Ritorno a via Grossich. Conversazione milanesissima con Alvar Aaltissimo

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    Fabrizio Esposito, architetto meglio conosciuto con lo pseudonimo di Alvar Aaltissimo (gioco di parole con il cognome del celebre architetto finlandese Alvar Aalto), mi attende un sabato mattina nei pressi della stazione di Lambrate. Lo vedo di fronte alla Pizzeria Focacceria Mundial, storico negozio che affaccia sull’ellittica piazza Bottini, bazzicato a tutte le ore da gente di passaggio e lumpenproletariat (Trip Advisor: «Pessimo»; «Buono e molto economico»; «Più qualità prezzo che qualità»; «Cheap and speedy»; «I ticket Restaurant MAX gli fanno schifo!!»; «Allucinante»; «Lo storico profumo tentatore all’uscita della metro», etc.). Forse non è un caso che Esposito mi aspetti in un luogo così brulicante di vita e periferico. Quando lo vedo sotto l’insegna della Pizzeria Focacceria, ho il sospetto di trovarmi di fronte a un manifesto poetico su ciò che Esposito intende con il superlativo «milanesissimo». 

    Alvar Aaltissimo è stato prima una pagina Facebook e poi una pagina Instagram, dove il linguaggio dell’architettura seve a fare una satira del mondo e della condizione abitativa a Milano. Case milanesissime è il titolo di un libricino, uscito per Corraini con postfazione di Cino Zucchi, dove Esposito-Aaltissimo ha raccolto una serie di piante di appartamenti fittizi, ubicati in strade fittizie. Il proposito è parodiare, con una comicità che deve molto a internet e alla meme culture, gli aspetti più grotteschi dell’offerta immobiliare milanese. Possiamo interpretare le piante di Aaltissimo con ironia, come tante incarnazioni diverse, nel XXI secolo, del monolocale in affitto di Renato Pozzetto ne Il ragazzo di campagna («tavolo ribaltabile: taaac; sedia rotante: taaac[…]»), ma il quadro evocato con algido sarcasmo, rimanda a un contesto reale, a causa del quale Milano è già oggi una città che discrimina sulla base della ricchezza e del reddito. Infatti da qualche tempo Esposito è tornato a vivere nella sua città di origine, Napoli. Il legame con Milano, dove ha studiato e lavorato, resta però fortissimo. 

    L’incontro a Lambrate precede la presentazione del libro in Triennale, dove sono attesi Stefano Boeri e l’assessore alla casa Pierfrancesco Maran. Ci dirigiamo verso l’appartamento dove Esposito ha vissuto, in via Antonio Grossich, a due passi dalla stazione. Lungo il tragitto ci fermiamo a osservare una eccentrica palazzina rosa, dove un cartello segnala la vendita all’asta di alcuni immobili. «Baroccheggiante», commenta Gloria Lisi, architetta che accompagna Aaltissimo. A Esposito la palazzina ricorda la casa della Barbie, specialmente nelle sue evoluzioni di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta. Girato l’angolo ci sediamo ai tavoli di un bar, di fronte alla casa dove Aaltissimo ha vissuto per otto anni a Milano. 

    Via Antonio Grossich, la casa milanesissima di Fabrizio Esposito

     

    «La mia vita si divide tra un prima e un dopo Milano. Sono rimasto a Napoli fino a 17, 18 anni, fino a quando non mi sono diplomato, poi ho iniziato l’università e ho vissuto in questa casa qui di fronte, a piano terra, con la finestra che affaccia direttamente sulla strada e che perciò tenevo sempre con le tapparelle abbassate, in estate come in inverno, per una questione di privacy e anche di rumore. Proprio accanto alla finestra c’era un negozio di fiori. Era così vicino che sentivo la voce del fioraio, anche perché spesso parlava a voce alta. Avevo scelto questa casa anche perché era vicina al Politecnico. Ho vissuto sempre in condivisione, prima in camera doppia e poi in singola. Soggiorno, cucina e due camere. Tra i vari coinquilini ricordo un ragazzo belga, che aveva l’abitudine di stendere un tappetino in soggiorno, cioè nell’unico snodo della casa, e lì faceva esercizi, piegamenti, flessioni, seguendo dei tutorial scaricati sull’iPad».

