Un giorno, tutto questo. È il tema del Salone Internazionale del Libro di Torino di quest’anno. Per raccontarlo, e per capirlo, Il Salone Internazionale del Libro ha chiesto a moltissimi autori, amici e lettori di riflettere sul mondo in cui siamo e in quello che ci aspetta. cheFare ha girato le cinque domande del Salone a Ezio Manzini che ha da poco pubblicato con noi Politiche del quotidiano.
Chi voglio essere?
Vorrei essere come il capitano di una barca a vela: uno che cerca di seguire una rotta navigando tra venti e correnti che non controlla e che sono largamente imprevedibili.
Fuori dalla metafora nautica, vorrei riuscire vivere la complessità del mondo avendo via via dei progetti di vita. Per farlo credo che occorra pensare e agire come un bricoleur: avere un’idea di massima di quello che si vorrebbe fare e poi lavorare con quello che si trova, adattandolo a ciò che si vorrebbe ottenere, ma anche modificando il percorso inizialmente previsto in base a ciò che, cammin facendo, si è stati capaci di trovare.
Credo che nella formulazione e nella messa in atto di questi progetti dialogici con il mondo noi diventiamo noi stessi. Ma non solo: poiché i nostri atti progettuali sono una piccola parte del mondo con cui ci confrontiamo, il risultato delle nostre azioni non corrisponde mai alle nostre intenzioni. E quindi, passo passo, dobbiamo anche capire cosa siamo davvero diventati. Cioè, dobbiamo ri-conoscere noi stessi.
Se è così, la nostra identità in costruzione è il risultato di questa continua interazione tra le intenzioni da cui partiamo, gli atti progettuali che ne discendono e il resto del mondo con cui interagiamo. In altre parole, anche la nostra identità emerge in un processo di apprendimento continuo che è, al tempo stesso, individuale e sociale.
Perché mi serve un nemico?
Farsi un nemico e costruire muri rispondono all’esigenza (per altro destinata a fallire) di semplificare del mondo.
Infatti, navigare nella complessità concependo e continuamente aggiornando dei progetti di vita dialogici è difficile e faticoso. Viceversa, trovare dei nemici e costruire dei muri è facile. Implica di ridurre la complessa natura delle persone e delle loro interazioni, trasformandola in una semplice relazione amico-nemico. E, fatto questo, tracciare una linea che definisca chi sta da una parte e chi dall’altra.
In definitiva, nemici e muri sono il risultato di scelte progettuali, che tentano di portarci a controllare la complessità tramite la semplificazione del mondo su cui e con cui agiamo.
A chi appartiene il mondo?
Il mondo appartiene al mondo. Cioè, appartiene a se stesso, in tutte le sue forme, viventi e non.
Certamente, poiché ne siamo parte, il mondo appartiene anche a noi, includendo in questo “noi” anche quelli che ancora non sono nati. Però, poiché al mondo non ci siamo solo noi e le nostre future generazioni, esso non è solo nostro. Ma è, appunto, di tutte le entità che ne sono parte.
D’altro lato, poiché in quanto esseri umani siamo in qualche modo consapevoli di noi stessi, sappiamo anche che le nostre azioni incidono sul mondo modificandolo. E, così facendo, rendendolo più o meno adatto alla nostra sopravvivenza come specie.
Oggi ci rendiamo conto che molto di quello che abbiamo fatto nel passato e stiamo facendo nel presente ci sta portando a cambiamenti drammatici negli equilibri ecologici su cui, da sempre, si sono basate le nostre vite (e quelle di molte altre specie vicine a noi).
Di fronte alla dimensione del problema non c’è – e non potrebbe esserci – una cabina unificata di comando che possa portarci in un porto sicuro. Dobbiamo invece immaginarci tutti, e a tutti i livelli, come attori di un grande processo sociale di apprendimento. Un processo che liberi la creatività e la capacità collaborativa di cui ciascuno di noi potenzialmente dispone. E che, così facendo, produca le conoscenze e l’intelligenza progettuale collettiva necessarie a portarci fuori dalla trappola in cui simo finiti.
Dove mi portano spiritualità e scienza?
Se spiritualità e scienza non dialogano tra loro generano mostri. Se dialogano ci possono aiutare ad andare verso un mondo resiliente e sostenibile.
La società può essere vista come una rete di conversazioni tra modalità di pensiero diverse, di cui la dimensione spirituale e quella pragmatico-scientifica sono parte. Se tra di esse c’è un dialogo, ne può emergere un grande contributo al processo sociale di apprendimento di cui si è detto nel punto precedente. Se invece ciò non avviene, entrambe possono involvere e generare dei mostri. Come il fanatismo religioso, da un lato, o la tecnocrazia più disumana e disumanizzante, dall’altro. Il che è, in tutta evidenza, ciò oggi sta succedendo.
La realistica constatazione di questa disastrosa separazione tra spiritualità e scienza non deve però impedirci di vedere che c’è anche l’altra possibilità. Che la conversazione tra le due possa essere ripresa. Anzi: che nella società c’è anche chi questo dialogo lo ha tenuto aperto. E che questo modo di pensare e di fare potrebbe generare, e forse in qualche modo sta già generando, una nuova civilizzazione.
Che cosa voglio dall’arte: libertà o rivoluzione?
Dall’arte non si deve voler niente. Però l’arte, quando è davvero tale, dà qualcosa di non richiesto e, spesso, non richiedibile, perché non (ancora) immaginato.
In un mondo in transizione, quello che di meglio l’arte ci può dare è la sua capacità di proporre dei mondi possibili. E di farlo a modo suo. Cioè non cercando di spiegarli e motivarli. Cioè non facendo propaganda a delle idee precostituite. Ma mostrando questi mondi nuovi, senza ridurne la complessità. Rendendoli sperimentabili in forme sensibili e emozionali, capaci di mettere in moto altre sensibilità e altre emozioni su cui ciascuno, a modo suo, possa costruire una sua idea del mondo e del suo futuro.
In questo l’arte può svolgere, e in parte già svolge, un ruolo cruciale in quel processo di sociale di apprendimento di cui qui ho più volte parlato e che risulta oggi più che mai necessario.