La maternità come scissione: cosa unisce il lavoro riproduttivo a quello culturale

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    Un’avvertenza: questo doveva essere un articolo in cui, in occasione della ripubblicazione del memoir di Rachel Cusk, Il lavoro di una vita – uscito in originale nel 2001, arrivato in Italia nel 2009 e riproposto ora da Einaudi Stile Libero (traduzione di Anna Nadotti e Micol Toffanin) – si approfittava dello spunto per articolare una riflessione più generale sul rapporto tra maternità e lavoro creativo (oggi, dopotutto, è l’8 marzo, qualcosa dovremo pur dire). Lavoro creativo, dicevo, come quello di scrivere libri, articoli e recensioni, per fare un esempio – l’unico esempio che sarà qui preso in considerazione, dati i limiti della mia esperienza e della mia voglia di documentarmi.

    È chiaro quindi che la persona più qualificata per riflettere sarebbe stata una donna che scrivesse libri, articoli e recensioni e che fosse anche madre. Mi dicono che le colleghe interpellate abbiano giustamente risposto con una sequela di furiose bestemmie, perché in tempi di pandemia, smart-working, bambini a casa, nonni distanziati, etc etc, chi poteva permettersi il lusso di dedicare ore all’oziosa contemplazione del fumoso rapporto tra maternità e creatività? E poi, essendo appunto oggi l’8 marzo, non si era detto di scioperare?

    L’articolo lo scrivo quindi io, in qualità di doppia krumira del lavoro riproduttivo e culturale.

    Krumira senz’altro, ma questo articolo è anche un piccolo cavallo di Troia, perché il mio piano è quello di approfittare della distrazione generale per cominciare con il libro di Rachel Cusk e finire poi a parlare di tutt’altro. L’opportunità di divagare me la offre in parte la stessa Cusk, dal momento che nel suo libro di creatività in senso stretto si parla molto poco. I riferimenti alla scrittura, alle necessità specifiche e quotidiane imposte da una vita dedicata alla scrittura e a come si possano conciliare con le cure da dedicare a un neonato, tutte queste cose compaiono di rado e sono sussunte nella categoria più generica del “lavoro”.

    La maternità sarà anche il lavoro di una vita, ma la scrittura, si direbbe, è un lavoro come un altro. Cusk è una scrittrice e nel suo libro questo fatto non è quasi per nulla tematizzato, e ci sono dei buoni motivi perché sia così. Infine, Cusk è una scrittrice e, sebbene questo il libro non lo dica, nel 2001 l’esercizio di questa sua professione era l’unica fonte di reddito di una famiglia di cinque persone. Quando Albertine, la sua prima figlia aveva sei mesi, e Cusk era in attesa della seconda, suo marito lasciò il lavoro per potersi occupare lui della casa, delle figlie, dandole modo di cominciare a lavorare su questo libro.

    Tutto ciò per dire che Cusk era all’epoca dei fatti una scrittrice madre la cui vita familiare e professionale somigliavano abbastanza poco a quella della maggior parte delle scrittrici madri (o delle lavoratrici madri) che conosciamo (questo ha tante implicazioni, ci arriverò).

    Insomma, nessun proverbiale passeggino in fondo alle scale da additare come il peggior nemico dell’opera d’arte, nessun incitamento in stile Virginia Woolf a uccidere l’angelo del focolare, quel tirannico pennuto che intima alle donne di sacrificarsi, vivere in funzione dei desideri altrui, mangiare del pollo solo la coscia e sedersi davanti agli spifferi. La maternità descritta da Cusk è, questo sì, un formidabile vettore di scissione, ma la separatezza che produce è molto più radicale della divisione tra madre e artista, o persino tra uomo e donna. La maternità, almeno nei primi anni di vita del figlio, è un regime chiuso, che separa una donna in due: 

    Io mi preoccupo; io consolo. Come due bracci del medesimo corso d’acqua, la persona e la madre s’ignorano, indistinguibili fino a pochi minuti prima, seguitano a scorrere ognuno con la sua vita separata, sgorgano dalla medesima sorgente, ma senza piú cercare di corrispondersi.

    E poi, ancora:

    Per essere una madre devo ignorare le telefonate, lasciare il lavoro a metà, venir meno agli impegni presi. Per essere me stessa devo lasciar piangere mia figlia, anticipare le sue poppate, abbandonarla per uscire la sera, dimenticarla per pensare ad altro. Riuscire a essere l’una significa fallire nell’essere l’altra.

