Musica elettronica e il ruolo delle città. Lo spazio urbano nel prossimo futuro

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    Pubblichiamo un primo intervento in collaborazione con Electropark, che da luglio (dal 14 al 16) proporrà a Genova un festival con tema “Hypernature”. Hypernature è un modus vivendi e operandi che ha caratterizzato in maniera trasversale la direzione musicale, performativa, culturale e filosofica degli ultimi anni, ispirandosi al pensiero della biologa, zoologa e filosofa statunitense Donna Haraway e all’ecofemminismo. L’emancipazione dell’individuo non conforme, femminile e/o queer rispetto ai generi,siano essi biologici o artistici, è il grande leitmotiv di questi nuovi anni Venti. Hypernature evoca il movimento ecofemminista di riappropriazione collettiva delle tecnologie e dell’ambiente, la necessaria trasformazione in una comunità solidale di cyborg postumani finalmente in armonia con la natura e con il mondo. Qui il podcast a cura di Claudia Calabresi.

    Gli spettacoli si terranno in più location: Galata Museo del Mare, Mercato dei Pescatori della Darsena, Virgo Club, Bonfim Club, Mercato dei Pescatori della Darsena e Groove Island con la creazione di una piattaforma galleggiante al largo di San Michele di Pagana. Sui diversi palchi si alterneranno oltre cinquanta artiste e artisti provenienti da dodici paesi differenti. Tra i nomi in line-up spiccano i produttori James Holden e Anthony Rother, l’arpista statunitense Mary Lattimore, la percussionista Valentina Magaletti, il duo batucada-elettronico Ninos Du Brasil, l’artista sperimentale Nziria, il producer ugandese Authentically Plastic, il duo olandese No Plexus e l’etichetta/collettivo Toy Tonics. Il fitto calendario propone anche sei “performing acts” fra danza, teatro e installazioni multimediali, prodotti da altrettante compagnie da Italia, Olanda e Belgio. Per maggiori informazioni qui

    Scrivo queste righe pochi giorni dopo la notizia — in realtà nemmeno di troppo conto, visto che si trovava solo con titoli acchiappaclick su qualche sito di informazione locale — per cui un gruppo di residenti del quartiere di Torino in cui si terrà il Kappa FuturFestival ha chiesto alla città di considerare lo spostamento di un evento di portata europea per i soliti motivi di ordine pubblico, decoro e contrasto al degrado. È solo l’ultimo esempio di una retorica ben più ampia, che dai comitati di quartiere più o meno strutturati sale su fino al governo. Ricorderete bene, infatti, come l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni appena insediatosi, alla ricerca della prima arma di distrazione di massa, se la prese con i rave adoperandosi per un decreto in tutta fretta per normare le “zone temporaneamente autonome” dando quindi l’impressione di tenere prima di tutto all’ordine e alla disciplina.

    Lasciando perdere il concetto per cui parole come “rave” sono relative a un’esperienza specifica molto raccontata — per cui vi rimando a libri, film, documentari e podcast a riguardo — per la quale siamo a rischio di un vago effetto nostalgia (se parliamo di “rave party” facciamo riferimento al periodo tra gli anni Ottanta e Novanta) possiamo però fare qualche ragionamento sul rapporto tra la musica elettronica ‘at large’, gli spazi istituzionali e non, e il potenziale generativo e trasformativo di una dialettica che, partendo dal testo (la musica) può tornare a essere positiva.

    Quello che manca ogni volta che si parla di decoro e spazio urbano è proprio un’idea sul ruolo della città e la prospettiva che la città deve darsi nel prossimo futuro. Certo non possiamo aspettarci dai comitati di quartiere un ruolo di elaborazione politica (il problema è concreto e vero: la gente la mattina dopo deve andare a lavorare), ma è anche vero che nel panorama internazionale le città stanno cambiando pelle. Gli uffici si sono svuotati; anni di speculazione economica hanno spinto sempre di più gli abitanti fuori dai quartieri; i fenomeni di gentrification e ‘foodification’ (per cui per ogni negozio più o meno storico, libreria, negozio di dischi, centro culturale, posto in cui fare qualcosa arriva un ristorante) hanno colonizzato il panorama urbano rendendo ogni quartiere una fotocopia di un altro quartiere; lo spazio psicopolitico è colonizzato dai servizi di streaming… sono evoluzioni che studiamo, leggiamo, analizziamo da 10 anni e a cui abbiamo dedicato tonnellate di presentazioni di libri, convegni, aperitivi. Quindi lo sappiamo. Però che ruolo vogliamo dare alla città? E come può entrare in dialogo con la forza generativa e trasformativa di una musica — qui stiamo parlando di elettronica ma l’esempio potrebbe ampliarsi a tutti gli altri generi, inteso proprio come genre.

