Un sogno fatto a Milano. Piccoli musei e storie personali

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    In genere i musei che preferisco sono quelli piccoli, che mettono in vetrina l’inventiva e le biografie di singoli individui. Ammiro i musei nazionali come il Louvre e il British Museum, ma quando viaggio, quando metto piede in una nuova città, i primi posti che mi precipito a visitare non sono queste istituzioni che trasmettono il potere dello Stato e la storia del suo popolo, ma quei musei che promettono l’accesso a un universo privato e alla visione del mondo di un individuo animato da una passione.

    Rispetto moltissimo quanti, con grande impegno, hanno dedicato gli ultimi anni di una vita creativa al compito di trasformare le loro case e i loro studi in musei da donare al pubblico dopo la morte. Queste piccole gemme sono spesso nascoste nelle strade laterali e periferiche delle metropoli occidentali e riescono a farci riscoprire un sentimento che i grandi musei nazionali, sempre più simili a parchi giochi o centri commerciali, non sanno più trasmettere e che stiamo quindi dimenticando.

    I musei non devono limitarsi a mettere in mostra immagini e oggetti del passato, ma devono anche ricreare l’atmosfera del tempo da cui quegli oggetti provengono. E questo accade solo per mezzo delle storie personali.

    Per esempio, il Rijksmuseum di Amsterdam, recentemente riaperto, è uno splendido esempio della raffinata cultura e dell’abilità dei collezionisti olandesi, così come della creatività della moderna progettazione museale. Ma solo luoghi come la piccola e altrettanto innovativa Casa di Anne Frank possono essere come romanzi, poiché riescono a farci battere il cuore con l’emozione profonda di una storia personale. Quando visitiamo grandi musei, lo facciamo sempre con una guida, un commento storico presente in sottofondo. I piccoli musei privati invece sono più aperti alle storie personali.

    Da bambino, i musei non mi interessavano. Allora, a Istanbul, erano tristi edifici governativi progettati per esibire e conservare reperti provenienti da scavi archeologici oppure reliquie degli splendori ottomani. Erano posti noiosi, poco più che magazzini.

    Negli anni novanta, quando i miei libri cominciarono a circolare in Occidente, i primi luoghi dove mi recavo quando mi trovavo all’estero erano i grandi musei come il Louvre, il British Museum, il Metropolitan Museum of Art e l’Ermitage.

    Queste istituzioni gigantesche e altamente simboliche esprimevano tutta l’energia creativa e la complessità storica che ne erano alla base; ma solo nei musei più piccoli riuscivo a trovare fragili storie di singoli esseri umani, assaporarne la profondità che derivava dal legame tra gli oggetti e le vicende personali, e percepire quel senso metafisico del tempo che i musei devono essere in grado di trasmettere.

    C’è poi l’aspetto politico. La trasformazione del Louvre da residenza privata dei Borboni a museo nazionale per il popolo francese è stata una storia di libertà dal punto di vista sia culturale sia politico, poiché ha avuto risvolti democratici non diversi dal passaggio dall’epica, che cantava le gesta dei re, ai romanzi, incentrati sulle vite della gente comune. Ma negli oltre due secoli intercorsi dalla conversione del Louvre in museo, questi colossi statali da catalizzatori di libertà e democrazia sono diventati mete turistiche finendo per rappresentare di nuovo lo Stato e il suo potere.

    Gli imponenti musei pubblici costruiti sul modello del Louvre, con grande profusione di mezzi, in città non occidentali come Pechino e Abu Dhabi, dove si calpestano i diritti e la libertà di pensiero, non fanno niente per stimolare la creatività degli artisti locali e della popolazione. Anzi, spesso sembrano schiacciare quello che hanno intorno, soverchiando il circondario e la città stessa e occultando i crimini dei regimi autoritari.

    La crescita economica dei paesi non occidentali negli ultimi vent’anni ha significato la nascita di una classe media. Per conoscere le storie personali che vengono dall’interno di questa classe emergente non servono grandi musei statali, ma istituzioni piccole e innovative, che si concentrino sui singoli.

    L’intelligente evoluzione che abbiamo visto nei musei nel corso degli ultimi vent’anni in termini di curatela e architettura può trasformare i piccoli musei in straordinari strumenti per investigare un comune senso di umanità e dargli una voce.

    Musée Gustave Moreau, Parigi

    Gustave Moreau (1826-1898) fu tra i primi a progettare la trasformazione della sua casa in un’esposizione della sua collezione. A trentasei anni, dopo la morte del padre, Moreau appunta un pensiero in calce a uno schizzo:
    Penso alla mia morte e al destino di tutte le opere e i pezzi che mi sono affannato a collezionare. Da sole si perderanno ma, prese tutte insieme, come un tutto, daranno un’idea del tipo di artista che ero e dell’ambie te in cui ho scelto di vivere i miei sogni.

