Manifesta a Palazzo Butera: attivare, connettere e innovare

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    Ora che Manifesta 12 a Palermo si avvia alla sua conclusione, conviene ricordare che durante i giorni di apertura tutti ripetevano ossessivamente: “la forma vince sul contenuto”. Formula corretta per definire lo squilibrio tra le opere scelte dalla biennale nomade e gli invincibili luoghi della capitale siciliana adibiti a spazi espositivi ma anche, a voler essere maliziosi, compiaciuta strizzatina d’occhio per aver saputo riconoscere la “vera” arte di fronte a quella (cosiddetta) contemporanea. Quella cittadina, umana, della Storia—e cioè sia degli schiamazzi dei passanti che comprano o vendono cose sia del silenzio a cielo aperto, sotto incompiute volte tardo-gotiche. Niente di male in tutto ciò, se l’agenda politica e curatoriale di Manifesta avesse tenuto conto dell’effetto colonizzatore al di là delle proprie scelte artistiche.

    Sottolineando come la maggior parte degli edifici sfruttati da Manifesta fossero i nodi aristocratici della città, nel suo incontestabile resoconto Lucrezia Cippitelli suggeriva di esibire le opere d’arte in caffetterie, scuole, biblioteche o piscine comunali; in quei luoghi cioè dove la missione inclusivo-pedagogico della biennale avrebbe trovato continuum etico-urbano meno controverso (anche se esteticamente forse meno efficace?). Ma come le basi del pensiero socio-antropologico ci insegnano, going native non è meno problematico del processo di othering—dell’esotizzazione dell’Altro come entità distante e mirabile (sui nostri Instagram: le maioliche optical che ricoprono ovunque i pavimenti; il carpaccio di spada; la vista da Palazzo de Seta, dove squadre di calcio multietniche giocano sul prato dinanzi al mare).

    La poesia della (ri)scoperta di Palermo è stata così subito stemperata dai guastafeste che vedevano in Manifesta un franchise economicamente redditizio e nella scelta tematica (“il mediterraneo nero” che lambisce la città e dunque l’Europa) un’esigenza di tendenza più che di reale preoccupazione politica. Ma se queste non sono polemiche sterili, vengono forse a cadere quando ci si chiede come, concretamente, si può progettare il futuro di una città? Soprattutto, quando si vuole cominciare da aree storiche, i cui proprietari—pubblici o privati che siano—non hanno le risorse per migliorare o rendere accessibili.

    Palazzo Butera, uno dei luoghi cardine di questa biennale, in questo senso è esemplare: non solo perché il suo acquisto nel 2016 da parte di Massimo e Francesca Valsecchi ha innescato il processo Manifesta a Palermo, ma anche perché punta il dito nella “piaga aristocratica” della città.

    “In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. (…). Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di 122 magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi (…) eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia,” diceva Don Fabrizio, il principe protagonista, a un funzionario regio, l’iper-piemontese Chevalley, in uno “spiegamento isolano” divenuto esemplare. Ma se qui Tomasi di Lampedusa rivela una visione della Sicilia astuta sebbene rigida e pregiudicata dalla sua estrazione nobiliare, questo passaggio illumina e allo stesso tempo contraddice alcuni dei punti cruciali di Palazzo Butera oggi.

    La formidabile collocazione del palazzo di fronte al golfo, insieme al suo contenuto e progetto di ristrutturazione, lo rendono una sorta di grimaldello per accedere a Palermo tutta: al mare che determina la sua specificità di capitale isolana, mediterranea ed europea; al tessuto cittadino con cui esprime le sue varietà sociali; e al suo potenziale artistico-culturale già ricco come patrimonio ma ancora “espandibile” verso il futuro.

    Allo scoccare di Manifesta il cantiere del progetto architettonico e museografico opera di Giovanni Cappelletti è stato aperto al pubblico. Nel 2019 Butera prevede di raccogliere la collezione di Francesca e Massimo Valsecchi in unico spazio (finora è disseminata tra abitazioni private e parzialmente in prestito tra il Fitzwilliam Museum di Cambridge e l’Ashmolean di Oxford) e, allo stesso tempo, di avviare un progetto di riqualificazione architettonica e urbana.

