2024: Fuga da X

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    La scena è questa: nel 1988, dopo che il crimine è aumentato del 400%, il governo degli Stati Uniti ha trasformato l’intera Manhattan in un carcere di massima sicurezza, in cui i reclusi, tutti condannati all’ergastolo, sono lasciati alla mercé di sé stessi.
    Se avete amato anche voi Jena Plissken, avrete riconosciuto la scena del film: 1997: Fuga da New York di John Carpenter, sul quale sono state scritte centinaia di tesine di semiotica del cinema nei corsi del DAMS e di Scienze della Comunicazione a fine anni ’90.

    La scena a cui stiamo assistendo in questi giorni non è molto diversa: dopo che il livello di tossicità, aggressività, disinformazione e violenza verbale è aumentato del 400% rispetto all’era del governo Dorsey, il DOGE, nuovo governatore della città di X, ha sguinzagliato tutti i criminali della parola violenta, lasciandoli liberi di imperversare, in nome della libertà di espressione, feticcio ormai definitivamente appropriato dalla destra estrema americana per giustificare qualsiasi cosa. Di fronte a questo scenario apocalittico, milioni di utenti di X, hanno deciso di abbandonare la città e migrare altrove, apparentemente sul pianeta Bluesky, descritto come un’isola felice, una specie di Eden perduto dell’Internet che fu, una sorta di risorgenza retromaniaca per un’età dell’oro dei social network che non è mai davvero esistita. In questo breve frammento, proporrò una meditazione sul significato politico, culturale ed economico di questa nuova migrazione di massa.

     

    Prima di decidermi a scrivere, mi sono fatto un giro su Bluesky, e l’ho trovato divertente. Ho anch’io assaporato il dimenticato brivido di iscrivermi ad un nuovo social network, con nuovi amici da scoprire e un mondo di contenuti improvvisamente interessanti e senza spazzatura né spam pubblicitaria. Per un attimo, mi sono fatto illudere dal senso di nostalgia per il passato, per quei primi tempi in cui stavamo su Twitter a creare nuove connessioni. Poi mi sono scrollato di dosso questa patina di grossolana nostalgia e mi sono ricordato che già all’epoca, quei social network, rappresentavano il tentativo di aziende commerciali americane di tradurre su scala commerciale la natura conviviale delle prime comunità elettroniche degli anni ’90. Forse nel 2009 non ne eravamo molto consapevoli, ma eravamo già all’inizio dell’epoca attuale: dataficazione e piattaformizzazione delle relazioni sociali sono iniziate allora, e oggi X è solo una versione un po’ più estrema di quell’incipiente capitalismo della sorveglianza.

    Poi ho letto un paio di articoli interessanti. Uno dello studioso di media argentino Carlos Scolari, che in questo articolo (in spagnolo) del suo blog adotta una originale prospettiva storica per analizzare questa recente migrazione. Non siamo di fronte alla prima grande migrazione da una piattaforma mediale all’altra, sostiene Scolari. La storia dei media è piena di questi esempi: la guerra dei formati audiovisivi, l’ascesa di Netscape e la sua successiva caduta per mano di Microsoft Explorer, oppure il passaggio da My Space a Facebook e da questo a Instagram. Insomma, saremmo sempre di fronte a un fenomeno tipico delle industrie mediali, in cui i capitalisti dei media competono per attrarre audience. Non c’è niente di nuovo quindi nella migrazione di Bluesky, e nemmeno niente di radicale o migliore. La sua prospettiva storica è interessante, perché ci fornisce una chiave di lettura utile per capire questa migrazione: è già successo altre volte, ma è solo una battaglia tra capitalisti dei media, non illudiamoci di star facendo delle scelte che miglioreranno la democrazia o scalfiranno davvero il potere di qualche mogul dei media.

    Ma questa prospettiva non è sufficiente. Perché è vero che le migrazioni mediali sono sempre esistite, ma per almeno dieci anni, nel campo dei social media, non sembravano esistere alternative reali al monopolio di Twitter/X e Meta. La sensazione, per molti anni, è stata simile a quella di un frustrante sequestro della propria cerchia sociale, perché il potere di attrazione di questi social media si fonda sulla loro capacità di “allucchettarci dentro” (locked in) il loro ecosistema tecnologico, rendendo le reti sociali costruite lì dentro non portatili. Come giustamente nota il sociologo inglese David Beer nell’ultimo episodio della sua newsletter, “uno dei motivi per cui le piattaforme dei social media hanno una relativa stabilità è che è praticamente impossibile spostare intere reti sociali su altre piattaforme. Il network di relazioni create lì dentro è ciò che le rende attrattive. Una volta che una rete si è stabilita e ha raggiunto una massa critica, è difficile abbandonarla. Più la rete è consolidata, più la gravità è forte. Ecco perché, anche quando le persone vogliono lasciare X, hanno difficoltà a farlo, perché significherebbe abbandonare il proprio posto all’interno di una rete consolidata”.

