Un adagio della storia recita che la politica non è completa se non si accompagna a una visione culturale. Una visione che deve essere sfondo dell’uomo e delle donne politiche la cui azione è prendersi cura dello Stato; termine che viene dal latino status, che a sua volta deriva da stare (cioè, appunto, stare assieme). Lo status, quindi, altro non è che la situazione, la posizione. Tale situazione non si basa su un pensiero, che è una proprietà personale (questa è un’idea abbastanza recente nella storia della cultura), bensì più su un’intelligenza agente, ovvero una facoltà che estrae la verità direttamente da un’immaginazione condivisa. Lo Stato quindi si basa su un pensiero che è multitudo, che è depositario dell’intelletto comune, ovvero di un patrimonio storico-culturale che lo articola, grazie alla convivenza di processi di conoscenza e pratiche politiche.
In senso filosofico il significato non è dell’essere ma fra gli esseri, e lo Status quindi, non è altro che la situazione, la posizione, la condizione. Ebbene sì, è la situazione appunto delle relazioni che costituiscono la società, lo stato dei rapporti tra i suoi membri, che si concretizza in determinate istituzioni, regolamenti, leggi.
La situazione oggi vede il pianeta al collasso, la politica sembra perdersi in mille correnti, mentre la tecnologia digitale con le sue accelerazioni di calcolo ci mette di fronte all’impossibilità di comprendere i calcoli che proprio grazie alle macchine abbiamo saputo realizzare; siamo in pieno Antropocene, un’epoca in cui l’ambiente viene condizionato, su scala sia locale che globale, dagli effetti del progresso umano.
La parola ‘progresso’ sembra possedere i connotati di una parola sacra e ogni tentativo di definirne un’alternativa viene rigettato come fosse un non pensiero.
Ecco che appare una parola che sembra quasi un ricordo di tempi passati e che ha innervato tutte le ideologie del XX secolo. L’idea di Progresso è profonda ed essenziale ma sopratutto è una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità (lo Stato in quanto ‘stare assieme’, appunto) appare a rischio. Sembra possedere i connotati di una parola sacra e ogni tentativo di definirne un’alternativa viene rigettato come fosse un non pensiero, un qualche cosa di profondamente scorretto, una bestemmia dell’intelligenza.
Ma sembra essere arrivato il momento di iniziare a decostruire questo immaginario.
Infatti se torniamo all’intelletto comune del XX secolo osserviamo come esso sia stato il sapere sociale generale diventato forza produttiva immediata grazie all’incorporazione della scienza nel capitale, in pratica nelle macchine, e che in questo modo ha preso il controllo delle condizioni del processo vitale stesso della società (Marx). Ma oggi di fronte all’antropocene, che è sia crisi dell’essere che crisi della scienza che del capitale, uno dei punti cardine potrebbe essere proprio la costruzione di un nuovo immaginario che, superando la speculazione socio-filosofica del XX secolo, si ponga degli interrogativi sul concetto stesso di progresso, sviluppo, innovazione ponendo un’istanza ecologica che, declinata in quanto teoria sistemica (ovvero che coinvolge l’intero sistema), abbracci il cittadino, lo stato, l’ambiente, la natura e l’intelletto comune in una nuova visione.
L’idea del progresso è incardinata nella cultura occidentale: la storia viene intesa come un procedere verso il meglio, e la natura è il prodotto della volontà di un Dio che l’ha posta come dominio dell’uomo. Sarà quindi il Settecento a trasformare questa idea in un messaggio politico fondato su un miglioramento della vita per tutti, e il XX secolo a realizzarlo. Fino ad arrivare oggi nell’epoca di una possibile catastrofe dell’immaginazione e di una catastrofe reale di un mondo, un’economia, una produttività che non reggono più il racconto.
Gli uomini, grazie a questa potente visione, hanno realizzato un mondo tecno-scientifico. Il progresso piace all’uomo perché lo porta nel futuro con l’idea che sia meglio del presente e ancor più del passato.
Al contrario stanno apparendo tutta una serie di analisi e studi sull’idea di progresso, sulla filosofia della tecnica, sull’immaginario tra cui il mio contributo Fragile, un nuovo immaginario del progresso, Meltemi, 2020, dove propongo una nuova immaginazione ecologica con l’intento di attivare un capovolgimento di valori, e ragionando in maniera sistemica pongo davanti nuovi princìpi che potrebbero innervare questo nuovo approccio politcamente ecologico:
L’eterogenesi dei fini, concetto recuperato dal filosofo napoletano Giovan Battista Vico, che intende che la tecnica da mezzo/strumento tende a diventare fine e quindi a perpetuare solo se stessa a scapito di un vero ben-essere umano.