    Parlando con Massimo Valsecchi si nota come nella sua verbosità articolata non cadono mai espressioni come “rilanciare, bonificare, rinnovare, migliorare”; le parole scelte sono “attivare, connettere”, e non presuppongono uno stato di incultura preesistente bensì enfatizzano il desiderio di sollecitare realtà già consolidate, solo non attualmente accessibili o visibili. Di questo atteggiamento sono eloquenti due attività in particolare: da una parte il lavoro di restauro del palazzo, dall’altra quello di invigorimento degli spazi circostanti, in conversazione con il quartiere.

    Costruito a fine Seicento, il palazzo nasce nella parte sud orientale della città come casinò; gli altri edifici che si affacciavano sul golfo all’epoca erano più piccoli e servivano solo come punto d’appoggio sulla costa. Nel pieno Settecento acquisisce aspetto più imponente, estendendosi con una terrazza sulla passeggiata delle Cattive e rendendosi visibile dal mare. Oltre a diventare luogo per le cerimonie pubbliche con l’arrivo di Carlo III di Borbone, il palazzo si ingrandisce in seguito d un incendio, quando i nobili Branciforte decidono di acquisire anche l’edificio adiacente. Si arriva così all’estensione odierna del palazzo, novemila metri quadri su tre piani e un torrino, con due coorti, attorno alle quali si impernia sia il processo di ristrutturazione del palazzo, sia l’effetto “cerniera” con il resto della città e il mare. Dall’area pedonale sul lato costiero, restituito al pubblico, si potrà accedere ai cortili e dunque agli interni del palazzo tramite una caffetteria, per poi sostarvi o procedere verso la Kalsa, il quartiere circostante.

    Claudio Gulli, storico dell’arte palermitano assoldato per il progetto, mi spiega che il restauro diretto da Vittoria Maniscalco è stato affiancato da un lavoro di ricerca e scoperta, guidato dalla sovrintendenza di Marco Giammona—ingegnere che in passato ha sia ricavato alloggi “di lusso” sopra Ballarò sia è riuscito nell’arduo compito di strappare edifici storici come Palazzo Sambuca e Palazzo Moncada all’abbandono. “Abbiamo salvato tutto quello che poteva essere salvato. Per esempio molte delle maioliche rinvenute sono state inserite in altri punti del palazzo, con ritrovato senso progettuale.”

    O ancora sul terrazzo, dove le maioliche sono state sostituite integralmente da migliaia di esemplari di produzione artigianale realizzate sul modello originario. “Oppure come è successo a questo cortile dove c’erano delle lacune: il ciottolato l’abbiamo fatto noi, salvando però le basole originarie”. Nel piano terra dedicato a mostre temporanee (a differenza di primo e secondo piano, rispettivamente casa-museo dei Valsecchi e spazio espositivo per la loro e altre collezioni permanenti) si è mantenuta la scansione originaria delle stanze, aggiungendo un camminamento sospeso per un punto di vista rialzato delle opere.

    Un restauro che avviene però sempre in chiave museografica: nel condotto idraulico di una delle stanze, rivestito di maioliche, si è intrufolata una radice di jacaranda. “La dimostrazione delle teorie di Stefano Mancuso [neurobiologo, ndr.], che crede che l’intelligenza delle piante stia nelle radici o nelle foglie come omologo del cervello umano”, racconta Claudio indicandomi il percorso della radice che si ingrossa “in prossimità del pozzo e si assottiglia dalla parte opposta”, in un avviluppo misterioso esposto sotto vetro non meno dignitosamente di un reperto archeologico. Sempre al piano terra, nell’ex biblioteca dei contabili dove sono stati rinvenuti libroni d’inventario di cuochi e pittori, verrà ricavato il bookshop della fondazione.

    Qui il restauro è “un metodo in cui l’arte contemporanea è già presente”, e non solo in forma di una collezione pregressa (tra gli autori storici della collezione Valsecchi Gilbert & George, David Tremlett, Hamish Fulton, Hilla e Bernd Becher, Testusmi Kudo, Claudio Costa, Elisabeth Scherffig, Eugenio Ferretti) ma anche tramite interventi site-specific, come quelli della coppia d’artisti francesi Poirier di cui osservo il work in progress ammonticchiato con disinvoltura nel cortile. Marmi, statuette, piastrelle: “Abbiamo trovato certi materiali durante i lavori e loro stanno pensando a come disporli su alcune pareti”.