    Al Politecnico ti sei laureato in Architettura…

    «Sì, triennale specialistica e poi mi sono orientato verso la progettazione architettonica. Architettura offre una formazione molto vasta, ma alla fine questo è anche il motivo per cui in Italia non si capisce bene qual è il ruolo dell’architetto e questo è anche il motivo per cui c’è una certa dispersione della disciplina. Solo nel mio anno si sono laureate seicento persone e molte di queste persone probabilmente sono finite a fare altro: chi il grafico, chi ha aperto un’attività di altra natura. Io faccio sempre l’esempio di Bennato e Baglioni, due architetti che poi sono finiti a fare i cantanti. Bennato ha perfino scritto canzoni sull’architettura. Una, La città obliqua, la presentò nella tesi di laurea e aveva a che fare con un progetto di scale mobili a Napoli, con lo scopo di infrastrutturare la parte collinare della città».  

    Sei un ascoltatore di musica?

    «Sì, seguo molto la musica».

    A Milano dove andavi a vedere i concerti? 

    «Al Magnolia, all’Alcatraz e al Cox 18 in Conchetta. Ho seguito parecchio la stagione indie di quegli anni: I Cani, i Ministri etc».

    A Milano quando sei arrivato?

    «Nel settembre 2011. Appena arrivato ho alloggiato all’Hotel Sunset, vicino al Politecnico. Tra l’altro ero convinto di avere l’esame di ammissione universitaria a Milano, e invece poi ho scoperto che era a Lecco. Una volta ammesso, è partita la ricerca della casa e sono arrivato qui in via Grossich. La prima impressione della città è stata assolutamente positiva, ma devo dirti che trasferirmi a Milano era da sempre il mio sogno. Ero affascinato dalla città, dalla metropolitana, dall’immaginario della metropolitana, da certi scorci che esistono in zone come questa di Lambrate, dalle palazzine in mattoncini, dall’estetica dei clinker, insomma ero affascinato dalla milanesità».

    Che cosa intendi per «milanesità»?

    «Per risponderti devo un po’ escludere gli ultimi dieci anni di Milano, quelli che precedono e seguono Expo, durante i quali si è creato un altro mito di Milano, mentre la Milano che intendo io è legata a un’idea di città precedente, che si rispecchia nelle architetture e in certe atmosfere grigie che ci circondano anche in questo momento. Per la stessa ragione sono legato anche ai film poliziotteschi girati a Milano negli anni Settanta. Renato Vallanzasca è nato non lontano da qui, in via Vallazze. Non è semplice descrivere una città senza evitare gli stereotipi, lo dico anche da napoletano. E poi di Milano mi piace la sua caratteristica orografica, il fatto di essere piatta e quindi relativamente semplice da progettare e pianificare». 

    Qual è il luogo di Milano che ami di più?

    «La stazione di Lambrate, anche per le sue due facce, una che guarda verso il centro e l’altra verso la periferia, dove si vede un parcheggio infinito e la strada che prosegue verso la tangenziale, dove il paesaggio diventa più crudo e periferico. È una zona che è molto cambiata negli anni. Prima c’era un campo rom, con le galline che passeggiavano qua e là, e sul terrapieno della ferrovia c’era questo enorme murales di Blu, che correva per duecento metri, e ora è stato coperto da altri graffiti. Aggiungo che per una questione affettiva considero il Duomo di Milano la chiesa più bella del mondo, più di San Pietro». 

    Com’è nato Case milanesissime?

    «Case milanesissime è anche un modo per rispondere a una domanda ricorrente: «Che cos’è milanese?». È una domanda che si sono posti molti libri, libri sugli androni milanesi, libri sui cortili milanesi o su questo e quest’altro specifico architettonico o urbanistico di Milano. Tra questi libri uno è Case milanesi, un volumone con disegni e prospetti tecnici di grandi case e palazzi progettati da celebri firme dell’architettura. Io però ho pensato: ma questo genere di edifici rappresentano davvero la milanesità di oggi e la reale situazione della casa a Milano? Penso di no. Il sottotitolo del mio libro, del resto, è Piante dell’abitare del XXI secolo e il libro si occupa infatti del presente e della realtà che vive oggi chi risiede in questa città». 