    Cusk non ci dà mai motivo di pensare che la scissione da lei sperimentata sia più insanabile, più disabilitante che per altre. Ad attestare la particolare prospettiva imposta dal suo mestiere qui c’è praticamente solo una cosa ed è, per l’appunto, il racconto stesso, e la decisione di dedicare un libro a qualcosa che, lei stessa pensava, come ha raccontato in un’intervista pubblicata sulla Paris Review, “was not worth writing about”.

    È grazie alla sua scrittura, e a quelle di tante altre, che la maternità è stata ammessa (o ri-ammessa, perché anche su questo ci sarebbe da discutere) a far parte delle esperienze meritevoli di dignità letteraria, ma nel farlo è riuscita a farsi odiare da schiere di critici e lettori, attirandosi ogni sorta di accuse: di essere una cattiva madre, una donna spregevole, una mangia-bambini, una terrorista puerperale e, quel che è peggio, di essere un’insopportabile lagna.

    Cusk ha scritto una quindicina di libri e solo tre di essi sono dei memoir in senso convenzionale. Senza presentimento alcuno, si direbbe (ma cosa poteva mai presentire una scrittrice convinta che Il lavoro di una vita fosse, parole sue, “a funny book”? Un libro divertente? Ma se è praticamente un Rosemary’s Baby senza il lieto fine dei vicini satanisti che si portano via il neonato), con tutti e tre questi memoir, dicevo, Cusk ha finito per toccare il filo scoperto che alimenta il racconto dell’esperienza femminile, il suo elettrico paradosso: è un’esperienza che ha bisogno di mettere in campo una precisa soggettività per essere rappresentata, ma ogni volta che Cusk lo ha fatto, raccontando la sua maternità, poi il suo divorzio in Aftermath, e persino quello che doveva essere uno spensierato soggiorno in Toscana, è riuscita puntualmente a fare incazzare tutti: madri, mogli, mariti, femministe delle più svariate confessioni, persino i residenti dell’amena cittadina chiantigiana le hanno fatto causa, e l’edizione britannica del libro The Last Supper è stata mandata al macero.

    L’esperienza femminile ha bisogno si essere rivendicata, di fare della soggettività individuale il proprio campo d’indagine, ha bisogno dell’autobiografico “io”, ma se decidi di usarlo, tanto vale cucirti una lettera scarlatta sul vestito e un bersaglio sulla schiena – la femminilità, si direbbe, può essere ancora un luogo molto minaccioso per l’individuo, perché, come Cusk stessa ha avuto modo di scoprire, “nella femminilità, l’immagine e il ruolo del group-think sono molto potenti”.

    Ma torniamo a Il lavoro di una vita. Non possono esserci dubbi sul fatto che Cusk abbia tirato una sacrosanta mazzata all’angelo woolfiano, e questo non, si badi, rifiutando la famiglia e la maternità, giurando a sé stessa di non sposarsi mai e diventare un mostro d’arte, come si riprometteva di fare la protagonista del romanzo di Jenny Offill, Sembrava una felicità. L’angelo personale di Cusk è morto perché la scrittrice ha fatto il suo mestiere, ha scritto il libro, ha detto la sua verità, raccontando l’ambivalenza della maternità, la sua fondamentale inciviltà, la sua alienazione e il suo sinistro potere, la sua noia e la sua regimentazione militaresca:

    L’arruolamento nel mondo dell’ortodossia genitoriale richiede tutta l’abnegazione, la resa al conformismo, la passione per le istituzioni, che il termine implica.

    E allora chi ce lo fa fare? È la solita vecchia domanda, e il fatto che la domanda non sia nuova, non la rende meno spontanea o pressante. Tutte possiamo ritrovarci a soppesarla in rapporto alle nostre personali priorità, ciò che dà senso alle nostre giornate, ma ammetto che per quanto io stessa sia solita alzare un sopracciglio quando mi imbatto nell’ennesimo articolo/collage di interviste a scrittrici su come riescano a conciliare arte e maternità (ai padri questa domanda viene rivolta assai di rado, ed ecco che il sopracciglio torna a levarsi ma anche, e di nuovo, quanto è vecchia questa questione? Davvero ne stiamo ancora parlando? Davvero?), insomma ammetto la perplessità ma ammetto anche che questi articoli me li leggo tutti.

    E il motivo è che ho sempre sospettato che gli scrittori in particolare (ma certo non solo loro) siano una categoria sommamente vocata alla diserzione, i più refrattari all’ortodossia e all’abnegazione, perché troppo consumati dalla necessità di proteggere il tempo, guadagnare tempo, sottrarlo alle aspettative altrui e alle quotidiane incombenze per incamerarlo, per dirottarlo, insomma: per scrivere.

