Fa troppo caldo, dialogo con Amitav Ghosh

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    Fa troppo caldo è la prima cosa che mi dice Amitav Ghosh dopo avermi stretto la mano. Troppo, confermo sventolando disperatamente il foglio di carta su cui ho annotato le domande da fare allo scrittore, antropologo e giornalista indiano che da anni indaga il rapporto tra umanità e ambiente, con una particolare attenzione alla crisi climatica. Nel tragitto che ho compiuto per raggiungere l’hotel dove avrei incontrato Ghosh ho pensato che un sabato pomeriggio di inizio giugno, a Milano, assomiglia ai pomeriggi di Marcovaldo, il personaggio calviniano che decide di passare agosto in città usando le strade come strade, cioè camminandoci in mezzo, passando i semafori col rosso, attraversando in diagonale, fermandosi al centro delle piazze. Mi muovevo sola nell’afa soffocante della città deserta e pensavo che se mi fossi sdraiata in mezzo alla strada mi avrebbe uccisa il cemento, non di certo un’auto. Mi sarei liquefatta insieme alla città, bruciata come gli alberi che infuocano la Sardegna, sciolta insieme ai ghiacciai, seccata come i fiumi, in anticipo sull’estate. “Fa troppo caldo” mi dice Amitav Ghosh rompendo il ghiaccio come si fa da sempre, e cioè parlando del tempo. Indossa una camicia di lino un poco stropicciata che insieme ai capelli di un candido bianco gli conferisce un’eleganza che è anche nel suo tono gentile. Ci sediamo a un tavolino della lobby dell’hotel e mi chiedo se l’aria condizionata spenta sia una sadica coincidenza utile a dare al discorso un’urgenza fisica, oltre che razionale. 

    Nei suoi libri il cambiamento climatico e le preoccupazioni che desta sono temi centrali, così come l’imperialismo e la relazione tra occidente e oriente. Non si tratta in fondo di uno stesso tema?

    Sì, credo ci siano molte connessioni. Sicuramente sento che la crisi planetaria che stiamo vivendo è in gran parte una crisi geopolitica. È diventato del tutto evidente con la guerra in Ucraina, che ha anche chiarito che per gli interessi mondiali la crisi climatica è del tutto sussidiaria. Prendiamo le riserve di combustibili fossili: il presidente Biden andrà in Arabia Saudita a elemosinare petrolio, nonostante abbia denunciato le violazioni dei diritti da parte del governo saudita, condannandone l’operato. È una situazione grottesca.

    A una crisi geo-politica serve una risposta politica?

    Serve una risposta su molti piani. Una strategia che non sia solo politica o solo tecnica. È una questione molto complicata. Sfortunatamente gli approcci messi in atto finora sono stati solo di tipo tecnico. Tutte le altre dimensioni – politica, geopolitica, sociale – non vengono discusse. Questo è il problema fondamentale.

    Crede che la letteratura possa essere uno strumento di mobilitazione? 

    Io non mi considero un attivista. E poi dobbiamo anche essere onesti: abbiamo a che fare con un problema di tale entità che pochissime cose hanno fatto e possono fare la differenza in termini di mobilitazione. Stiamo vivendo eventi terribili, in ogni angolo del mondo. Tutti parlano di quest’ondata di caldo spaventosa, eppure non sembra diventare una questione urgente. Ciò che sta affrontando l’Italia, per esempio, è un problema di enorme serietà: non c’è acqua nel Po. Cosa può essere più grave di questo? E, nonostante ciò, i governi sembrano essere incapaci di creare un senso d’urgenza a riguardo.

    I suoi romanzi trattano di spazi e tempi molto ampi, attraversati dalle vicende personali ed intimamente umane dei suoi personaggi, come giocasse a fare una sintesi tra storia e microstoria, tra antropologia ed etnografia. Universale e particolare dialogano e le piccole storie umane navigano in una rete di problemi globali molto più grandi del singolo. Non è comune che il tema del cambiamento climatico entri nei romanzi, influenzando direttamente la narrazione. Crede sia qualcosa di nuovo?

    Si, è molto nuovo. O meglio, è nuovo ed antichissimo contemporaneamente.  La letteratura premoderna spesso parlava di catastrofi naturali. Solo relativamente di recente il romanzo si è assestato sulle storie individuali degli esseri umani, come potessero essere isolate dal contesto in cui vivono e dai meccanismi globali con cui devono avere a che fare. Si parla delle loro emozioni, delle loro relazioni. E i grandi problemi sbiadiscono sullo sfondo, quando non scompaiono del tutto. Ma se guardiamo al passato possiamo trarre strumenti utili per il futuro, trovando esempi di narrazioni che ci aiutano a guardare al domani pensandolo e raccontandolo in un certo modo. È esattamente ciò che ho cercato di fare nel mio ultimo libro, Jungle Nama. Ho recuperato un’antica leggenda e ho cercato di creare una narrazione che abbia senso per i lettori di oggi. Jungle Nama è scritto in versi, secondo una metrica ben definita, perfetto per essere letto collettivamente, ad alta voce, come una cantilena. C’è anche un tentativo di recupero di tipi diversi di fruizione letteraria.

