Museion Art Club: quando hackerare la cultura serve a immaginare il futuro

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    Un percorso editoriale dedicato al Museion Art Club di Bolzano, un incubatore e amplificatore che incoraggia interazioni tra il museo di arte moderna e contemporanea di Bolzano e i protagonisti dell’attivismo urbano diffuso, offrendo spazio, visibilità e possibilità di fare rete.

    Questo è il quarto di una serie di articoli per raccontare il mondo delle organizzazioni para-istituzionali e il loro operato e per approfondire i temi dell’arte e della partecipazione sui territori. Leggi qui la terza puntata.

     

     

    Da qualche settimana provo a dare forma a questo ultimo pezzo della serie dedicata al Museion Art Club. Un pezzo che, stando al piano editoriale, dovrebbe contenere interviste a persone di Bolzano per indagare il loro punto di vista su questa iniziativa, e che dunque ha richiesto nei mesi scorsi la raccolta delle opinioni più diverse1Ne approfitto per ringraziare tutte le persone che mi hanno dedicato del tempo, senza le quali il pezzo sarebbe uscito. . Il risultato di questa indagine è che, come spesso accade, qualcuno è appassionato, qualcuno la ritiene un’iniziativa inutile, oppure già vista, oppure esclusiva (nel senso che esclude); qualcuno non ha un’opinione, qualcuno è molto critico, qualcuno molto entusiasta. Mi sono trovata a un punto morto, con il pezzo che rischiava di  somigliare a un reportage. 

    Poi ho riflettuto sul fatto che, prima di essere invitata a scriverne, non conoscevo Museion Art Club. È vero, non vivo a Bolzano, ma ci passo almeno cinquanta ore a settimana: come mai non ne avevo mai sentito parlare? Con un approccio quasi etnografico, l’ultimo venerdì di settembre, sono stata qui, al piano -1 del Museo. C’erano tante persone, non solo altoatesine, non solo di madrelingua italiana né solo di madrelingua tedesca, diverse per età e abbigliamento. Una dimensione ibrida ma non sciatta, inclusiva ma non uncool, collaborativa e inaspettata. 

    Alla fine della serata, percorrendo l’autostrada verso sud, sempre con il pensiero di dover prima o poi dare forma a questo scritto, ho pensato: cosa bisogna fare per promuovere la solidarietà tra le generazioni nel settore culturale? Qual è il modo più fertile di affrontare uno, due, tre, dieci conflitti senza banalizzare e senza polarizzare? Come si può, in questi posti che sono piccoli e sono ai margini, gestire l’invidia che finisce per bloccare le alleanze? È possibile far convivere istituzione e underground? Come può un’organizzazione, che deve continuamente definire la sua identità, aprirsi a contaminazioni? Cosa succede in un territorio diviso su base etnica quando un’organizzazione mette attorno a un tavolo gli operatori culturali e progetta sulla base dei propri interessi, senza preoccuparsi troppo delle distanze linguistiche?

    Avrei un sacco di risposte possibili. Dopo anni di consulenze a multinazionali di matrice americana o a piccole realtà che le scimmiottano, potrei snocciolare diverse tecniche per risolvere insieme problemi che non sono problemi e districare complessità che, a ben vedere, dovremmo preoccuparci solo di lasciare intricate. Ma il contributo che state leggendo va in un’altra direzione. Condividerò qui delle intuizioni che potrebbero essere sbagliate, ma che spero metteranno in moto dei confronti.

    La prima, più che un’intuizione, è una constatazione: In molti non hanno compreso come funziona il Museion Art Club. Quindi, forse, il primo passo è raccontarlo. 

    Inizialmente il Museion Art Club (il cui scopo è raccontato negli articoli precedenti) era pensato come un gruppo composto dai rappresentanti delle diverse comunità del territorio e dai dipendenti dell’organizzazione. Ma in un’epoca in cui, di fatto, nessuno rappresenta nessuno, i rappresentanti risultavano poco rappresentativi e quindi, piano piano, si è pensato di coinvolgere esterni. Non vi era uno scopo chiaro o un’attività da realizzare, c’era una visione da interpretare. Dopo alcuni tentativi ha preso forma un modello che ha l’obiettivo di progettare quattro momenti all’anno, in corrispondenza dei principali eventi del museo. Questo gruppo misto di 14 persone ha dunque il compito di delineare la tematica di ricerca per i mesi a venire e i diversi format di evento in cui tale tematica sarà articolata (performance, happening, feste, azioni estemporanee,…). A partire dalla tematica individuata e dal format delineato, viene pubblicato un bando a cui sono chiamate a partecipare persone singole o collettivi locali per proporre idee e programmi, con l’obiettivo di dare corpo alla tematica nel format individuato.