    I network, sostiene Beer, sono “platform specific”, cioè sono legati alle singole piattaforme: su X seguo persone diverse da quelle che leggo su Facebook. E finché qualche saggio governo liberale non imporrà a queste aziende l’interoperabilità “by default” delle reti sociali, faremo sempre fatica a cambiare piattaforma. Questo però svela anche una debolezza dei social media: il vero valore che hanno da offrirci non è la loro tecnologia, o le loro funzionalità. Il valore che noi riconosciamo in esse, nonostante la demenzialità delle loro interfacce, è la possibilità di incontrare persone con le quali ci piace parlare o che vogliamo sentir parlare. È la rete di relazioni, la nostra socialità, il valore, non la tecnologia in sé. Se queste aziende non avessero avuto l’idea diabolica di sequestrare la nostra socialità per associarla indissolubilmente a una singola piattaforma, non saremmo rimasti così fedeli nel tempo. Quasi tutti gli utenti odiano Facebook, X, i loro padroni, i sistemi di moderazione incomprensibili, le scelte tristi di design, ecc., ma ci rimangono per le persone, non per le tecnologie. Allora un obiettivo più radicale sarebbe liberare queste reti sociali dalla presa del capitalismo di sorveglianza, e renderle portatili e volatili, decentralizzate e accessibili tramite tecnologie conviviali, cooperative, che possiamo controllare.

    Questo per me rimane un obiettivo politico di lungo periodo. La migrazione verso Bluesky invece, mi sembra semplicemente una pallida sineddoche della nostra libertà di scelta, all’interno di un ecosistema molto poco democratico e pluralista. Al momento, per quanto divertente, Bluesky offre al massimo una inedita libertà di consumo dentro lo stesso regime liberista, e non un cambio di regime.

    Bluesky sta dimostrando (forse) che X o Meta non hanno più il monopolio sulla costruzione di reti sociali online, ma che questo monopolio è attaccabile. Semplicemente, l’entusiasmo di alcuni utenti per Bluesky, a tratti un po’ naif, può essere visto come l’entusiasmo del consumatore per l’arrivo di un po’ di pluralismo (di piattaforma), un pochino di varietà di scelta.

    L’epoca del broadcasting, almeno in Europa, fu a lungo caratterizzata dal monopolio pubblico sulla comunicazione di massa, rotto negli anni ’90 dalla sua liberalizzazione. L’epoca delle piattaforme digitali invece è stata caratterizzata da un oligopolio privato sulla comunicazione peer-to-peer, e la diffusione di Bluesky (ma anche di altre piattaforme cinesi) potrebbe segnalare l’inizio di una nuova era leggermente più pluralista.

    Devo dire che anche io mi sto divertendo su Bluesky, il clima è più rilassato, gli attivisti palestinesi non rischiano di essere bannati come su X, c’è meno rumore di fondo, l’utente ha maggiori strumenti di scelta e autonomia per costruirsi il suo feed, e soprattutto per ora non c’è pubblicità, e questo significa, almeno per ora, che Bluesky non rientra nel modello di capitalismo della sorveglianza rappresentato da Meta e X. X e Meta sono come la tv generalista, un gran frullatore culturale con molta spam nel mezzo. Bluesky richiama la nostalgia per le prime comunità virtuali degli anni ’90, ma rimane una piattaforma privata (al momento è una specie di società a responsabilità limitata, come una SRL italiana), che in futuro potrebbe rapidamente “inshittificarsi”, per usare un termine caro a Cory Doctorow, diventare una “merda” come tutte le altre. Di solito, tutti questi media, non appena aumenta la scala degli utenti e dei finanziamenti, perdono coolness e si trasformano in dinosauri industriali. Facebook e X sono dei dinosauri, sono la tv generalista della nostra epoca: tutti la criticano, ma poi ogni tanto tutti la guardano ancora con un po’ di vergogna. Eppure, come la tv non è scomparsa, non scompariranno nemmeno loro. Siamo di fronte a una redistribuzione dei pubblici online, ma non siamo di fronte a una migrazione epocale, né possiamo essere pienamente felici di lasciare il fascista X per il progressista Bluesky.

    Se vogliamo migrare su Bluesky, facciamolo. L’esperienza di conversazione sarà sicuramente più piacevole che su X. Ma non illudiamoci di cambiare l’industria digitale né tantomeno la democrazia, mentre migriamo da una piattaforma all’altra.
    Scolari sostiene anche che rinchiudendoci su Bluesky stiamo rischiando di finire dentro una nuova bolla, di ritrovarci solo tra noi progressisti, mentre X aveva il pregio di offrire una più vasta panoramica sul mondo. Non sono d’accordo su questo: come ha dimostrato Axel Bruns, le bolle non sono create dalle piattaforme, ma dagli interessi delle persone che le usano e molti studi hanno ormai dimostrato che è molto difficile, a parte i casi di soggetti politicamente già estremisti, finire in una filter bubble. Semplicemente, Bluesky assomiglia di più alle vecchie comunità di interesse virtuali, dove ci si ritrovava in stanze online (forum) per parlare tra simili. Non c’è nessun rischio bolla qui. Così come non è vero che bisogna restare su Twitter perché è più “generalista”. Anche la tv è generalista e non ci intrappola in delle bolle di filtraggio, ma il suo generalismo è noioso e scadente, e pieno di rumore di fondo e violenze verbali, forse anche peggio di X. Abbiamo tutto il diritto di rifiutare il generalismo-spazzatura di X, Facebook e della televisione.