    Che reazioni ha incontrato il libro? 

    «Positive, anche perché la mia intenzione era parlare non solo agli architetti, ma a tutte le persone che hanno vissuto l’esperienza di cercare casa a Milano». 

    Di Milano si dice spesso che è la più contemporanea tra le città italiane… 

    «Lo è, a mio avviso, soprattutto perchè resta un luogo d’incontro tra persone che arrivano da culture diverse e da zone diverse dell’Italia e del mondo. A Milano ci si sente accolti».

    Come mai allora te ne sei tornato a Napoli?

    «Per circostanze dovute alla pandemia, ma pure perché ho rifiutato il compromesso di lavorare per pochi soldi per grosse aziende, pagando affitti spropositati. Inoltre ho voluto provare a lavorare da Napoli e confutare la regola che dice che a Milano bisogna viverci, semmai sei tagliato fuori. In realtà prima di tornare a Napoli ero già andato a vivere ad Amburgo, dove lavoravo per uno studio di architettura italiano che lavorava per progetti in Italia. Esperienza rimasta incompleta, visto che a causa della pandemia sono dovuto tornare a Napoli. Prima di Amburgo avevo lavorato a Milano, in circostanze molto negative».

    Ovvero?

    «Sono situazioni che ricorrono e riguardano tanti altri colleghi, impiegati in grandi studi o in piccoli studi, che si comportano però come grandi studi, accettando progetti importanti allo scopo di agganciare grandi realtà, senza avere l’infrastruttura adatta e sfruttando al massimo il lavoro dei tirocinanti. La paga che ricevevo era ridicola e i ritmi di lavoro molto sostenuti».

    Possiamo quantificare?

    «700 euro lordi a partita IVA, a volte lavorando il weekend o fino a tarda notte, il che poteva forse valerti 100 o 200 euro in più a fine progetto. Il giochino psicologico consiste nel dirti che quella che stai vivendo è un’esperienza, una grande opportunità, perché il progetto a cui stai lavorando è legato a un brand importante. Personalmente non riesco ad accettare questo tipo di rapporti, specie se sono un po’ subdoli, perciò ho deciso, molto convintamente, di andarmene. La risposta alle mie dimissioni è stata un pacifico «in bocca al lupo», probabilmente per evitare rogne, anche se, come partita IVA, ero io che avevo scelto di accettare determinate condizioni di lavoro, circostanza che quindi tutelava il datore di lavoro e lo metteva al riparo da una serie di rischi ed eventuali ritorsioni».  

    A Napoli come te la cavi?

    «Lavoro da freelance, guadagno pochino, ma senza il carico di un affitto pesante da pagare».

    Hai una pagina Instagram molto seguita. Confesso che mi sfugge il senso di alcuni dei meme postati sulla tua pagina, come se si trattasse di un linguaggio esoterico, che può essere interpretato solo dagli addetti ai lavori dell’architettura. Ti va di spiegarmi, layer per layer, questo meme?

    Questo meme-progetto si intitola “Piazzale Loreto Controcorrente”. È uno dei progetti più politici che ho realizzato e cerca un po’ di evidenziare l’importanza del mantenere dei luoghi della città con una identità politica. Poche settimane prima era stato pubblicato il progetto vincitore del concorso di rifacimento di Piazzale Loreto, a mio avviso dall’aspetto di un giardinetto pubblico con qualche negozio, alla stregua di un centro commerciale all’aperto – di quelli che però falliscono dopo pochi anni. Piazzale Loreto non è un luogo semplice dove mettere le mani, principalmente per la sua collocazione nodale su più assi infrastrutturali importanti; è inoltre conosciuta ai più per gli avvenimenti storici.