    A rendere unico questo museo è proprio il senso di pienezza, quella particolare atmosfera generata dalla combinazione delle tele dell’artista con gli schizzi, la sua collezione e i suoi oggetti personali. Ed è questo il motivo che mi spinge a visitare il museo ogni volta che vado a Parigi, più di quanto non facciano le tele con soggetti mitologici, storici e biblici ispirate a Delacroix. Al secondo piano del Metropolitan Museum, nessuno presta particolare attenzione a quella che è forse una delle opere più interessanti di Moreau, Edipo e la Sfinge, esposta a pochi passi dai van Gogh e dai Cézanne. Ma qui, nel museo personale di Moreau, i tanti schizzi preparatori per quell’opera e tutti gli altri disegni potrebbero non stancarvi mai. Negli anni trenta, André Breton e André Malraux frequentavano il Musée Gustave Moreau per assaporarne la speciale atmosfera.

    Entrando nelle stanze al primo piano, dove l’artista visse con la madre e il padre architetto per molti anni, percepiamo subito uno strano senso di isolamento dal mondo esterno. Lo scrittore Joris-Karl Huysmans, precursore del decadentismo, scrisse che Moreau era «un mistico recluso nel cuore di Parigi». Le stanze sono stipate di cornici con quadri, fotografie, ritratti di famiglia, ninnoli e souvenir, come nel museo di Mario Praz, non a caso ammiratore di Moreau. È la stessa atmosfera che caratterizzava l’opprimente Secondo Impero di Napoleone III.

    Moreau trascorse gli ultimi anni della sua vita mettendo a punto il progetto di convertire le stanze della sua casa in museo e, a questo fine, aggiunse anche copie di dipinti i cui originali erano esposti in altri musei. Salendo la bellissima scala a chiocciola per raggiungere i piani superiori aggiunti nel corso della trasformazione, si arriva alla sala più grande dove si prova una sensazione evocata anche da molte tele di Moreau: l’illusione che dai personaggi e dagli oggetti scaturisca una luce. Il piacere di visitare musei piccoli e personali non si esaurisce nella trasformazione dello spazio in un tempo, ma consiste anche nel vedere manufatti e opere nel contesto in cui furono creati, cosa che lascia emergere il loro vero significato. «Ora che Gustave

    Moreau non c’è più, la sua casa diventerà un museo» scriveva Proust apprendendo la notizia delle volontà del pittore citato nei suoi romanzi. «È così che doveva andare. La casa di un poeta, anche quando è vivo, non è mai propriamente una casa.»

    Museo Bagatti Valsecchi, Milano

    Quando leggiamo Guerra e pace, rischiamo di dimenticarci che si tratta di un romanzo storico. Tolstoj lo scrisse circa cinquant’anni dopo l’inizio della vicenda, ovvero il 1805, affidandosi a memorie e testi di altri autori. Tendiamo a dimenticarci di questo scarto temporale anche perché Tolstoj fu abilissimo nel ricostruire l’ambientazione di sale da ballo, salotti aristocratici e interni domestici. Lo stesso si può dire del Museo Bagatti Valsecchi in centro a Milano, tra via Gesù e via Santo Spirito. Questo museo assunse le attuali sembianze di residenza rinascimentale negli anni ottanta dell’Ottocento, quando due facoltosi aristocratici decisero di arredare la casa di famiglia nello stile di un palazzo principesco. I fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi, che abitarono qui con le rispettive famiglie per tutto il processo di trasforma- zione, non si limitavano a collezionare quadri, sculture, tavole, porte e spade rinascimentali, ma reperirono e usarono una grande varietà di oggetti, come forbici, schiaccianoci e candelabri, posate e sgabelli. Queste sale sono la testimonianza concreta che a rendere indimenticabile un museo non è solo la collezione che vi è ospitata ma anche l’atmosfera immaginata da coloro che lo hanno allestito.

    Museu Frederic Marès, Barcellona

    Lo scultore catalano Frederic Marès (1893-1991) era un collezionista veramente fuori dal comune. Al piano terra e al primo piano del suo museo a Barcellona è ospitata una collezione di sculture religiose provenienti da antiche chiese spagnole che Marès accumulò nella prima metà del Novecento; non posso dire in tutta franchezza di apprezzarla appieno, mentre consiglierei ai visitatori di salire quanto prima al secondo e terzo piano dove è visibile un ricco, pirotecnico carosello di arnesi di uso comune.