    Andarsene su Bluesky è solo una scelta di consumo, e come tutte le scelte di consumo è guidata da valori e ideali: non compro più Barilla perché il padrone è omofobo. Non compro più Nike perché sfrutta i bambini.

    Ma per favore non vendiamo questa scelta di consumo “etico” come radicale. Solo un vero movimento politico e collettivo di milioni di persone nel mondo, organizzato per colpire i profitti economici di Musk, potrebbe avere un impatto. Immaginate che questo movimento metta insieme 100-200 milioni di utenti di X che decidono di cancellare i propri account contemoraneamente per colpire gli interessi economici di X e soprattutto per intaccare il potere di agenda setting di Musk. Musk ha comprato Twitter non per fare soldi, lo ha comprato con lo stesso spirito con il quale nel secolo scorso i magnati del capitalismo compravano i giornali: per esercitare potere sulla sfera pubblica. Se X andasse in malora, in termini di crollo degli utenti, Musk non avrebbe più un megafono dove strillare ed essere ascoltato da tutti. Ma ci vorrebbe un movimento planetario davvero enorme, per creare dei danni al DOGE. Quindi la fuga da X al momento è interpretabile solo come un atto individuale di noi consumatori occidentali, o al massimo un atto di boicottaggio collettivo da parte di un gruppo di consumatori progressisti, ma non ha niente di veramente radicale, né rappresenta al momento un “pericolo” per Musk, né mette in discussione il suo potere mediatico.

    Andarsene su Bluesky non è un atto “eroico”, né può davvero farci sentire migliori di chi rimane su X. Andarsene su Bluesky è semplicemente una scelta personale di igiene comunicativa. La buona notizia è che è finalmente possibile farlo, senza finire in una nicchia di poche centinaia o migliaia di utenti. Si passa da un monopolio a un mercato leggermente più pluralista, ma non per forza più democratico. La cattiva notizia è che sposta di pochissimo l’equilibrio dei poteri all’interno dell’industria dei social media. Per spostare davvero questi equilibri, dovrebbero accadere due cose, in parallelo: da un lato, un movimento dal basso, civico, di attivisti e sviluppatori che progettino piattaforme decentralizzate e basate sul modello del cooperativismo di piattaforma, dall’altro, una spinta decisiva dell’Unione Europea a finanziare piattaforme digitali pubbliche capaci di sostituire quelle commerciali americane in diversi settori strategici dell’economia digitale, non solo in quello dei social media. L’emergere di modelli politici ed economici alternativi al capitalismo di piattaforma americano potrebbe davvero spostare gli equilibri di potere che oggi ci sembrano naturali. Rispetto a qualche anno fa, questa strada sembra meno utopica, perché il movimento delle cooperative di piattaforma (Platform cooperativism) sta lentamente prendendo piede e in alcuni settori della gig economy sta anche funzionando bene. Dall’altro lato, anche la UE sta investendo di più in piattaforme pubbliche, dei digital commons. All’ultimo festival Public Spaces di Amsterdam, dedicato al tema “Take back the internet” ho incontrato diversi attivisti e sviluppatori che con finanziamenti europei stanno sviluppando cose interessanti, come ad esempio piattaforme alternative a Google nel campo delle scuole e dell’istruzione. Il claim della sovranità tecnologica, un tempo brandito solo dal comune di Barcellona, sta diventando mainstream tra i tecnocrati dell’UE. Forse da questa ondata di finanziamenti non uscirà il nuovo X europeo, più etico e pluralista, ma è ormai possibile immaginare un futuro non più dominato solo dalle piattaforme commerciali americane, e questa è già una notizia.

    Ma la domanda più radicale che dovremmo farci è la seguente: abbiamo bisogno dei social media? Oppure: abbiamo davvero bisogno di passarci così tanto tempo? La mia risposta è sì, in entrambi i casi, ma è influenzata dal tipo di lavoro che faccio. La disconnessione digitale è un trend che sta guadagnando giustamente spazio: per molti adolescenti di oggi è finalmente normale non avere un profilo sui nostri vecchi social media. Nascono subculture non più punk, ma che organizzano la loro ragione d’essere e di distinzione sociale intorno al non avere social media o smartphone. Ma queste subculture, al contrario di quelle musicali del Novecento, non nascono più dai giovani delle classi lavoratrici, ma sono fondate da giovani delle upper-middle class urbane come nuove forme di distinzione sociale, un po’ elitiste ed esclusive. Per me invece i social media sono ancora utili. E spero sempre che possano essere resi più democratici. Ma non sarà Bluesky la risposta a queste aspettative. Nel frattempo, possiamo goderci un po’ di pace sulla spiaggia di Bluesky prima che arrivi anche qui la prossima alluvione di fango.

     

    Immagine di copertina di Kier in Sight Archives su Unsplash

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