Come quando da piccoli si cadeva dalla bici, non si risale in sella uguali a prima. Nessuno sa davvero come, ma il momento che stiamo vivendo lascerà un segno. Forse non solo nel nostro rapporto con la città, ma anche sul funzionamento delle istituzioni.
Alcune città, come Milano e Padova, hanno approvato nelle ultime settimane alcune strategie di adattamento che contengono una radicale modifica degli stili di vita dei cittadini e dell’organizzazione urbana.
Le città si trovano tutte in un momento di profonda incertezza, con risorse scarse, ma con la necessità di pianificare un nuovo ordinario in pochissimo tempo. Istituzioni, organizzazioni e cittadini sono tutti alla ricerca di un nuovo modo di fare città.
Se in piena quarantena diversi contributi hanno evidenziato come lo spazio domestico fosse il solo ad essere percepito come sicuro, le strategie di adattamento alla fase due raccontano del valore dello spazio pubblico.
È lo spazio pubblico oggi, lo spazio all’aperto, il luogo da cui partire per ricostruire urbanità in sicurezza.
Una dicotomia, quella tra spazio domestico e spazio pubblico, che in poche settimane è profondamente mutata, non solo nel discorso pubblico, ma anche negli adattamenti progressivi delle nostre vite quotidiane.
Il ‘nuovo ordinario’ (ri)organizza i tempi della città, l’uso delle strade e degli spazi pubblici, aumenta gli spostamenti a piedi, in bici e la mobilità leggera; ripopola la dimensione di quartiere (la famosa città 15 minuti e piedi mutuata dall’esperienza parigina) e moltiplica gli spazi culturali nei parchi, giardini, e altri spazi messi a disposizione dalle Università. In sicurezza, ma nello spazio pubblico.
Nelle strategie di adattamento si ricerca una capacità di pianificazione adattiva, reattiva, meno burocratica, urgente e dinamica. Il tempo è una variabile importante presente in entrambe le strategie: il tempo della velocità di risposta, come l’urgenza di prendere questo momento per cambiare radicalmente il funzionamento delle istituzioni e delle città.
Ovviamente sono tutti ragionamenti che lasciano diverse domande aperte, punti di riflessione: riusciranno queste strategie ad impattare positivamente sulla capacità delle istituzioni di reagire tempestivamente nei momenti di crisi? Saranno cambiamenti ad impatto positivo e a lungo termine? Potremmo verificare dei processi di apprendimento interessanti anche nelle forme e negli strumenti usati per pianificare territorio e società?
E, infine, un altro punto aperto: la relazione tra emergenza e fasce deboli della popolazione, in particolare nella fase di ricostruzione.
Mentre noi tutti rimanevamo a casa, abbiamo toccato con mano l’impatto di un’emergenza sulla collettività. Abbiamo tutti noi visto la vulnerabilità entrare dall’uscio di casa. Anche se isolati, abbiamo visto rispondere la comunità.
In una crisi epocale le iniziative di mutuo aiuto si sono moltiplicate uscendo spesso da classici steccati di appartenenza perché al centro è sembrato tornare l’essere umano più che le categorie a cui appartiene. Richard Sennet ne aveva già parlato in un articolo per il The Guardian a fine marzo.
Nonostante ci siamo resi conto della potenza dello Stato, come già tanti analisti hanno fatto vedere, la città si è popolata di iniziative di mutuo aiuto: la spesa sospesa nei supermercati, le connessioni condivise nei condomini, le squadre di volontari per mascherine e buoni spesa, l’adattamento delle attività delle cucine popolari.
Spazi inediti che avranno probabilmente un impatto su come intendiamo l’innovazione sociale: nate in una condizione di emergenza, sembra più forte l’orizzonte trasformativo di queste pratiche dal basso, la necessità di mettere in discussione una condizione pre-esistente.
Sembra modificarsi, grazie alle modalità di incontro e organizzazione telematica, la possibilità di scalare queste iniziative oltre lo spazio di prossimità. Non è un caso che siano nate diverse mappature di comunità: pensiamo a Covid-19 Italia Help, progetto promosso da Action Aid, o a Solvid progetto di ricerca e azione dell’Università Autonoma de Barcelona a cui anche Università Iuav di Venezia sta oggi collaborando.
Addirittura la VII Commissione parlamentare ha riconosciuto il ruolo degli spazi rigenerati a case culturale come infrastrutture di prossimità: luoghi capaci non solo di essere spazi di welfare, ma di essere infrastrutture per le istituzioni che stanno adattando il loro funzionamento per la città che verrà.
Come la letteratura sulla gestione delle emergenze insegna, nella fase post-emergenza ci possono essere spazi di sperimentazione interessanti. A partire dal momento in cui un disastro colpisce un territorio, le trasformazioni dello spazio fisico e i cambiamenti nelle reti sociali avvengono secondo dinamiche esterne alla sfera d’azione del singolo, si riflettono in maniera pesantissima sull’organizzazione della vita delle persone colpite, generando inedite necessità, individuali e collettive.
La domanda che rimane aperta è quanto le istituzioni saranno in grado di pendere in carico tali domande traducendole in politiche pubbliche e processi di pianificazione adattivi ma capaci di rispondere a bisogni concreti.
Ci troviamo di fronte ad una città mutata dove le diseguaglianze sono destinate ad aumentare. E come in ogni momento di crisi, c’è bisogno di un grande lavoro collettivo basato sull’intelligenza delle istituzioni e cittadini assieme.