Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Lavoro Culturale.
Una delle ragioni della diffidenza diffusa nei confronti della trap come fenomeno culturale è il machismo che impregna le tracce dei trapper italiani. Nonostante ciò sia innegabile, il rifiuto sbrigativo di una modalità espressiva percepita come aliena rischia di oscurare la preziosa possibilità di intravedere segnali differenti: una nuova modalità di autorappresentazione delle donne trapper tutt’altro che passiva.
Il sessismo è di casa tra i trapper italiani.
Il brodo di coltura della trap italiana è composto da un linguaggio crudo e sessista che non va minimizzato. Le barre dei pezzi parlano da sole: “Fumo questa weed, scopo queste bitch”, “Scelgo una tipa, nessuna dice di no, Me la portano in camera con una Vodka” (Sferaebbasta), “La tua tipa non vede l’ora, la faccio spogliare poi ritorna in strada”, “Come gelato mi sciolgo quando lei mi lecca, dalla tua troia in strada, baby, sai che prendo la stecca” (Dark polo gang), “Tre chili di trucco, sbocchini di brutto, Bevi questo cocktail, bevitelo tutto, Appena sei sbronza, stronza te lo butto” (Lazza e Giaime). La reificazione della donna è evidente e costante. La ragazza di turno viene inquadrata come una puttana che rincorre i soldi, una “gold digger”, buona da scopare e poi rimandare a casa. Ricorre l’immagine della donna dell’hater che all’insaputa del suo ragazzo cerca di finire nel letto del rapper che sta cantando. Non esiste più quasi la scissione classica nella visione della donna come santa o puttana. Ad eccezione della madre, figura divinizzata, forza primigenia in grado di proteggere il cucciolo prima che sia pronto alla scalata per il successo, si fatica a scorgere ragazze non assimilabili a prostitute da disprezzare. Le canzoni d’amore sono pochissime, come se il trasporto emotivo e la vulnerabilità fossero qualcosa di cui vergognarsi (uno dei pilastri del machismo). All’interno delle loro canzoni, i trapper usano bitch e troia come sinonimo di donna.