    Tutte le proposte candidate vengono esaminate e votate dal Forum dell’Art Club attraverso il Town Hall Meeting, ovvero un’assemblea a cui chiunque può partecipare. I gruppi che hanno proposto le idee che ottengono più voti vengono poi affiancati da un gruppo esecutivo che li supporta nella realizzazione.

    Apparentemente, il processo è semplice. Rimangono tuttavia aperte una serie di questioni importanti: chi fa parte dei vari gruppi e in virtù di cosa? Come si organizzano i gruppi? È giusto che qualcuno abbia più “potere” decisionale di altri? Come ci si può assicurare che il processo sia democratico? Chi vota, e come si vota? 

    Nate da un dibattito interno su come organizzare l’Art Club, queste domande ampliano le riflessioni a tante altre organizzazioni, alla nostra società nel suo complesso. Perché la tentazione di prendere decisioni dirette senza la mediazione di rappresentanti eletti, l’uso della tecnologia nei processi decisionali al fine di includere e favorire la partecipazione, la diffidenza verso gli esperti e insieme il rischio dell’incompetenza sono temi non solo per l’Art Club, ma probabilmente per ogni gruppo che si interroga su come trovare nuove forme di democrazia.

    Per questo l’esperimento di Art Club va, secondo me, nella direzione auspicata dal direttore: il museo come un’istituzione capace di aprire le porte e sperimentare modelli per la società e le istituzioni del futuro. Abbiamo bisogno di spazi in cui la dimensione speculativa si faccia concretamente sperimentale, vada come vada. 

    Ho l’impressione che Bart van der Heide, il direttore di Museion, avviando il Museion Art Club, sia andato persino oltre l’idea iniziale di mettere l’istituzione culturale a disposizione di chi desidera ragionare sul contemporaneo e non solo ammirarlo. Penso abbia trovato una strada per “crepare” il sistema, per incrinare la continuità e la stabilità di istituzioni politiche e culturali. Tocca a chi è su questa strada adoperare competenze nuove e sistemi di sapere che ri-organizzino le abilità secondo nuovi schemi, al fine di allargare la crepa quanto basta, evitando però che diventi una spaccatura. 

    Detto in un altro modo, credo che “stare nelle crepe” sia un’esigenza impellente e che per riuscirci sia importante mettere in moto pratiche che, nella mia visione, hanno a che fare con ciò che Otto von Busch chiama fashion hacking:

    Una pratica in cui la moda viene decodificata, re-ingegnerizzata e messa a punto per rendere i suoi utenti fruitori alla moda. È una pratica che allo stesso tempo utilizza i social media per espandere trasversalmente le tattiche che utilizza, col fine di generare un impatto sui codici stessi della moda e, da lì, ripartire. Altri tratti di queste tecniche di hacking inoltre affrontano la ritualità sciamanica della moda e il modo in cui le pratiche partecipative possono espandere questo regno oltre la passerella e il paradigma del prêt-à-porter2von Busch, O. (2014). Fashion Hacking. Design as Future-Making. https://doi.org/10.5040/9781474293907-0009.

    Volendo intraprendere io stessa la strada dell’hackeraggio, potrei dire che servono pratiche in cui “la cultura” che troviamo in un museo di arte contemporanea sia de – codificata, re – ingegnerizzata e messa a punto per includere chi normalmente non frequenta mostre di arte contemporanea. Pratiche che possano usare la tecnologia anche per comunicarsi e, che, utilizzando proprio l’impatto generato dalla loro diffusione, riescano a produrre un’influenza sui codici del sistema culturale stesso. Allo stesso tempo, sono convinta che queste pratiche e queste tecniche debbano essere utilizzate per affrontare, analizzare, ri-progettare le forme organizzative delle istituzioni culturali stabili e conosciute e che lo debbano fare attraverso il coinvolgimento di persone e collettivi capaci di espandere il sistema della fruizione della cultura e, nel caso specifico, dell’arte contemporanea: oltre i vernissage, i finissage, i laboratori didattici, le visite guidate, le mostre. Così facendo possiamo hackerare non solo il sistema culturale, il museo, la biblioteca, ma anche la società in cui viviamo e che da tempo ha smesso di aspirare a essere la migliore possibile.

     

    Qui la prima puntata della serie su Museion
    Qui la seconda puntata della serie su Museion 
    Qui la terza puntata della serie su Museion

     

    Immagine di copertina di Reese Harvey su Unsplash

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