La delega tecnica, concetto per il quale il sistema delle tecnologie prima ci irretisce con una possibilità di scelta illimitata, poi, di fronte all’impossibilità di una scelta razionale, ci induce ad affidarci a esso affinché decida ciò che è meglio per noi.
La maggior utilità tecnologica ovvero l’idea che una nuova tecnologia sia da accettarsi solo se maggiormente utile a quella che c’è già.
Il Progresso, che è l’intelletto comune del XX secolo (in realtà dell’intera modernità), ricerca il massimo scopo con il minimo dei mezzi, cioè produce un sistema dove la merce e il fare umano non sono più utili ma diventano solo consumo e l’essere umano diventa parte di questo ciclo. In questo senso l’uomo è implicato dal progresso tecnico in un incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. E questo non è ecologico questa è la Potenza della Tecnica (in senso filosofico).
È da qui che nasce una vera e propria Mistica del progresso laddove esso agisce al livello della società destinando gli uomini e le donne a un estenuante miglioramento all’infinito. E questo non è ecologico.
Di contro il compito di questo nuovo ecologismo sistemico è ambiziosissimo e ne fa un unicum nel pensiero politico degli ultimi decenni, esso dovrebbe cercare di decostruire l’idea di un’intrinseca connessione tra tecnica (progresso e innovazione) e intelligibilità della natura, partendo innanzitutto dallo smentire un luogo comune: la convinzione – tutta moderna – che la razionalità umana sia un dispositivo genuinamente logico, capace di una comprensione di matrice ingegneristico-matematica. Tutto all’opposto, la comprensione umana, perlomeno quella di cui ci dota la biologia, è un dispositivo puramente analogico, cioè diretto dal pensiero immaginativo e dal linguaggio naturale; la sua funzione originaria è pertanto quella di raccontare storie, intessere narrazioni, produrre immaginari, alimentare un universo mentale fittizio (appunto politico). Queste narrazioni sono d’altra parte un potentissimo mezzo per ottemperare le necessità prescritte dalla natura, per regolare le nostre azioni e sopperire ai bisogni della sopravvivenza, un mezzo di cui il meccanismo non teleologico dell’evoluzione ci ha dotati.
È da questa narrazione che è passata, fondamentalmente fino ad oggi, la nostra comprensione del fenomeno tecnico, ma è anche questo stesso meccanismo che, inglobando la tecnica, l’ha inserita via via in un apparato narrativo, raccontandola, figurandola, come un non-luogo ultimo, nel quale, paradossalmente, sempre già ci troviamo e mai siamo del tutto.
Ora, tale comprensione ha goduto per secoli di un’enorme fortuna, ma oggi siamo di fronte all’Antropocene e a una crisi economica e sociale che prefigura dei cambiamenti.
Rethinking Humanity è un libro bianco pubblicato nel giugno 2020, disponibile gratuitamente in rete qui, e oggetto di un’interessante speciale della BBC ascoltabile qui. Questa indagine di scenario è il prodotto di una prima analisi svolta dai sistemi militari americani e quindi rivista alla luce di confronti con gestori di attività da trilioni di dollari tra cui BlackRock, Goldman Sachs, J.P.Morgan e fondi sovrani, oltre che aziende di grandi dimensioni e governi di tutto il mondo tra cui Cina, UE e Stati Uniti. Il lavoro si basa su un framework creato per analizzare i processi complessi che guidano un cambiamento rapido, non lineare e così anticipare le implicazioni disruptive della tecnologia. Il tutto visto in un’ottica che tiene conto del fatto che i settori dell’economia e della società sono sistemi complessi e adattivi (ovvero innescano cambiamenti a velocità esponenziale).
Secondo questo schema entro il 2030, il 95% di tutte le miglia viaggiate dai passeggeri statunitensi saranno servite da veicoli ‘on demand’, autonomi, elettrici di proprietà di flotte. Questo nuovo modello di business è chiamato Trasporto come servizio (Transportation-as-a-Service: TaaS). Secondo lo studio gli impatti del TaaS porteranno a una riduzione dell’80% della domanda di energia di trasporto, al 90% riduzione delle emissioni di gas di scarico, a tremila miliardi di risparmi domestici e più di 200 milioni di automobili spariranno dalle strade americane.
