La vita è clima piuttosto che metabolismo

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    Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Emanuele Coccia a Mal di terra di Nikolaj Schultz. Ringraziamo l’editore Wetlands per la disponibilità.

    In uno dei saggi più importanti degli ultimi decenni, Amitav Ghosh ha dimostrato che il canone della letteratura occidentale fosse incapace di parlare e di descrivere il cambiamento climatico. A mancare non sono solo le parole, ma anche l’idea stessa che il clima – lo sfondo continuo e come impercettibile di tutti i drammi e tutte le commedie umane – potesse subire dei cambiamenti repentini e diventare esso stesso il protagonista della narrazione perché capace di agire. Il problema è lo stesso paradigma realista della tradizione romanzesca europea. Da un lato, l’ossessione per il teatro delle emozioni umane non sembra capire che gli esseri umani “condividono con altri esseri, e forse addirittura col pianeta, la capacità di intendere e di volere”. Dall’altra avendo costruito la sua cosmologia sull’idea di probabilismo, il romanzo contemporaneo è costretto a percepire e rappresentare la quasi totalità degli eventi naturali che fanno la storia di questi anni nei termini di un miracolo. Il clima infatti, è per eccellenza il luogo dell’improbabile e “il romanzo moderno – scrive Ghosh – non è mai stato costretto a fare i conti con la centralità dell’improbabile: l’occultamento della sua impalcatura di eventi continua a essere essenziale per il suo funzionamento”1Amitav Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza 2005.

    È come se non riuscissimo più a parlare del mondo senza trasformarlo in un romanzo di fantascienza. L’opera di Nikolaj Schultz è, da un certo punto di vista, un romanzo di transizione. Se in esso il clima non è ancora il protagonista, esso diventa l’oggetto assoluto e principale della percezione del protagonista. Se non parla in prima persona, è ciò di cui la storia non smette di parlare. Esso è anzi eletto alla fine del romanzo a ciò di cui si deve continuamente parlare. Questo cambio di paradigma ha luogo attraverso l’immagine, di origine benjaminiana, del viaggio in barca. Essere in mare, infatti, non significa semplicemente essere in viaggio e trovarsi in pericolo. Significa per Schultz trovarsi in una condizione esistenziale in cui la percezione del mondo e la stessa realtà materiale del mondo coincidono con il clima. “Avere un orizzonte”, scrive il narratore nelle pagine conclusive del libro, “comporta sempre reinventare le rotte, riscoprire i venti, riparare le vele, rinnovare le strategie e le prospettive nautiche al mutare degli elementi. Per andare avanti dobbiamo continuare a guardare indietro, ai lati, in alto e, non da ultimo, sotto la nostra imbarcazione”. Sono gli elementi che fanno clima ora a trasformarsi negli attori del mondo e nella materia di questo mondo. Per questo la storia si trasforma ora in “un processo in cui dobbiamo negoziare con elementi ed entità sorprendenti che ci permettono di muoverci e con cui dovremo imparare a muoverci” e presuppone quindi nuove “competenze diplomatiche e riflessività temporali”2Infra p. 90.. Si tratta di un cambiamento che viene evocato come per inaugurare una nuova letteratura, che ci permetterà di “passare dall’essere pirati all’essere marinai, dal saccheggio al confronto, da un viaggio distruttivo a un viaggio proficuo”.

    Forse, a differenza della speranza del narratore di Schultz, dovremmo smettere di aspettarci “un altro porto”, “una terra diversa su cui mettere piede, su cui non aleggiamo semplicemente, ma che abitiamo a tutti gli effetti; una terra che non è un sogno, ma che potrebbe farci sognare ancora una volta”3Ibidem.. Forse, dovremmo abituarci a percepire il pianeta come clima assoluto, come una forma continua di intemperie.

    È almeno su questa coincidenza che vale la pena di riflettere oggi. Quello che chiamiamo intemperie è il luogo in cui gli elementi si mescolano, in cui le forme entrano l’una nell’altra, in cui i confini tra i domini che si pensava fossero impermeabili l’uno all’altro si rompono. In quanto eventi per eccellenza del clima, le intemperie sfumano le linee e ridisegnano la Terra, i suoi colori, le trame della sua pelle, la forma stessa del suo corpo. Rendono impossibile ordinare le stagioni. A volte tutto accade in un batter d’occhio. In altri casi, i preliminari durano ore. È impossibile prevedere esattamente quando accadrà. È altrettanto impossibile prevedere e sapere esattamente quanto dureranno. Ma questi momenti definiscono l’impossibilità di pensare alla vita del pianeta come a un ciclo perfetto. L’illusorio ritorno dell’uguale è interrotto: ogni dettaglio è cambiato nel frattempo, le cose non sono e non possono essere uguali a prima. Una intemperie è l’irruzione di questa imprevedibilità nel mondo naturale. Essa segna una doppia rottura: un buco nella nostra padronanza cognitiva del mondo, ma anche un’interruzione della continuità che attribuiamo al tempo e all’omogeneità della storia. Ecco perché li viviamo come se fossero un’eccezione al ritmo ordinario della nostra vita – un tempo escluso dall’esperienza, che non avrebbe il diritto di scrivere la vera storia della terra: una catastrofe, una rottura illegittima in una forma ordinata, un miracolo improbabile.

    Eppure, il mescolamento e lo scambio che avvengono durante qualsiasi intemperie non sono eccezionali. Se consideriamo seriamente la loro esistenza, gli agenti atmosferici sembrano essere qualcosa di più di una disconnessione effimera e insignificante nel modo in cui le specie viventi e gli elementi inorganici si organizzano per costruire un mondo. Sono infatti il processo stesso attraverso il quale la materia diventa vita, ma che avviene al di fuori dei corpi dei viventi. In effetti, è già la vita che ha introdotto la rottura del ciclo e il ritorno dell’uguale nella vita del pianeta. È la vita che ha rotto il ciclo delle stagioni astronomiche di Gaia. È già la vita che ha disturbato il paesaggio minerale e chimico dello spazio che abitiamo.

    Noi siamo l’intemperie e il terremoto, siamo lo tsunami o il tuono di Gaia. Questo noi non si riferisce solo agli esseri umani, ma a tutti gli esseri viventi, indipendentemente dalla loro dimensione o identità tassonomica: la vita è stata il clima di questo pianeta, e lo ha costretto a vivere sempre davanti a una intemperie che non smette mai di cambiare la sua natura e di colpire la sua carne.

    Dovremmo cambiare la nostra visione della natura e quindi dell’intero pianeta: la meteorologia piuttosto che la biologia o l’ecologia è il punto di osservazione preferito per pensare agli esseri viventi. La vita è clima piuttosto che metabolismo. E il clima prevale sempre sulla storia. Lungi dal cercare un equilibrio, la vita si nutre di maltempo. Forse, la crisi climatica che stiamo vivendo non è tanto una trasformazione del clima quanto la manifestazione visibile del carattere profondamente e irrimediabilmente irregolare e indomabile del mondo a cui apparteniamo. Alla storia e alla geologia dovremmo ora imparare a sostituire una meteorologia generale, come la nuova scienza e la nuova letteratura della Terra.

     

    Immagine di copertina da Unsplash di Jonathan Ford

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