Cultura, editoria, epidemia: considerazioni e persuasioni

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    Parla dell’amore che bisogna spezzare e mangiare.
    Comanda che tempo non c’è, che per sempre
    Tutto se non si vince ritornerà.
    Di’ come ci hanno uccisi e i nomi dei nemici.
    Tenta di persuadere. Pretendi. Interroga.

    Franco Fortini, Questo Muro

    Ci troviamo deliberatamente nel mezzo di una meditazione (sull’editoria, sulla civiltà e sul mercato del libro, e persino sui processi creativi che portano alla pubblicazione) che non può non essere di carattere globale, come il virus che ci costringe ad affinare il nostro ascolto su investigazioni di carattere sanitario, e a interpretare i sintomi di una compagine sociale inferma alla luce di analisi e deliberazioni di carattere politico ed economico.

    Di fronte alle sacrosante preoccupazioni del mondo editoriale messo alle strette da un taglio mai così verticale e alle considerazioni che ne sono conseguite, ho tre possibilità: dilatare la patetica fiducia nelle virtù del libro e della sua penetrazione nel tessuto collettivo; entrare in considerazioni (sacrosante) “di cassa”, quando e come ricominciare, con che piede, con che rinunce; oppure provare a immaginare i contorni di una editoria ideale, quella che dovrebbe spingerci a cominciare e non solo a ri-cominciare.

    Mi svincolo dalla scelta emotiva e anche dalla scelta severa: mi piacerebbe restare in un territorio mediano divagante e visionario.

    Gobetti scrisse.

    E allora, per prima cosa, s’ha da fare un passo indietro.
    Mi viene in mente – e non è la prima volta, ma ora con più convinta adesione – Piero Gobetti quando scrive: “Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla se egli è riuscito a dominare il problema fondamentale di qualunque industria: il giro degli affari che garantisce la moltiplicazione infinita di una sia pur piccola quantità circolante. Il mio editore ideale che con una tipografia e un’associazione in una cartiera controlla i prezzi; con quattro librerie modello conosce le oscillazioni quotidiane del mercato, con due riviste si mantiene a contatto coi più importanti movimenti d’idee, li suscita, li rinvigorisce, non ha bisogno di essere un Rockefeller. La sua forza finanziaria deve esser tutta nella sua capacità di moltiplicare gli affari” (L’editore ideale, 1925).

    A saperla leggere, questa sintesi non ha mai smesso di guardare avanti. “Creatore”, “tipografie”, “Rockefeller”, “riviste” sono termini o riferimenti che sentono il tempo, ma basta tradurli come s’ha da tradurre “librerie modello”. E tuttavia il quadro è perfetto.

    Se, come penso, l’editore è un mediatore culturale, se la sua opera è quella di filtrare e veicolare intelligenza e immaginazione, di costruire beni consumabili e al contempo assimilabili, allora ci siamo. E ci siamo soprattutto quando Gobetti tien conto, in assoluta contemporaneità, di due aspetti capitali: i “movimenti d’idee” e il “giro degli affari”.

    L’editoria deve temere una cosa soltanto: l’immobilità. Se si muovono le idee, si muovono anche gli affari

    In fondo si tratta in entrambi i casi di una realtà che deve temere una cosa soltanto: l’immobilità. Se si muovono le idee, si muovono anche gli affari. Forse quando Gobetti parla di “creatore” intende proprio una condizione che presume costruzione, concentrazione di identità operative diverse ma necessarie l’una all’altra. Non solo: ne esce una visione dell’editoria non come “servizio” ma come polo attivo, riconoscibile come creatore nel momento in cui “moltiplica all’infinito” la sua “sia pur piccola” produzione.

    La “moltiplicazione” è garantita dall’ascolto di due voci essenziali: le idee e la ricezione delle idee, le “riviste” e le “librerie modello”, il moto surgivo della ricerca e della scrittura e il valore acquisito dalla sua consumabilità. Se volessimo essere drastici, vedremmo in quei due poli il libro e il marketing del libro.