    C’è un famoso articolo pubblicato sull’edizione internazionale di Jacobin racconta la storia tutta italiana del rapporto controverso tra il Partito Comunista Italiano e la musica dance (intesa qui proprio come disco music, quella degli anni Settanta). C’entrano tanti fattori, ma tra tutti quello che spicca è proprio lo scetticismo della politica italiana di sinistra per il concetto di “edonismo”. Quando Emma Goldman dice «se non posso ballare non è la mia rivoluzione», intende anche quello che poi Hakim Bey racconterà teorizzando gli spazi che la liberazione del corpo e la ricerca del piacere puro creano nelle T.A.Z.: l’elusione (temporanea) della struttura gerarchica di controllo sociale, uno spazio di autonomia in cui il corpo non è normato, controllato, vincolato alla struttura della società e in cui il decoro urbano viene rovesciato nella dinamica della ricerca del piacere puro. Effettivamente, quanto di più distante dalla cultura come progetto di trasformazione pedagogica anche un po’ moralistica di stampo P.C.I. Va detto che ai tempi il progetto era plasmato sull’obiettivo della liberazione operaia dentro la società fordista, dominata dai ritmi della fabbrica e per cui quando la fabbrica chiudeva non succedeva davvero niente. Adesso che non siamo più né fordisti né forse tantomeno post-fordisti dovremmo capire se le strategia di lotta e di emancipazione devono tornare a parlare la lingua del piacere (come il recente successo dei Pride in tutto il paese suggeriscono) e, al tempo stesso, unirlo alla capacità di trasformare lo spazio urbano.

    ph. Silvia Aresca

    Spingo su questo tema perché la trasformazione dello spazio urbano è l’unica azione concreta per le comunità di senso, che si riconoscono in un progetto artistico, per far sì che le nuove urbanità non siano piegate a logiche di mercato sempre più opprimenti. In Disertate (Time0, 2023) Franco ‘Bifo’ Berardi suggerisce la fuga da una società che non ha più nulla di umano: ma forse questa diserzione va portata dentro i luoghi di una società che non ha più nulla di umano e provare a risemantizzarla attraverso significati se non nuovi, per lo meno aggiornati ai tempi in cui viviamo. E l’elettronica più sperimentale e di ricerca ragiona proprio — teoricamente e praticamente — sulla disumanizzazione. Solo che per evitare il rischio concreto del ritorno a un neo-bucolicismo cripto-pagano dalle tinte un po’ scivolose, il discorso va portato nella concretezza della quotidianità. Da qui anche la critica a quella che Simon Reynolds definisce non a torto conceptronica. 

    La musica dance pura, l’elettronica concettuale e sperimentale, il ballo sfrenato e i fenomeni di possessione, l’ascolto più cerebrale e sensoriale, i “rave” istituzionalizzati in spazi come i grandi festival e le rassegne highbrow con sponsor privati sono tutti luoghi che però permettono alla persona di rifarsi comunità e rifiutare le logiche normative dei governi (che tollerano un certo tasso di edonismo, ma solo se con finalità economiche e procreative) e delle città come corpo burocratico (che permettono il divertimento laddove non si trasforma in attacco al decoro spingendo più nella definizione di nonluoghi che non nella ridefinizione di senso negli spazi dentro la città ormai destinati alla vetrina o all’abbandono). Poi ci sarà sempre qualcuno — un politico di estrema destra, un comitato di quartiere che vuole andare a dormire a un’ora decente, un’associazione di commercianti che teme una comunità queer e stramboide come deterrente per i clienti — che andrà contro qualsiasi cosa non sia il ritmo normato del lavoro, del consumo e della produzione: ma dopo anni di fallimenti riformisti forse è il caso di mettersi l’anima in pace e capire che nessuno darà alle persone il permesso di immaginarsi un mondo, uno spazio, una città e una politica diversa. E questa cosa la musica elettronica, dance, chiamiamola come ci pare un po’ l’ha capito.

     

    Immagine di copertina: credits Ommegraphie

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