L’incomunicabilità mediatica al tempo del vaccino

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    Ultimamente, dopo una discussione con una persona che conosco intorno a certi temi d’attualità, mi sono soffermato a riflettere su una cosa: e cioè che la maggior parte di noi, quando si riunisce e discute di un argomento, lo fa in veste di commentatore esterno ai fatti. Chiaro, questo non vale nel caso in cui io parli della palestra che frequento, o del bagno di casa mia, o di quanto mi piaccia grattarmi il sedere; insomma, a parte i rari casi in cui siamo chiamati a esporci su argomenti che padroneggiamo effettivamente, relativi a categorie e circostanze che conosciamo davvero, quasi sempre finiamo per parlare di cose su cui o non siamo ferrati, o non sappiamo una beneamata, o comunque ci esprimiamo con gradi più o meno ampi di approssimazione.

    La prima conseguenza di questo fatto è che quando ci confrontiamo con qualcuno su temi di cui abbiamo solo letto o sentito parlare – sia noi che il nostro interlocutore – noi non stiamo davvero parlando di quegli eventi, no: stiamo parlando di quanto appreso dalle nostre fonti, siano esse giornali, siti web, telegiornali, social, messaggi su Whatsapp ecc. ecc… Stiamo parlando, in buona sostanza, delle notizie che abbiamo consumato.

    Allora, a pensarci bene, potremmo inquadrare le notizie come delle pietanze, e le nostre discussioni attorno a quelle notizie come se fossero i commenti di gente che parla di ciò che ha mangiato. Ora, una volta che la si mette in questo modo, occorre porsi una domanda: se io ho mangiato un certo piatto, diciamo un primo, tipo i tagliolini al pesto di cavolo nero e pancetta (così, per citare un piatto che mi fa sbavare) e il mio interlocutore invece ha mangiato una cosa imparagonabile – poniamo, per esempio, una matita, o un tubetto di colla –, ma entrambi crediamo di aver mangiato la stessa cosa e imbastiamo una conversazione con questo presupposto, come diavolo faremo mai a raggiungere un accordo, a trovare un compromesso accettabile fra le nostre opinioni? Quindi, fuor di metafora: se uno che prova a informarsi in modo efficiente (seleziona le proprie fonti da un range affidabile che comprende redazioni giornalistiche professionali, è attento a variare i punti di vista, cerca di guardare alle notizie con occhio critico ecc.) si mette a discutere di vaccini e green pass con uno che invece si informa principalmente da pagine sensazionaliste su Facebook, come diavolo pretendono tutt’e due di portare avanti una conversazione che sia soddisfacente sotto qualsiasi punto di vista?

    Il problema dell’incomunicabilità nelle nostre società è quasi sempre alla radice, o meglio alla fonte. È qualcosa di cui bisogna essere sempre più consapevoli però, perché se no finiamo per guardare ai no-vax e no-green pass più facinorosi, coloro che negli ultimi weekend si sono contraddistinti per gli episodi di tensione durante le loro manifestazioni o gli attacchi ai giornalisti che le riprendono, come se fossero alieni venuti da un’altra dimensione: no, vivono qui insieme a noi, solo che stanno seguendo una dieta mediatica che li avvelena tutti i giorni, tutte le ore, ogni volta che mettono le dita su quel piccolo schermo dietro di cui credono si celi la vera verità. Se continueremo a inquadrarli sempre e solo come dei disagiati, o peggio, e a relazionarci a loro secondo una dialettica di scontro frontale, non potremo che continuare a imbucarci nello stesso vicolo cieco in cui siamo bloccati ormai da tempo. 

    Ora, una puntualizzazione paracula quanto scontata: mi rendo conto che in quel movimento eterogeneo, che per semplificare definiamo sbrigativamente no-green pass, coesistono posizioni e interessi anche molto diversi fra loro. Da chi legittimamente (e pacificamente) manifesta scetticismo perché preoccupata dalle conseguenze politiche o economiche di certe decisioni da parte delle istituzioni e chi altrettanto legittimamente si pone dei dubbi sulla propria salute, a chi invece sfila vestito da prigioniero di Auschwitz paragonando l’obbligo di green pass al confinamento nei lager nazisti, o ancora a chi protesta perché non vuole che la nuova élite mondiale introduca i nano-robot nel suo sangue o cose del genere. Ecco, è soprattutto per cercare di ricucire la spaccatura con queste ultime categorie che bisognerebbe cambiare strategia: occorre far comprendere a queste persone che i media da cui si riforniscono avidamente e fedelmente di roba opinabile non sono davvero i paladini del popolo contro i poteri forti, come molti di loro sono così felici di credere; che Enrico Montesano non è esattamente Julian Assange, insomma. Sì, lo so, non è semplice, dato che di solito la gente che s’informa sulle pagine social più astruse o tramite le catene di Sant’Antonio su Whatsapp è composta da individui con alti valori di complottismo nel sangue. Non si fidano affatto di media tradizionali né di attori che siano di segno politico anche solo vagamente diverso dal loro – perché, beh, la polarizzazione sempre più estrema, la tendenza a chiudersi in bolle informative, l’arroccamento su posizioni irreversibili come se l’interpretazione della realtà fosse una questione assimilabile al tifo per una squadra di calcio, sono tutte distorsioni ben note della nostra società e del nostro modo di intendere la partecipazione al dibattito pubblico al tempo dei social. 

