L’imponente processo di urbanizzazione, che da secoli sembra irrefrenabile, unito al fenomeno della globalizzazione, manifestatosi con intensità a partire dagli anni ’90 del Novecento, ha dato vita ad un prototipo di città ben definito a livello mondiale: simbolo di produttività lavorativa ma anche di divertimento e prestigio sociale, la città si presenta oggigiorno come il fulcro della vita mondana; ricca di servizi di ogni tipologia e rivolti a qualsiasi target di persone, sembra essere la risposta per soddisfare qualsivoglia bisogno umano. Non esiste un “no” come responso, la città sarà sempre in grado di appagare qualunque richiesta e da parte di chiunque, o meglio, ciò è quello che appare nel nostro ideale e al quale quest’ultima sembra auspicare. Tuttavia, la realtà è ben diversa…
La miriade di opportunità che la città può potenzialmente offrire, infatti, si riduce drasticamente se il soggetto desideroso di usufruirne è di genere femminile, anziché maschile. Arrivare in ritardo ad un appuntamento solo per aver cambiato strada, evitando di incrociare lo sguardo di qualche soggetto apparentemente pericoloso; rinunciare ad un’uscita improvvisata all’ultimo momento, perché ormai è sera e la fermata dell’autobus non è più un posto sicuro; valutare se il corso di canto finisca in tempo per poter percorrere il tratto a piedi fino alla metro, prima che faccia buio.
Questi sono solo alcuni esempi di situazioni con le quali ho dovuto avere a che fare durante i miei ventitré anni di vita, come donna. Evitare, rinunciare e valutare sono tutte parole che in questo contesto ben poco si collegano alla parola opportunità, piuttosto rimandano ad un senso di pericolo, allarme, sospetto e più precisamente paura. Infatti, è proprio questo l’aggettivo che la geografa Leslie Kern, all’interno del suo libro La città femminista, attribuisce alla città, richiamando il concetto di “Città della paura” per indicare quella sensazione di pericolo che ogni donna è costretta a provare costantemente, durante tutto l’arco della vita, nello spazio urbano.
Una donna si trova spesso costretta a limitare la propria libertà personale, solo in quanto tale; al contrario, un uomo caucasico di età adulta può camminare, esplorare, guardare, toccare, annusare, vivere appieno tutto ciò che la città può offrire; il che è paradossale: perché quest’ultimo è legittimato a godere di un diritto così prezioso come la libertà di potersi muovere ovunque e a qualsiasi ora all’interno dello spazio urbano, mentre una donna deve programmare anche il più piccolo degli spostamenti, per arginare il rischio di una possibile molestia?! Secondo questa rappresentazione quindi, il genere femminile appare debole, indifeso, bisognoso di protezione, una protezione che solamente il genere maschile, dall’alto del suo piedistallo indistruttibile, può offrire. In particolare, la rappresentazione in questione non è altro che il retaggio di una società patriarcale, che ancora oggi privilegia il genere maschile a discapito di quello femminile.
La paura provata dalle donne non deve essere infatti interpretata come una caratteristica legata ad una condizione innata di “fragilità” presente nel DNA femminile, ma piuttosto, evidenzia Kern, come una funzione sociale vera e propria, avente come obiettivo proprio quello di relegare le donne ad ambienti sicuri (come lo spazio domestico), al fine di mantenere viva quella stessa società patriarcale che da sempre rende gli uomini invincibili. Intaccare quest’ultima infatti, andrebbe a smuovere un equilibrio ormai fortemente solidificato; si potrebbe allora osare parlando di “paura maschile”, intesa come quel sentimento di preoccupazione, provato dagli uomini all’idea che le donne possano usurpare il loro posto privilegiato.
Evitare, rinunciare e valutare sono tutte parole che in questo contesto ben poco si collegano alla parola opportunità
Tuttavia, le donne non vogliono rubare il posto proprio a nessuno, semplicemente, rivendicano un diritto che dovrebbe già essere in loro possesso ma che sfortunatamente non lo è. E non è tutto, oltre a non poter essere libere di muoversi all’interno della città, vengono anche accusate, da alcuni ricercatori, di provare una paura irrazionale; in quanto gli spazi pubblici, rendendo più semplice identificare eventuali aggressori rispetto all’ambiente domestico, dovrebbero destare meno terrore (il “paradosso della paura delle donne”). Non contenta, Kern mette in luce tutta una serie di fattori in grado di sgretolare in mille pezzi questa teoria.
