Tuffarsi in via Paolo Sarpi

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    Mi tuffo in via Paolo Sarpi, nel cuore del mio quartiere, un tempo chiamato el burg di scigulatt: il borgo degli ortolani. Un dedalo di stradine in cui ci si perde e dove non c’è parcheggio, situato poco lontano dal Duomo: tra il cimitero monumentale, porta volta, l’arena civica e l’arco della pace. Ma è come se mi trovassi nel centro di Pechino.

    Un racconto ironico e leggero di via Sarpi tra gli stereotipi di un mondo globale direttamente a casa della borghesia “illuminata” milanese.

    In giro incrocio solo visi gialli e occhi a mandorla. “Và via gialdùn!”, gli avrebbe urlato mia nonna. Io invece li osservo, li fotografo e li dipingo. Cerco di raccontarli.

    Comunque, solitamente, prima di vederli vengo avvolta dall’odore dei loro cibi fritti e sono trapassata dal volume delle loro voci acute.

    Poi sbatto contro i loro carrellini, inciampo nei loro pacchi, mi scontro con le loro biciclette e alla fine investo i loro corpi.

    Loro non si spostano, io o mi divincolo o mi infortuno: non mi lasciano molta scelta.

    Dopo svariate colluttazioni: li guardo. Mi colpiscono sempre le loro espressioni: distanti. Come se fossero qui, ma si trovassero altrove: ancora in Cina, forse. E in Cina probabilmente siamo.

    Dunque, in realtà, sono io quella con il viso strano e gli occhi strani, che mangia cose strane e parla una lingua strana.

    Nella mia lingua strana, ogni tanto, gli dico “buongiorno” o “buonasera”. Solo che loro solitamente non mi rispondono: tirano dritto. Mi pödi pissà in lecc e dì che mi hu südà: posso dire qualsiasi cosa.

    Il risultato è sempre lo stesso: silenzio. Imperturbabilità e indifferenza. Se mi va bene al massimo mi osservano perplessi. Forse si chiedono: “che dice questa?”.

    Perché i cinesi di Paolo Sarpi, generalmente, l’italiano non lo sanno che tanto non gli serve: se parlano, parlano tra loro, in dialetto cinese. In italiano dicono solo: “No”, “Non so”, “Non voglio”, “Non capisco”, “Non ho tempo”. Ma temo che il massimo godimento lo provino nel non rispondere. Lo gnorri deve essere il loro idolo.

    Ho comprato il quotidiano e l’ho infilato nella borsa, mi fermo a leggerlo davanti a un cappuccio e a una brioche nella panetteria di zona. l’unica rimasta aperta. Le altre hanno chiuso: i cinesi mangiano riso, non michette.

    Quindi questa panetteria per sopravvivere, un po’ come il filosofo che si ricicla in opinionista e in psicanalista, si è rifatta il look e anche il curriculum: adesso è tutta patinata, e non vende più solo pane ma fa anche da bar e da tavola calda. E a pranzo si riempie di italiani.

    I cinesi, invece, se possono, mangiano nei loro locali, che spesso sono anche abitazioni-laboratori-negozi. La formula tre per uno, quella dello spazio unico in cui vivi, produci e vendi, non è solo una prerogativa di alcuni di noi artisti ma anche di molti di loro cinesi.

    Però io, nel mio tre per uno che è un loft, adesso ci sto da sola. Mentre i cinesi, nel loro tre per uno che a volte è un seminterrato, ci stanno in quanti ci riescono a stare: creando giochi d’incastri che neanche un mago del puzzle arriverebbe a tanto.

    In alcuni di questi scantinati, a volte senza finestre e a volte accessibili da una botola, hanno trovato anche dei bordelli, delle bische e delle banche clandestine: a onor di cronaca, che non so se sia anche a onor del vero.

    Comunque, per quel che si dice, indipendentemente da cosa fanno, pare che per i cinesi sia semper un gran laurà: sopra e sotto terra. Sono in continuo sbattimento, come le formiche nel mio appartamento.


    Tratto da Gabriella Kuruvilla, Milano. Fin qui tutto bene (serie Contromano, Editori Laterza) © 2012, Gius. Laterza & Figli

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