    Viviamo tempi che hanno un problema con la dimensione collettiva? Sono decenni che ci diciamo che la colpa dei grandi mali è di ognuno di noi, del tempo che passiamo sotto la doccia e dell’uso delle cannucce di plastica. Non trova che le cannucce di carta siano tremende? 

    I discorsi e gli appelli alla responsabilità individuale sono completamente fuorvianti. Noi ora sappiamo che alcune aziende energetiche come BP hanno speso un sacco di denaro nella propaganda, cercando di fare passare la crisi climatica come una colpa individuale. È lo stesso metodo che usarono le compagnie del tabacco. La loro argomentazione principale era: “è responsabilità dell’individuo”. Certamente quello del tabacco è un altro discorso, ma a maggior ragione, se il problema climatico riguarda tutti, è chiaro che debba essere affrontato collettivamente. Non c’è alternativa: come fai a tagliare le emissioni globali altrimenti? Con le cannucce di carta?

    Tornando al romanzo, crede possibile una sintesi tra scienza e letteratura, tra saggio accademico e narrazione letteraria?

    Sì, certo. Non c’è alcuna ragione perché scienza e letteratura non si possano incontrare. Nel diciannovesimo secolo la maggioranza degli scrittori era molto interessata alla biologica, alla chimica, alla medicina. Non c’era questa bipartizione ferrea tra materie umanistiche e scientifiche. Melville scrisse Moby Dick dialogando con la scienza. Questa distinzione che facciamo ora tra scienza e altri modi di addentrarsi nella conoscenza non ha grande senso. Peraltro, la scienza del cambiamento climatico non è molto complicata: è chiarissimo ciò che sta accadendo, non devi essere uno scienziato per capirlo. Quindi non vedo perché uno scrittore non se ne debba occupare.

    Crede che gli studi di antropologia abbiano avuto un’influenza sulla sua produzione letteraria?

    L’antropologia mi ha influenzato in molti modi. Prima di tutto esponendomi a una moltitudine di modi diversi di guardare e concepire il mondo. Questo è stato fondamentale. Ma mi ha anche insegnato a fare ricerca: un approccio al sapere che mi è rimasto e di cui faccio uso ogni volta che penso a una storia.

    Un suo tema frequente è quello delle grandi migrazioni. Ha ancora senso parlare di contrapposizione tra Occidente e Oriente?

    Dipende da cosa si intende per Occidente e Oriente. Prendiamo l’Italia: c’è una forte immigrazione dall’Africa e dall’Asia, ma c’è stata anche moltissima migrazione interna. Basti pensare all’alluvione del Polesine del 1951: 250 mila sfollati. Dove sono andati? Anche loro rappresentavano una certa alterità che si spostava a causa di un evento catastrofico. Ci sono poi immigrati rumeni, polacchi. Sono da considerarsi occidentali? Vede, dipende davvero da cosa si intende.

    Sta dicendo che quando l’Occidente parla di Occidente intende paesi ricchi, in contrapposizione a paesi poveri?

    Sì, credo sia quello che si intende. Dimenticando che ci sono paesi molto ricchi in Asia, come Singapore e Arabia Saudita.

    I suoi antenati erano migranti climatici prima che il termine esistesse. La sua sensibilità ambientale proviene da lì?

    Nel mio caso la storia di migrazione e sfollamento della mia famiglia ha avuto una grande influenza sul mio pensiero e la mia sensibilità. Se confronto la mia esperienza con quella di altri scrittori, di certo questo è un elemento importante.

    Trae spunto dalla storia della sua famiglia per i suoi libri?

    Sempre. La storia della mia famiglia è un incredibile pozzo da cui attingere.

    Com’è cambiata Calcutta, la sua città natale, da quando era bambino?

    È cambiata completamente. Quando ero bambino Calcutta era un luogo conosciuto per la sua miseria. Ora ci sono sacche di ricchezza, la gente sta meglio. Chiaramente è stata una crescita diseguale. Lo stesso concetto di crescita comporta disuguaglianze. È poi una città estremamente vulnerabile agli effetti della crisi climatica. Molte zone della città sono sotto il livello del mare.

    Spesso siamo tutti così sopraffatti e stanchi da sentirci totalmente impotenti. Chiudere a volte gli occhi non è solo una forma di sfinimento più che di indolenza?

    Penso che se non ci occupiamo di questi problemi loro si occuperanno di noi. Guerre, instabilità, sopraffazioni, riscaldamento globale: possiamo benissimo ignorare le grandi questioni, ma loro non ignoreranno noi.

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