    Però Valsecchi ci tiene a sottolineare che tutto ciò “non è per costruire “Palazzo Butera” ma è per cercare di trovare il modo di unire tutta una serie di istituzioni che non si parlano, perché Abatellis non si parla con l’Università, l’Università non si parla con l’Archivio di Stato, l’Archivio non parla con il comune e lo Spasimo, il comune non con l’Orto Botanico… uno dei punti è enfatizzare la straordinarietà [della città], dove hai una galleria di arte antica importante come Palazzo Abatellis, con un capolavoro di restauro di Carlo Scarpa del 1952; dove hai l’ultimo lavoro di Carlo Scarpa incompiuto ma comunque nella sua grandezza. Hai l’incredibile possibilità di far capire come architettura, natura, storia e cultura possano convivere in un concentrato a pochi passi.”

    E tutto nell’area storica della Kalsa, “Un quartiere arabo unico nel mediterraneo”, precisa Gulli, “abitualmente sulle coste gli arabi costruivano solo degli accampamenti militari, mentre qui lo fanno a ridosso di una cittadella fortificata— Panormos—di cui non rimane niente se non una porta da cui entrarono i normanni per conquistare la città, poi inglobata nell’Oratorio dei Bianchi… in cui le cuciture di Scarpa sono delle ‘letture’ che proseguono questa stratificazione”. “Palermo”, incalza Valsecchi, “È un set cinematografico o fotografico perfetto. E vorrei che il Palazzo diventasse qualcosa di più flessibile, con l’arte contemporanea come connettore con le varie istituzioni presenti e storiche: ma nel progresso non vedo una città che cambia—cioè non mi piacerebbe che la Kalsa diventasse un posto snobbettino con il ristorante spagnolo che fa la paella. Vorrei che rimanesse così, una città mediterranea al punto da sembrare il Cairo e in cui riconosci cosa stanno mettendo sulla piastra dal profumo”.

    L’inclinazione romantica verso il quartiere si arresta quando si pensa a Palazzo Butera—il cui logo è disegnato da Italo Lupi—come polo d’arte moderna e contemporanea. La decisione di spostarsi a Palermo da Milano e Londra, dopo un’esplorazione napoletana, è motivata anche dalla delusione di non aver visto compiersi un progetto precedente nel capoluogo lombardo (dove Valsecchi aveva curato nel 2005 la mostra I tesori della Statale, a Palazzo Reale, sulla collezione dell’ateneo milanese). Sarebbe dovuto crescere intorno all’Università, “prevedendo che i laboratori di chimica, fisica e restauro potessero interlavorare. Milano tra Statale e Bicocca conta 140 mila studenti: era una città dentro la città, un potenziale di forza e futuro enorme.”

    Alludendo alla difficoltà di fare impresa culturale per cambiamenti o inettitudine della direzione politica, Valsecchi spiega che la Fondazione che nascerà da Palazzo Butera è totalmente privata e in cerca di collaborazioni con istituzioni altre; ma non pubbliche e “sicuramente non comunali, regionali e italiane perché non vedo un grande futuro e non mi sembra che le istituzioni italiane ne abbiano la capacità—anzi già con grande difficoltà riescono a gestire il loro immenso patrimonio”.

    Ma se dentro il palazzo si ricerca la collaborazione con istituzioni straniere e private, fuori dal palazzo si attivano le collaborazioni con gli enti locali. Butera si situa infatti in uno strategico quanto difficile incrocio tra patrimonio e snodo urbano: “Tra lo storico d’arte e il comune ci siamo noi che diciamo: <<guardate che questo era tutto un unicum. Qui c’erano gli archi medievali, qui c’era tutto un sistema di chiostri molto importante, qui le carceri dell’inquisizione presso lo Steri e in mezzo uno spiazzo adesso usato adesso come parcheggio dai dipendenti dell’università>>. Quando ne abbiamo parlato col presidente dell’autorità portuale [Pasqualino Monti], che stava sviluppando il progetto di riqualifica del porto [dai moli cittadini fino idealmente al monte Pellegrino, nel nord-est della città], l’amministratore statale si è reso conto che non poteva fermarsi a metà e ha deciso di continuare verso sud, stanziando 20 milioni che poi sono diventati 80 e sono il punto di partenza per un grande bando internazionale”. I lavori sono stati dati il via il 21 giugno scorso, cominciando ad abbattere i silos e trasferendo lo scalo merci al porto di Termini Imerese, “sbloccando tutta la concentrazione di tir che adesso percorrono l’arco e invadono la parte di mare”.