    Piero Gobetti non inventava nulla, ma – editore lui stesso – pensava a come la qualità della “creazione” potesse essere solo premiata da quelli che ora chiamiamo “punti vendita”, sapeva che, attraverso il consenso implicito nell’acquisto, si concretava un processo altrimenti condannato all’irrilevanza.

    Parto da questo paragrafo di Gobetti perché, se immagino una editoria post-pandemica, non posso fare a meno di legarla allo stimolo di una voce che viene dalle rovine del passato, credibile proprio perché rubricabile come storia.

    C’è chi sta lavorando – non potrebbe fare diversamente – sui numeri, fa i conti, e misura l’imminenza o una potenziale correzione del disastro. Niente di più fondato: ci sono in gioco la dignità del mestiere, i posti di lavoro, i modelli di ricerca, le strategie di penetrazione dentro un mondo – quello dei lettori-consumatori – sempre più difficile da identificare con sicurezza. Ma in verità la crisi dell’editoria (anche questo è sin troppo noto) è cominciata almeno una decina di anni fa: forse è il momento di chiudere in una sola visione la crisi introdotta dalla rivoluzione tecnologica e il trauma del collasso sanitario globale (nonché del collasso economico inevitabilmente innescato).

    Sembrano due fenomeni paralleli, e invece no: e non è un caso che sia stato di Bill Gates il presago monito a spostare i grandi finanziamenti della ricerca scientifica dalla difesa contro le armi atomiche a quella contro la minaccia pandemica di virus ignoti.

    Deperibile.

    L’editoria ha una storia, e proprio perciò è esposta, insieme alla società che la ospita, a trasformazioni che la modificano ma che soprattutto la dichiarano deperibile. La civiltà del libro non esaurisce la cultura in quanto civiltà, è – lo verifichiamo con sempre maggiore evidenza – una sequenza storica di quella che chiamiamo civiltà occidentale.

    Lo ripeto per non cedere alla tentazione di identificare la configurazione materiale del prodotto libro, così amata e così ancora tecnologicamente perfetta, con il termometro del valore. Siamo sempre più interrogati dalla complessità dei modi per accedere al sapere, all’informazione, all’intrattenimento. Da quella complessità, che di fatto è ricchezza, caotica ricchezza, siamo tendenzialmente indotti a inventare occasioni, approcci, e a veicolarne la trasmissibilità all’interno di modelli tradizionali di consumo (esemplificando: l’esperienza degli youtuber è diventata un’area di approvvigionamento dell’editoria tradizionale, ma la potenzialità del linguaggio youtuber è ancora tutta interna alla rete, né mi sembra esistano prove di elaborazione di quella potenzialità; più complessa l’esperienza della produzione di podcast, vera e propria apertura a una codificazione di linguaggi narrativi e speculativi imperniati su una inedita forma di oralità).

    Che cosa ci aspetta appena al di là del silenzio indotto dalla pandemia, difficile ipotizzarlo. Provo, rischiando eccessi presuntivi, a cercare un taglio prospettico che attraversi il paesaggio di rovine.

    Non tanto il futuro del libro quanto le forme e i modi di approvvigionamento di sapere e intrattenimento che passano attraverso la mediazione editoriale

    Il primo passo di un’editoria ideale è, nella mia immaginazione, un comitato di salute pubblica, una sessione di studi in cui imprenditori, funzionari, tecnici e uomini di cultura convengano in modalità permanente a misurare non tanto il futuro del libro quanto le forme e i modi di approvvigionamento di sapere e intrattenimento che passano attraverso la mediazione editoriale.

    Dopo molto delirare, auspicare e vano ricalcare da una tecnologia all’altra, sarebbe ormai il momento di non lasciare al solo caso il destino (felice o infelice che sia) di una industria che da una parte incarna con vigore la fisionomia del grande gruppo e dall’altra si inebria della supposta purezza della microimpresa; sarebbe il momento di misurare la distanza fra il generalismo e il radicalismo, nonché gli interessanti incroci dove il generalismo rivendica percorsi d’eccellenza e il radicalismo elettrizza la coerenza con contaminazioni di mercato.