    Attualmente in ambito accademico un museo di questo tipo verrebbe definito “museo poetico”. Per tutta la vita, Marès raccolse incredibili collezioni di oggetti disparati che facevano parte della vita quotidiana spagnola a cavallo tra Ottocento e Novecento (carte da gioco, ventagli, forbici, ammiferi, portasigarette, tabacchiere e pipe). Disposti in vetrinette dalle spesse cornici di legno, come nelle Wunderkammern, i vari esemplari (menù di ristoranti, biglietti natalizi, vasi da ori, accendini, portacenere, biglietti da visita) compongono un mosaico mozza ato che Marès ha opportuna- mente chiamato “museo sentimentale”. L’originale aura evocata da questi oggetti quotidiani e dalle teche in cui sono disposti fa pensare a un futuro in cui gli sforzi di appassionati collezionisti potrebbero, con la mediazione dei piccoli musei, preservare la ricchezza, la bellezza e la complessità del mondo in cui viviamo oggi.

    Museum Rockoxhuis, Anversa

    Nicolaas Rockox (1560-1640) era membro di una facoltosa famiglia fiamminga e fu mecenate e collezionista d’arte e di numismatica. Fu anche sindaco di Anversa per un certo periodo, oltre che umanista e amico di Pieter Paul Rubens, che lo ritrasse nella sua casa tra oggetti, quadri e mobili. Quando entrai per la prima volta in questa casa-museo, mi colpì soprattutto l’atmosfera straniante di un’epoca diversa. Sentivo i rumori della città, un tram che svoltava l’angolo e i bambini in una scuola accanto, ma allo stesso tempo, mentre lo sguardo accarezzava gli oggetti, le tele, i mobili e le stanze, mi sentivo anche catapultato in un tempo del tutto estraneo. Questa piccola perla, situata in una strada laterale a due passi dalla piazza principale di Anversa, non fu naturalmente concepita come museo da Rockox in persona. Oggi però, questo spazio ben curato, dove si può apprezzare la collezione di un appassionato d’arte nella casa in cui visse, tra gli oggetti quotidiani, le suppellettili e il mobilio, offre ai visitatori l’intenso spaccato di un’epoca e della sua cultura, e tocca la dimensione privata di un uomo che ebbe in sorte di viverla.

    Museo Mario Praz, Roma

    Se vi trovate a passeggio in via Giuseppe Zanardelli a Roma, non lontano dalle orde di turisti che affollano piazza Navona, incontrerete il Museo Mario Praz; in genere non attira l’attenzione dei passanti, ma è un posto speciale che troverà senz’altro ampio spazio tra le pagine di un futuro libro sulla storia dei piccoli musei.

    Mario Praz (1896-1982) fu uno storico della letteratura e dell’arte. Agli studiosi è soprattutto noto per un libro, tradotto in varie lingue, dal titolo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Si tratta di uno studio erudito e intelligente su morte, manie sessuali, satanismo, sadismo e altri orrori nella letteratura di quel periodo. In un passo, Praz parla del Ritratto di Dorian Gray sostenendo che Oscar Wilde non riesce a costruire un’atmosfera angosciosa perché nel bel mezzo dei passaggi più raccapriccianti del libro dimentica all’improvviso la trama e si mette a descrivere gli oggetti circostanti, un paio di guanti giallo limone o una scatola di mammiferi placcata d’oro. Praz trova questo stile decadente e superficiale e conclude che lo scopo dell’autore fosse puramente “decorativo”. Paradossalmente l’altra celebre opera di Praz è intitolata La filosofia dell’arredamento, un ottimo esempio di quel tipo di libri che risponde alla necessità di scoprire i legami tra un artista o un pensatore e i luoghi in cui vive. Praz, con grande diletto, ci guida in un tour illustrato nei mondi intimi di artisti e scrittori, esplorando le stanze e gli oggetti che li circondano, senza mai mancare di divertire, educare e suscitare la curiosità del lettore.

    Lo stesso fa nella sua autobiografia, La casa della vita, libro che Edmund Wilson considera il suo capolavoro. A renderlo unico è la scelta di non raccontare la sua storia in ordine cronologico, ma piuttosto attraverso i mobili e i quadri presenti nell’appartamento dove visse per trent’anni. Mentre la narrazione scivola di stanza in stanza, di oggetto in oggetto, di quadro in quadro, il libro grati ca il lettore con quel tipo di soddisfazione che si dovrebbe trarre visitando un piccolo museo guidati dalla voce attenta e sapiente della persona che l’ha pensato e allestito.

    Nel 1969 Praz trasferì la sua residenza e la collezione da palazzo Ricci all’attuale sede al terzo piano di palazzo Primoli e trascorse il resto della vita a curare instancabilmente questo appartamento che immaginava come museo postumo. Chi ha letto la sua autobiogra a, conoscerà il valore a ettivo che ciascun oggetto possiede; essi evocano le sue relazioni d’amore, i tumulti emotivi e i vari momenti di sviluppo della collezione, oggetto per oggetto. Ma questo meraviglioso museo, questa sorta di Wunderkammer, fa un e etto analogo anche se non si conoscono altre opere dell’autore, come è accaduto a me.