    Leggendo un articolo su Domus di Alessandro Benetti ho avuto quindi modo di riflettere sul perché fosse importante tutelare Piazzale Loreto come Piazza, dove effettivamente può avvenire la vita sociale e ancora prima quella politica. Per raccontarlo con un progetto ho deciso di giocare sulla contraddizione di configurarlo come luogo del dissenso di una ipotetica “dittatura verdurista” – che vuole imporre, senza possibilità di dialogo, il deterrente della “verdurizzazione della città”. Il progetto è quindi un porticato che contiene l’avanzata dei filari di alberi verso il centro della piazza, alcuni dei quali appesi a chioma in giù, come monito. Per enfatizzare la contraddizione rotante che caratterizza il progetto, ho inserito una Alessandra Mussolini, seduta al tavolino e vestita da Marina Abramovic, con la scritta “Fascism is a crime: change my mind”, che reinterpreta un famoso meme.

    Ho letto di una tua proposta: il museo del memecento. Che cos’è?

    «Riguarda un concorso che è stato fatto l’anno scorso per il Museo del Novecento, luogo che ho molto amato e dove sono stato infinite volte, essendo un appassionato di arte del Novecento e avendo avuto la possibilità fino ai venticinque anni di visitarlo gratis. Il concorso seguiva il progetto di acquisto di un palazzo gemello in piazza Duomo, dove ospitare nuove collezioni. È nata così la necessità di collegare i due edifici. Qualcuno ha proposto una passerella, mentre la sovrintendenza ha pensato a una piramide come quella del Louvre.  Ne è venuta fuori una polemica abbastanza sterile tra architetti. Io ho partecipato al bando con un progetto provocatorio e focalizzato sull’idea di collezione, proponendo di musealizzare una raccolta di meme, inseriti come tanti quadri dentro una cornice».

    E il GRAMO?

    «Il GRAMO è un progetto che ho pensato durante il periodo dell’ultima campagna elettorale a Roma, un po’ in risposta alle proposte di Pippo Franco e Carlo Calenda, secondo i quali andava creato un nuovo grande museo o un museo dei musei, al fine di esporre tutti cocci di anfora e i frammenti di statue di Diocleziano ancora conservati nei magazzini dei musei romani. Ho calcolato che più o meno per questo nuovo museo occorrerebbe uno spazio in metri lineari corrispondente alla lunghezza del Grande Raccordo Anulare. Perciò mi sono detto, per paradosso: perché non costruire il GRAMO, cioè un museo lungo il Grande Raccordo Anulare, con una grande vetrata continua che affaccia sul traffico e fa del traffico un’opera d’arte, a volte statica e a volte in movimento?»

    Prima di salutarci, insieme a Gloria andiamo a vedere le ultime tracce del grande murales di Blu, poi torniamo verso la Pizzeria Focacceria Mundial, nella piazza Bottini antistante la stazione, luogo in cui nel 1973 il cantautore Leo Ferrè ambientò due versi onirici: «Io ti vedo, come un’alga blu nell’autobus\nella marea della sera a Lambrate\Io ti vedo come un cigno nero sull’asfalto\nella marea della sera a Lambrate». Percorriamo la breve via Averardo Buschi, che Fabrizio m’informa essere stato un poeta dialettale lombardo. Ci fermiamo di nuovo di fronte alla casa della Barbie, accendo il microfono e chiedo ad Aaltissimo un ultimo commento: 

    «Non so bene quale sia l’intento che ci può essere dietro la progettazione di una costruzione del genere, perché è indubbiamente progettata, cioè non siamo davanti a un edificio spontaneo. Questo è proprio il frutto di un pensiero specifico, che ha una volontà di esprimere un’estetica, molto vicina a quella del mondo delle Barbie e delle bambole, e in effetti sono visibili tutta una serie di cliché: il colore rosa della facciata, una ricerca di rotondità, ovvero queste specie di ondine che danno ritmo ai balconi, e poi gli archetti, le colonnine, questa conformazione quasi americana, non so… è così atroce da sembrare interessante. E poi c’è questa volontà di fare gli archi, ma di non fare la finestra ad arco, bensì quadrata, creando una dissonanza estetica, che notiamo solo noi architetti. Se ci fai caso, è un dettaglio abbastanza disturbante, perché dichiara proprio un limite nella progettazione. Alla fine, però, sembra un po’ Palazzo Carignano a Torino». 

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