    Dito puntato sulla mappa, mi mostrano che “la stessa distanza che divide palazzo Butera dallo Steri-Chiaramento separa quest’ultimo da Abatellis. Addirittura Abatellis e l’Archivio di Stato si toccano, a sua volta toccando l’Oratorio dei Bianchi il quale arriva fino alla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo… e fra molti di questi ci sono piazze divenute aree di sosta semi. L’idea è che diventi un’area pedonale, creando una specie di biglietto unico-offerta che traghetta dal passato al futuro. Io spero che palazzo Butera non sia solo la memoria dei principi taildeitali ma anche una macchina espositiva. È un progetto urbanistico realizzato insieme al Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo e dunque insieme al sistema museale, perché si arriva fino all’Orto Botanico anch’esso parte dell’università. Infine abbiamo coinvolto degli specialisti di trasformazione e innovazione sociale torinese, Social Fare”. Il compito di Social Fare sarà quello di supportare la cooperazione tra Butera e il quartiere popolare della Kalsa sulla stregua del successo di Artigianelli 150  a Torino, il collegio di arti e mestieri fondato dalla Congregazione di San Giuseppe e dedicato soprattutto alla formazione di giovani ed emarginati. “Quello era un progetto piuttosto interessante perché non hanno restaurato tutto ma hanno proposto a una serie di soggetti—tra cui un bar, associazione che fa biciclette, quella che si occupa di riciclaggio e via dicendo—di partecipare a un progetto di rigenerazione urbana. Lì erano 14.000 metri, qui invece proprio un quartiere quindi è più complicato”. Premettendo che scongiurare una distopica gentrificazione della Kalsa è possibile essendo la maggior parte degli immobili di proprietà del comune, Valsecchi riassume molto gattopardianamente il “centrifugato Butera”: “Noi abbiamo messo insieme la chiesa (che purtroppo ha tanti edifici), lo stato, la regione e il comune.”

    È proprio il fare locale che, consapevolmente o meno, determina la qualità ultima di questa storia palermitana, smentendo non solo la presunta indolenza siciliana vantata da Tomasi di Lampedusa, ma anche una lettura di Palazzo Butera simile a quella fatta per Manifesta—e ciò di essere un’operazione snaturante della città, irrisolta rispetto alle opere esposte e sviluppata in ultima analisi per profitto. Perché sicilianissima è l’ideazione del piano di trasformazione del porto da area commerciale a pedonale-turistica—il cui collegamento col Palazzo è di fatto l’elemento sinergico che converte il progetto Butera da “semplice” mecenatismo artistico al campo attivo dell’innovazione urbana e sociale. E palermitani sono anche la maggior parte del personale e tutte le imprese coinvolte, la Emmeci e la Gangi Impianti, che vantano storie di integrazione e sviluppo professionale esemplari.

    L’unico aspetto gattopardiano che sembra risuonare con il progetto Butera è la “colonizzazione” di uno spazio locale da parte della collezione artistica Valsecchi, concepita e stanziata originariamente al “nord”. Se si pensa però allo spirito con cui tale collezione è stata composta (nonché gli artisti chiamati in futuro a popolare palazzo Butera), l’atto di “colonizzazione” si legge piuttosto come l’azione di un incubatore per imprese oppure come un premio per finanziare un work-in-progress artistico: secondo Valsecchi “Quello che faccio adesso è quello che ho sempre fatto, magari in scala più piccola: instaurare uno scambio di idee tra un gentile artista che aveva delle progettualità e io che cercavo di dialogarci. È anche un modo di preservare in un unico contenitore i lavori più importanti degli autori con cui lavoro. Infatti uno dei punti è quello di ricostruire l’attività di un artista, perché non è che tutti sono come Damien Hirst e Jeff Koons: la maggior parte dei bravi artisti sono delle persone che, soprattutto oggi, lavorano e costruiscono in silenzio. Però devono anche avere una controparte! Questo per dire che sto cercando di interpretare quello che Palermo offre come potenziale straordinario—come un artista, che se abbandonato magari implode—e nello stesso tempo credo, rischio e investo in quello che fa”.

    Non che questo atteggiamento non si rispecchi nel quartiere: “Siccome hanno visto quest’invasione di visitatori, l’offerta che prima era solo di due qualità di pesce ormai è centinaia di pesci, una piovra con gli occhi verdi, polpettine… sembrava una cosa di Caravaggio. Qui è istantaneo: non appena c’è una domanda, l’offerta si costruisce.”

    Note