti sulla Schelda, ci siamo accorti che questa separazione tra naturale e artificiale non tiene più: in quel caso, per esempio, non è più possibile chiamare la Schelda “fiume”, perché fondamentalmente è diventata un’autostrada. Difficile dire che sia un elemento naturale. Ma è difficile anche dire che sia un elemento artificiale. Da questo punto di vista, proteggere la natura, difendersi dalla natura, gestire la natura sono espressioni che hanno poco senso, perché quel che caratterizza il nostro spazio pubblico è contemporaneamente un “immenso cumulo di fatiche”, come diceva Cattaneo per la Pianura Padana, e una “selva selvaggia”. Una post-natura, appunto, che va lasciata parlare. Per cui, come forse direbbe Rosi Braidotti, abbiamo a che fare non tanto con il binomio naturale-artificiale, dato e costruito, bensì con una  dinamica soggettività relazionale con una voce ben precisa. 

    La terza voce mi pare possa essere quella dei territori intermedi. Luoghi che alcuni considerano i cantieri delle città dense, gli spazi dove si producono i beni e da cui si estraggono le risorse per far funzionare le dense aree metropolitane. E che sono la maggioranza, perché in Europa esistono più Biella e Carrara che Parigi o Milano. È qui che si gioca in modo speciale la nostra relazione con le risorse e con il clima, in cui possiamo con efficacia pensare il nostro dialogo in modo alternativo. Luoghi che preferisco definire “mediali”, perché oltre a essere intermedi giacché posti tra le aree interne e quelle metropolitane, sono anche caratterizzati da una forma alternativa di prossimità, tutta digitale, che ci permette anche di immaginare un modello tutto diverso di pubblico.

    F. Questi esempi richiamano il tema della voce collettiva dei marginali cioè degli attori/territori/organizzazione/ movimenti “senza voce”. Il tema è linclusione della “capacità di voice collettiva” dei soggetti, degli attori organizzati e dei territori marginali nella sfera pubblica e, quindi, la costruzione politica degli spazi in modo da tenere in considerazione le richieste, i bisogni, gli ordini del valore e le visioni del futuro dei “marginali” (https://foundationaleconomycom.files.wordpress.com/2018/10/barbera-cardiff-sept-2018.pdf). 

    Ad esempio nelle aree interne della filiera latte e formaggio che voce hanno i pastori? I pastori sono un pezzo importante di questa filiera ma le politiche pubbliche non sono disegnate sulla base delle esigenze e le visioni del futuro di essi e per questo è nata la rete APPIA che mette insieme pastori e la SNAP, la scuola nazionale per la pastorizia, che prevede un percorso formativo per i pastori. In generale, ciò rimanda alla costruzione di spazi eterarchici strutturati dalla compresenza di metriche del valore dissonanti. Una sfera pubblica che funziona è una sfera pubblica eterarchica dove il futuro in comune viene articolato dallattrito di voci collettive che includono bisogni, interessi, metriche, convenzioni di qualità e priorità diverse che, nella loro diversità, possono essere anche conflittuali (https://www.rivistailmulino.it/a/torino-la-citt-laboratorio-alla-ricerca-della-diversit-perduta). Tornando al tema degli anni 70 in cui gli spazi eterarchici erano spazi dove il conflitto era di casa, erano luoghi di tensioni che generano dissonanza e che per essere produttive e di valore vanno gestite. Questo tema delle tensioni mi porta alla concezione di Simone sul rapporto tra le persone e le infrastrutture (cfr. https://research.gold.ac.uk/id/eprint/1946/). Simone mette l’accento sulle persone come infrastrutture, mentre più in generale pensiamo a come le infrastrutture creano le persone, come gli spazi sono generativi di identità collettive; ma anche come, più banalmente, le persone creano le infrastrutture. Negli esempi che hai fatto emerge il tema del capability for collective voice dei marginali, dove i marginali non sono i poveri ma sono i soggetti che sono posizionati ai confini del sistema. Il tema è creare spazi pubblici dove i soggetti forti dotati di potere e i soggetti deboli che non hanno potere ma hanno una capacità di visione e innovazione rispetto a bisogni non ancora mainstream stanno sullo stesso piano. 