Parallelamente entro il 2035 grazie al rapido miglioramento nei costi e nelle capacità di tecnologie come la Fermentazione di Precisione, il Sequenziamento del Genoma, la CRISPR e un nuovo modello di produzione, che si potrebbe chiamare Food-as-Software, il costo delle proteine sarà 10 volte più economico del costo delle proteine animali esistenti, mentre il numero di bovini negli Stati Uniti sarà diminuito del 50% e l’industria zootecnica andrà effettivamente in bancarotta entro il 2030.
Oggi, i cinque settori fondamentali dell’economia globale – informazione, energia, trasporti, cibo e materiali – entrano in una fase disruptive a una velocità e una scala senza precedenti.
È importante notare che il termine disruptive significa sia dirompente che distruttivo. E l’unico modo per evitare la forza distruttiva è cavalcarne la carica dirompente. Ovvero bisogna agire un immaginario dirompente.
Quindi le implicazioni per l’economia, le società e la nostra stessa civiltà saranno ampie profonde. In questo senso il 2020 sarà il decennio più dirompente nella storia. Coronavirus ha semplicemente tirato il sipario sulla fragilità degli attuali modelli di produzione e governance. Ed è solo il primo di una serie di shock prevedibili che minacciano di devastare la nostra civiltà se, collettivamente, non faremo le scelte giuste. Inoltre viene precisato, introducendo una importante questione sovrana, che il ruolo di drive di questa mutazione non sarà degli stati ma delle grandi compagnie dot.com come Facebook, Google, Amazon…
È proprio la crisi dello status che ci permette di iniziare a pensare che un nuovo ecologismo sia necessario, e che questo ecologismo è lo status, e che per questo debba essere sistemico.
Pertanto, agire una nuova Società Ecologica e Sistemica – pubblica e privata – e ridefinire il modo in cui tutti noi possiamo fare affari, investire e organizzare la società è lo Status. E per questa azione è necessario introdurre un territorio comune che necessariamente si basa su uno stato che è la dimensione ecologica di tutta questa mutazione. La posizione Ecologica e Sistemica diventa quindi oggi necessaria per poter agire una politica di tutta questa mutazione e potrebbe porsi come uno dei collanti privilegiati di un soggetto politico rinnovato che necessariamente dovrà riconoscersi in uno scenario che è implicato dalla fine della modernità, dalla tragedia dell’immaginario del XX secolo, dal passaggio dalla storia alla Iperstoria.
Solo con un Ecologismo Sistemico possiamo agire la speranza per dare il via a discussioni in tutta la società e ispirare gli altri a unirsi. Nel fare ciò, bisognerà concentrare attenzione su scelte nuove fondate su immaginari nuovi che possono aiutare a condurre a una società più equa, maggiormente sana, resistente e stabile. Ad esempio, lo scenario sopradescritto prevede anche la possibilità di un aumento del benessere globale, e questo sarebbe bellissimo, ma se e solo se accettiamo di discutere di un tabù dell’immaginario, ovvero la constatazione che, con buona pace dell’odiato ma rispettato Malthus, o accettiamo di discutere di limitazione delle nascite o produciamo un’agenda ecologica non adeguata perché non gestibile per la variabile della over population.
In conclusione è proprio la crisi dello status che ci permette di iniziare a pensare che un nuovo ecologismo sia necessario, e che questo ecologismo è lo status, e che per questo debba essere sistemico. Che sì il progresso è nella sua essenza una virtù positiva, tuttavia se utilizzato come ulteriore profezia rischia di essere un riproporsi dell’apparato logico che lo ha presupposto. Al contrario oggi, proprio grazie alla crisi, stanno apparendo una serie di concetti operativi per iniziare a ripensare, riprogettare, questo nostro unico e bellissimo mondo in una nuova dimensione sistemica. Dobbiamo quindi riconoscere che l’esperienza di un nuovo ecologismo, caratterizzato dall’essere pertinente a un sistema (lo Status-Stato di cui sopra), è tanto paradigmatica quanto necessaria, e che potrebbe costituire un promemoria luminoso dell’esercizio delle virtù della verità e della veridicità per generare i fondamentali di un nuovo progetto fra persone che, affrontato in maniera dialetticamente critica, possa suggerire varchi per una nuova speranza.