    Lo scrittore è, quasi per definizione, qualcuno che si assenta. È quello che non è venuto al tuo compleanno, accampando le scuse più varie; è quella che gira per casa con delle gigantesche cuffie Bluetooth in testa ma non sta ascoltando niente, le indossa solo per dissuaderti dal rivolgergli la parola; e quello il/la cui partner ogni tanto sbuffa, non facciamo mai niente. E tutta questa assenza, in nome di cosa? Per produrre cosa? Lavorare a un libro non è, appunto, un’attività che procede per misurabili incrementi quotidiani, è un modo della produzione a cui la nostra mentalità capitalista non riconosce un valore, è anzi in qualche modo anticapitalista, è improduttiva, è un solipsistico potlatch nel quale sono ritualmente sacrificate pagine e pagine, ore e ore, inimmaginabili quote della nostra attenzione. È un lavoro, ma è un lavoro che somiglia al niente.

    In un libro molto bello uscito di recente negli Stati Uniti e scritto da Eula Biss, Having and Being Had, c’è una nota in appendice che ho sottolineato con foga sospetta, è un’osservazione di Alexander Chee:

    Io penso che gli scrittori possano apparire spesso spaventosi agli occhi delle persone normali – cioè ai non scrittori che vivono in un sistema capitalista – per questa ragione: non c’è praticamente niente che non sarebbero disposti a vendere per avere in cambio il tempo di scrivere.

    Il tempo è la nostra pelliccia di visone, la nostra Lexus, la nostra super-villa.

    Gli scrittori possono arrivare a spaventare persino sé stessi, perché nemmeno loro sanno fin dove potrebbe arrivare la propria capacità di defezione, possono solo intuire i limiti della loro potenziale inadempienza. Puoi farti lasciare da tutti i fidanzati, puoi venderti l’auto per pagare l’affitto e guadagnarti così un mese di tempo per scrivere, puoi trascurare qualsiasi cosa, tutto ma non un bambino – serva che dica perché?

    Il tempo di una madre è diverso, rifletteva Sarah Manguso nel 2019, in un affascinante dialogo con Kate Zambreno intitolato Writing postpartum. Quando hai dato alla luce un figlio il tempo diviene in breve il perfetto equivalente dei soldi. “È un gioco a somma zero misurato in minuti”. Mi è sempre piaciuta questa osservazione, la sua pulizia.

    Se il tempo da dedicare alla scrittura è ottenibile solo pagando qualcuno che stia con i bambini mentre lavori, succede quello che dice Rachel Cusk dei primissimi mesi seguiti alla nascita di sua figlia: “tutte le altre forme di accudimento sembravano funzionare come una cabina telefonica. Inserisci monete nella fessura. Quando i soldi finiscono, la telefonata s’interrompe di colpo, senza tante cerimonie”. Sia Cusk che Manguso, hanno scritto in varie occasioni che diventare madri, lungi dal mettere fine alla loro produttività letteraria, l’ha invece in qualche modo potenziata, intensificata. L’amore per un figlio, quel particolare amore così diverso, anche nella prassi, da tutti gli altri amori può “per uno scrittore […] costituire il raggiungimento dell’autorevolezza narrativa sulla vita stessa” (Cusk).

    Sarah Manguso, in un testo uscito su Harper’s Magazine, The grand shattering:

    Un tempo credevo che massimizzando il numero di ore passate a leggere, scrivere e pensare alla scrittura avrebbe fatto di me la scrittrice migliore che potevo essere. […] Poi ho avuto un figlio e ho scoperto che la quantità di tempo passata a scrivere non è l’unica cosa che può fare di me una scrittrice migliore. Cresco, anche, imparando a sopportare il trauma, praticando la pazienza, lasciandomi temprare dall’amore.

    Mi piacciono questi racconti della maternità come espansione, ma non mi lasciano tranquilla, e il motivo è, ancora una volta, il problema del tempo, il problema dei soldi. Perché non è solo il rapporto tempo/denaro della madre a essere somma zero, anche quello dell’artista lo è. Di nuovo, Eula Biss: “quando il tempo è denaro, così come lo è ora, il tempo libero non è mai tale, non è gratis. È un tempo che costa”.

    Diventare madre potrebbe fare di te una scrittrice migliore, ma chi paga? Come pensare il problema dei soldi, se arte e maternità si reggono in sostanza sulla stessa, inefficiente e improduttiva economia? 