    M. Una domanda a cui non abbiamo risposto è però quella del dove: quali sono oggi gli spazi di tutto questo? Dire che ci sono degli spazi intermedi sembra anche voler dire che quegli spazi funzionano essi stessi come dispositivi capacitanti, per l’appunto infrastrutture dell’abitare.

    F. Questi spazi sono tantissimi. Ci sono gli assemblaggi, piattaforme, oggetti mobilitanti, cioè oggetti che permettono di creare la condizione del rituale mobilitando le persone su un fuoco comune di attenzione e generando un senso condiviso. Più che di soggetti collettivi pre-formati, abbiamo bisogno di oggetti politici mobilitanti. Ne ho scritto qui con Giovanni Durbiano: https://www.officinadeisaperi.it/agora/sinistra/la-sedimentazione-di-significati-e-valori-condivisi-da-il-manifesto/. 

    La storia di Ostana è molto interessante da questo punto di vista, il suo valore nasce da un gruppo guidato dall’ex sindaco che decide di investire e ripopolare Ostana. Gli ostanesi si erano trasferiti a Torino e la tradizione che si portavano dietro era quella della lavorazione del ferro. Questo gruppo di ostanesi si trova tutte le settimane al mercatino del ferro al ponte Mosca a Torino: dal ponte si riesce a vedere il Monviso e così si inizia a sedimentare un rituale e si genera un senso di appartenenza al gruppo e di identità individuale che costituisce la base per la futura azione collettiva. 

    Dobbiamo abituarci ad avere delle lenti che ci permettono di togliere le condizioni analitiche delloggetto mobilitante in tempi nuovi, non sono più le piazze, i sindacati, i partiti ma ci sono altri micro e meso oggetti mobilitanti che creano queste condizioni. Le esperienze che hanno in comune l’ideale di giustizia sociale e ambientale si riconoscono in questo quadro semplificato e si allineano. Dallaltra parte lazione politica di imprenditori politici che costruiscono uno storytelling condiviso dove macro temi e macro discorsi allineano nella loro diversità le esperienze. 

    C’è bisogno di coerenza, che la diversità di queste esperienze, da Ostana, ad esperienze come il Forum Diseguaglianze e Diversità (https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/), alle case di quartiere o ad altri oggetti mobilitanti si allineino. 

    M. Intorno a questo tema l’esempio della Fondazione Pistoletto e della sua Accademia Unidee è per me illuminante: in questa caso la missione è proprio quella di lavorare intorno all’idea della creazione come capacità di amare le differenze. Il modello del Terzo Paradiso” di Michelangelo altro non è che un progetto da attuare in contesti sempre diversi per cui tra due estremi, tra due differenze, è sempre possibile attuare un tentativo creativo in grado di mantenere le due posizioni trovando un equilibrio dinamico. Non tanto la produzione di sintesi pacificanti quanto piuttosto dei dialoghi catalizzanti, che mossi dall’idea del terzo paradiso o più in generale dall’arte, sappiano riattivare quelle connessioni che le ideologie hanno fatto nel tempo scomparire e ricostruire delle nuove narrazioni.

    F. Lidea della diversità è costitutiva di questo discorso. La diversità è utile quando genera dissonanza, quando quindi è una diversità radicale sui modi di concepire il valore. Quando la diversità genera attrito a partire dai diversi modi di concepire e misurare il valore è quando si danno contesti organizzativi, cioè le eterarchie, in cui la diversità è governata ed è sfruttata da un imprenditore istituzionale che è in grado di generare valore da questa. Serve, quindi, una sfera pubblica che funzioni in questo modo: una “sfera pubblica eterarchica” che lascia spazio allazione di imprenditori politici in grado di generare valore dalla dissonanza tra concezioni di valore. La strada da seguire non sta nellimporre una medesima concezione o una stessa metrica. Siamo in una società che ci chiede di costruire un modello di sviluppo economico-sociale eterarchico e non gerarchico (e neppure “anarchico”). Le diverse concezioni di valore dovrebbero avere un luogo, uno spazio, un contesto organizzativo dove potersi confrontare generando attrito. Questo è uno dei nuovi compiti dell’azione pubblica.

     

    Immagine di copertina: ph. Benjamin Thomas da Unsplash

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