    Si tratta di problematiche di cui si discute ormai da qualche anno, assieme alla necessità di regolare il funzionamento dei social media, dei loro algoritmi e delle loro logiche di business; mentre un po’ di più si dovrebbe parlare – a mio avviso – di nuovi programmi di istruzione civica della popolazione, a cui mi pare che gioverebbe parecchio qualche corso di formazione su questi temi e su queste piattaforme (di cui diventano tutti subito fruitori incalliti, sedicenti esperti, senza capirci una mazza di cosa danno e cosa perdono ogni volta che scrollano una bacheca o postano qualcosa). 

    Il punto è, attenendoci al contesto italiano, che si fa ancora un’enorme fatica a passare dalle parole ai fatti, a concepire piani d’azione a livello macro, strategie organizzate dall’alto per contrastare efficacemente la disinformazione e il proliferare di complottismi in Rete; in generale, come mostrato anche dai sempre più frequenti casi di hackeraggio ai database di enti pubblici, negli ultimi tempi abbiamo avuto la riprova che quello del digitale è ancora un territorio oscuro e pieno di misteri per i nostri apparati amministrativi.

    A livello infrastrutturale magari potranno aiutarci – si spera – i copiosi investimenti che il Pnrr ci obbligherà a versare per i prossimi cinque anni sull’innovazione tecnologica: cinquanta miliardi (su 235) da ripartire fra diverse iniziative, tra cui figurano anche la digitalizzazione dell’amministrazione pubblica e un piano per aumentare la diffusione delle competenze digitali di base fra i cittadini. Tuttavia, per invertire certi fenomeni che hanno a che fare col ciclo dell’informazione online e hanno ripercussioni negative sulla società, pare necessaria una presa di coscienza più profonda di questi problemi da parte della classe politica e governativa, che dovrebbe rendere più efficiente la propria azione sotto diversi aspetti. 

    Intanto, facendo sì che a misure così importanti come quelle che sono state adottate in risposta alla pandemia (dalla campagna vaccinale all’obbligatorietà del green pass) vengano accompagnate strategie di comunicazione efficaci – ben più di quelle che hanno contraddistinto quest’anno e mezzo di covid19 – e una presenza convincente su quei canali dove le persone passano ormai la maggior parte del loro tempo. Oltre questo, però, è necessario che si prenda sul serio anche la creazione di iniziative volte a monitorare le distorsioni di cui sopra, senza accontentarsi di qualche buona proposta quando accade qualcosa di particolarmente grave per poi lasciare tutto nel dimenticatoio. (Per dire, qualcuno ha notizie recenti della commissione anti-odio presieduta da Liliana Segre, che avrebbe dovuto contrastare il razzismo e l’istigazione all’odio? No, in compenso però ci sono stati nuovi insulti a Liliana Segre).    

    Sia chiaro: al momento non mi risulta ci siano Stati o attori sovranazionali che hanno scoperto la formula magica per correggere le conseguenze negative di una cattiva fruizione dei social o della sfera digitale in genere. Come sempre si dice in questi casi, si tratta di un argomento complesso che chiama in causa tantissimi fattori – dall’azione delle grandi piattaforme digitali a quella dei tanti attori che alimentano il caos al loro interno, dal malcontento sociale alla fine della fiducia verso istituzioni e media tradizionali… Tuttavia, i rischi che si corrono a prendere sottogamba l’aspetto comunicativo e l’impatto della disinformazione li abbiamo già intravisti e si fanno sempre più preoccupanti. 

    Innanzitutto, se non intercetti in tempo la confusione e i timori delle categorie più fragili, beh, puoi star certo che lo farà qualcun altro che potrebbe non avere proprio delle ottime intenzioni – tipo andare a devastare sedi della Cgil e riportare il fascismo in Italia, insomma. (A proposito di buone proposte cavalcate con decisione per un attimo e poi lasciate a marcire, ma lo scioglimento di Forza Nuova…?).

    Altro pericolo concreto – ad esempio quando ci capita di leggere un post intriso di notizie false urlato da un qualche tizio che magari è pure in buona fede – è quello di costruirsi un’immagine sempre più distante, inavvicinabile, dell’Altro. Che alla fine è un semplice commentatore, proprio come me, che però ha mangiato una notizia diversa. E allora ricordarci che indirizziamo male la nostra indignazione ogni volta che ce la prendiamo con un no-qualsiasi-cosa per le cose che dice, renderci conto che in realtà dovremmo battere forte sul processo che l’ha portato a dirle, sul come le ha apprese – ecco, mi sembra un promemoria sempre utile in questi tempi di crisi sociale così profonda, così incancrenita. 

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