    Girando tra le sale, ci viene ricordato che un museo è, prima di tutto, un luogo dove quadri, suppellettili, storie e sentimenti stabiliscono un reciproco dialogo. In tutti i musei, non solo quelli piccoli, l’atmosfera che questa conversazione crea, l’aria che si respira, è molto più importante del signi cato del singolo oggetto.

    Il Museo dell’innocenza, Istanbul

    Tra il 1995 e il 2005, visitando alcuni dei piccoli musei di cui ho parlato, cominciai a coltivare il sogno di allestirne uno tutto mio. Quando misi mano all’impresa, avevo lo stesso entusiasmo di chi scopre i romanzi per la prima volta ed è così preso da questo meraviglioso genere che conti- nua a leggerne avidamente, immaginando al contempo di scriverne uno.

    Istintivamente, presi a collezionare oggetti della vita quotidiana della Istanbul degli anni sessanta e settanta, acquistandoli dai rigattieri o chiedendoli ad amici e conoscenti, con la scusa che un giorno avrei potu- to farne “uno strano museo”. Un erogatore di ddt per zanzare di fabbricazione turca, un tassametro come quelli a sinistra dello specchiet- to retrovisore sui taxi di Istanbul, un grosso rubinetto di ottone che avevo visto l’ultima volta da bambino, un trenino giocattolo fatto in

    Turchia: questi oggetti e molti altri a ollavano il mio studio e la mia casa, ma sebbene sbandierassi agli amici più cari che sarebbero un giorno entrati a far parte di un museo, non avevo le idee molto chiare su chi o cosa dovesse esserne il soggetto.

    A darmi la risposta furono quegli ingegnosi inventori che si dedicarono, sul finire della propria vita, a trasformare le loro case in musei. Nel 1999 acquistai un piccolo edificio del xix secolo, di quattro piani, vecchio e cadente, in una stradina defilata nei pressi del mio ufficio, nel rione povero di Çukurcuma. Se questa casa era destinata a diventare un museo, allora i personaggi immaginari che vi abitavano avrebbero dovuto usare gli oggetti che si stavano accumulando nel mio studio. Cominciai quindi a pensare a un intreccio che si adattasse alla strada dove si trovava la casa, al quartiere e alle suppellettili che collezionavo.

    Nell’arco di otto anni, il racconto si trasformò in un romanzo intitolato Il museo dell’innocenza, riscritto diverse volte a mano a mano che trovavo nuovi esemplari da mettere in mostra, finché non fu pubblicato a Istanbul nel 2008 e in inglese nel 2009.

    Inizialmente nei mercatini e nei negozi di libri usati raccoglievo oggetti che attiravano la mia attenzione. In seguito, cominciai a immaginare una storia d’amore che potesse collegare tutti questi tasselli. Kemal Basmaci, dal quartiere di Nis ̧antas ̧i dove io stesso ero nato e cresciuto, rampollo di una famiglia benestante simile alla mia, sta per sposarsi con la ragazza giusta, ma si innamora di Füsun, che sogna di diventare un’attrice di cinema ed è glia di una lontana parente che lavora come sarta.

    Questo amore diventa un’ossessione e Kemal passa i successivi sette anni della sua vita facendo visita a Füsun (che nel frattempo ha sposato un altro) nella casa dove vive con la sua famiglia; è questa casa che lui alla ne trasformerà in un museo dedicato a lei.

    La differenza fondamentale tra il Museo dell’innocenza e gli altri piccoli musei che mi hanno ispirato è il fatto che le persone che hanno lasciato questi oggetti nel mio museo non sono vere, ma fittizie. Mi piace vedere i visitatori che restano ingannati dalla realtà di ciabatte, carte da gioco, posate, documenti d’identità e persino mozziconi di sigaretta appartenuti a personaggi immaginari, tanto da dimenticare che sono frutto di invenzione. E che abbia letto o meno il romanzo, mi fa sempre piacere vedere che il visitatore scopre per esperienza personale che in questo museo non è semplicemente esposta la trama di un libro, ma un particolare stato d’animo, un’atmosfera creata dagli oggetti. E quando mi chiedono perché ho allestito un museo come questo, rispondo che il motivo è che mi piacciono i piccoli musei che lasciano emergere la nostra individualità.


    Testo estratto da Un sogno fatto a Milano. Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo (Johan & Levi)

    Immagine di copertina: ph. Brigitta Schneiter da Unsplash

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