    La produzione di nuovi esseri umani e quella artistica sono appunto due forme della produzione, ma il loro status – in termini economici e sociali – è incerto, così come incerto è il valore di mercato del bene prodotto, il suo status di merce. Prova ne sia che l’idea di pagare per leggere, o per ascoltare un disco, o guardare un film ci trova sempre più riluttanti e, per quanto riguarda tutto quell’insieme di attività che compongono il proteiforme esercizio della prestazione materna, il concreto lavoro di cura, siamo molto a disagio quando proviamo a immaginare cosa vorrebbe dire monetizzarla, esprimerla in termini economici, calcolarne il valore.

    Riproduzione e creazione sono entrambi investiti da una retorica che li pone al vertice delle umane attività – la vita, il bene più prezioso! Creare un bambino, cosa c’è di più nobile? Sostituisci vita, e bambino, con la parola arte, o libro, o Cappella Sistina, e il discorso non cambia. Entrambi, sono minati da un’altra retorica, a suo modo opposta, un incredulo cinismo – un altro bambino? Un altro libro?

    Riproduzione e creazione sono forme del lavoro, ma sono prestazioni particolari che secondo Lewis Hyde andrebbero distinte da quello che comunemente intendiamo come tale. Hyde ha usato due parole diverse, “work” e “labor”, per chiarire questa distinzione, per separare concettualmente il lavoro che è possibile misurare in ore retribuite, da quello che detta cocciutamente i propri ritmi; quello il cui compenso è esprimibile in denaro e l’altro, quello il cui scopo è produrre trasformazione. “Writing a poem, raising a child, developing a new calculus, resolving a neurosis, invention in all forms—these are labors.”

    Labor, non serve magari nemmeno ricordarlo, è anche la parola inglese con cui è indicato il travaglio, il test inaugurale della competenza materna.

    Cosa succede a chi si intestardisce a scrivere la poesia e allevare il bambino, per così dire in parallelo, cosa succede se chi si intestardisce è una femmina? Che succede a queste produttrici di trasformazione? Sappiamo che è possibile, ma chi paga? Da dove vengono i soldi?

    Scrivere la poesia, realizzare l’opera, dipingere la tela possono ovviamente portare guadagni, esiste chi può vivere d’arte e, come Cusk all’epoca, con quei guadagni mantenere una famiglia e un costoso appartamento londinese. Ma più tipicamente di questi tempi la creazione è remunerata in maniera capricciosa e imprevedibile, o lo fa in percentuali variabili, spesso necessita di integrazioni – l’esercizio di quel lavoro misurabile in ore retribuite.

    Sia Cusk che Manguso e Zambreno, e anche Biss, insegnano o hanno insegnato, la loro attività di scrittrici ha aperto canali, variabili, di remunerazione – sono scrittrici che insegnano a scrivere agli altri. Anche qui, molti produttori di trasformazione si dedicano contemporaneamente ad altri impieghi, regolarmente retribuiti. A volte sono lavori integrati nella sfera del cosiddetto lavoro culturale, altre volte no. Per ogni ex marito di Cusk che si fa carico dell’accudimento, della concreta gestione domestica di una famiglia, di un’unità di produzione e riproduzione, ce ne sono migliaia che più probabilmente lavoreranno per denaro, di modo che tu possa “scrivere la poesia, crescere il bambino”. A volte questo è un privilegio, a volte è un insopportabile arresto domiciliare – impossibile generalizzare.

    Non mi preoccupano il privilegio o la prigionia, mi preoccupa cosa succede se le cose si mettono male. Mi preoccupa sapere quale sarebbe la prima voce di bilancio a essere tagliata, dovesse arrivare il tempo sinistro della spending review familiare. Mi preoccupa in particolare adesso, dopo l’anno che abbiamo vissuto, immaginando il tempo che ci apprestiamo a vivere, oggi che ogni famiglia può considerarsi un piccolo stato in difficoltà a cui i tecnocrati senza cuore della Bce applicano sanzioni se non si decide a tagliare il superfluo. Dei mille modi in cui tutto questo sta penalizzando la presenza femminile sul mercato del lavoro, sappiamo, sappiamo già tutto.

    E sappiamo anche che molte di quelle cose che abbiamo preso, collettivamente, a considerare “il superfluo”, sono quelle che oggi più ci mancano, quelle che, ora scopriamo, ci mantenevano sani.

    Mi preoccupano le implicazioni di quello che ha scritto Sarah Manguso, rispetto al suo rapporto tra scrittura e maternità:

    Writing is a choice, I’ve learned — for my son’s helplessness leaves me no choice.

    Scelta, in questi tempi cupi, temo finisca per essere, troppe volte, solo un altro modo con cui chiamiamo il superfluo.

    Note