Tra questi ultimi emerge un mezzo potentissimo, quello della comunicazione: tv, radio, giornali, siti internet e social media bombardano continuamente i cittadini di notizie legate ad eventi raccapriccianti, quali lo stupro di una donna in un parco pubblico in pieno giorno. Allora, immaginando di essere una donna e di sentire all’ordine del giorno quanto siano frequenti gli episodi di violenza nei parchi pubblici delle città, l’idea che quello spazio urbano (il parco pubblico) sia sinonimo di pericolo, si insidia lentamente nella mente fino a modificare le proprie abitudini comportamentali, evitando ad esempio di percorrere una scorciatoia, che sì farebbe risparmiare tempo prezioso ma che, passando proprio per un parco pubblico, diventerebbe inevitabilmente un’opzione non contemplabile; in quanto il rischio di subire uno stupro desisterebbe la possibile vittima dall’idea di raggiungere anticipatamente la destinazione.
Osservata da quest’angolazione la “paura femminile” sembra essere tutt’altro che irrazionale; al contrario, mostra la capacità delle donne di compiere schemi logici in grado di aiutarle in situazioni potenzialmente pericolose, giustificati dalla quantità di eventi catastrofici che i mezzi di comunicazione, agendo da filtro, puntano ogni giorno sotto gli occhi delle donne, ricordando loro di “stare attente”. Ancora una volta emerge la funzione sociale della paura femminile: “Vuoi vivere la città? Allora non lamentarti se poi vieni stuprata, perché noi ti avevamo messa in guardia”. La paura appare ora del tutto razionale. Così, grazie agli schemi mentali, le donne creano delle vere e proprie mappe della città, circoscrivendo le zone “sicure” e quelle “pericolose”. L’esperienza diventa quindi un mezzo di difesa al quale ricorrono per sfuggire alla paura; infatti, individuare tutte le persone potenzialmente da evitare sarebbe praticamente impossibile, allora “mappare il territorio”, sottolinea Kern, permette di proiettare parte della propria paura sullo spazio, alleggerendo il carico emotivo che un costante stato di paura porta con sé. Ebbene sì, si tratta proprio di un carico, un fardello, un peso, assolutamente paragonabile a quello di una persona con handicap.
La “paura femminile”, rappresentando un vero e proprio stress, ha infatti enormi ripercussioni (economiche, sociali e psicologiche) sul soggetto che ne soffre. Badare 365 giorni all’anno alla propria sicurezza non è affatto semplice! Pertanto, possedere un telefono cellulare per poter chiamare in caso di emergenza, utilizzare l’automobile per gli spostamenti anziché muoversi a piedi, vivere all’interno di edifici sorvegliati e situati in zone costose ma “sicure” della città diventano gesti essenziali per poter vivere in una parvenza di tranquillità. Non si tratta di scelte dettate da un capriccio o semplicemente da un reale interesse, ma di vere e proprie costrizioni. Tuttavia, non esiste di certo una pensione di “invalidità femminile”, una sorta di bonus per ricompensare le donne, e non vi è nemmeno una “cura” in grado di rendere più sopportabile questo stato di malessere. Tutto ciò è legittimato dallo stato, perché si sa, è sempre stato così e così dovrà sempre essere.
Dunque, ogni donna è costretta a convivere per tutta la sua vita con quello che Kern definisce “costo della paura”. Attenzione, ciò non significa che le istituzioni siano totalmente estranee a questo male così comune, anzi, negli ultimi anni mediante l’uso della tecnologia, sono stati molti gli stati ad aver adottato sistemi intelligenti volti ad aumentare la sicurezza delle donne nelle città; ma i cambiamenti (verificatisi solo in risposta ai movimenti femminili) avvengono ancora troppo lentamente, in particolare nelle città di antica costituzione, e soprattutto, qualsiasi politica volta a modificare l’ambiente urbano a favore delle donne, deve inevitabilmente scontrarsi con tutta una serie di altre esigenze in capo alla moltitudine dei membri facenti parte della società.
Appurato che trovare una soluzione universale sarebbe quindi impossibile, Kern suggerisce comunque un approccio intersezionale, per quanto possibile, che tenga conto dei pensieri, delle idee, delle sensazioni e delle emozioni delle donne, al fine di implementare interventi efficaci ed efficienti. Credere al genere femminile, non reputandone la paura come irrazionale, sarà il primo passo verso la formazione di una città libera dalla paura stessa.