    Una “editoria ideale”? In primo luogo, quella che sappia leggersi, con una consapevolezza ancora immatura ma possibile, all’interno di un’ansia progettuale comune, di una “verifica dei poteri” che conferisca alle singole identità aziendali una priorità politica, una disposizione interlocutoria, una intelligenza economica. È legittimo ritenere che all’interno di ciascun imprint editoriale si sia formato un funzionariato capace di valutare dove l’interesse del particulare confina con gli interessi, diciamo così politici, delle altre realtà d’azienda.

    Esperienze come BookCity hanno dimostrato a Milano come, sia pure attraverso i cuscinetti delle fondazioni, l’editoria abbia provato a occupare uno spazio comune. Si tratta ora di spingersi più in là. Si tratta di anticipare l’uscita da una condizione che sembra riprodurre quella tardorinascimentale della mappa di stati della penisola italiana.

    Se mi si consente questa similitudine storica, anche nel caso dell’editoria sono in gioco famiglie e patrimoni di famiglia, arroccati isolamenti e isolamenti pronti a entrare, con ovvia perdita di indipendenza, in differenziate aree di influenza, mentre l’Europa costruiva monarchie nazionali. C’è arroganza e arretratezza in un panorama siffatto. Con una scuola di funzionari educati alla diplomazia, ma senza neppure la prospettiva di portare altrove il know-how acquisito.

    Non sono il libro o la linea di libri che procurano più fatturato a definire una volta di più l’area d’azione, bensì la creazione, quanto più rapida possibile, di un prodotto (o anche solo delle sue premesse) capace di sostituire la forma-libro o di integrare i vuoti della sua progressiva obsolescenza. Ma per accedere a questa piattaforma ideale è necessaria, continua a essere necessaria, una confidenza con i contenuti che la tecnocultura tende – proprio nel momento in cui ne rivendica la necessità – a sottovalutare.

    I contenuti “riempiono”. I contenuti sono per l’appunto “contenuti”, né altro devono fare. Singolare contraddizione. C’è una sorta di ostinazione a perseguire risultati direttamente proporzionali alla cubatura della produzione: ostinazione che è di volta in volta dettata dal timore di non sapere quali siano le acque da solcare o dalla mancanza effettiva di idee di fronte all’altezza della sfida.

    Se è vero che l’editore crea “dal niente”, è pur necessario cominciare – ed è innegabile che qualcosa sia cominciato: anche se forse più come risposta all’incombere delle tecnologie che come reale implementazione del loro potenziale. Fatto sta che ancora non esiste un mediatore culturale (ovvero un editore) in grado di condurre la fantasia empirica di nerd volonterosi (quelli già capaci di produrre profitto e quelli no) verso una cadenza non ingannevole di proposizioni traducibili nella redditività di programmi operativi articolati e pervasivi. Siamo tuttora di fronte a quello che Hegel chiamava Anfgang, il cominciamento che è “un nulla da cui deve uscire qualcosa”.

    E dato che, oltre la concretezza dell’industria culturale (vale a dire la sua produttività), ci premono i contenuti, dove vogliamo situare gli autori – gli studiosi, i ricercatori, i reporter, i compilatori, gli scrittori? E dove situare, in un paesaggio così caotico, il filtro – in verità ben salvaguardato e garantito – del diritto d’autore?

    Verrebbe voglia, certo di non poter confidare nel sense of humour del settore, di ridiscutere anche il diritto d’autore alla luce del diritto di essere un autore. E di ridiscuterlo – qui invece è bene essere seri – alla luce di una mutazione ormai antica, e tuttora in atto, che ha visto consumarsi, piaccia o no à l’écrivain, lo statuto della figura dell’autore.

    Verrebbe voglia di ridiscutere anche il diritto d’autore alla luce del diritto di essere un autore

    Roland Barthes ne ragionava asserendo che la “morte dell’autore” va di pari passo con il venir meno dell’individuo, della “persona umana”, così come l’ha costruito l’Umanesimo sino a farne l’incarnazione quintessenziale dell’ideologia capitalista. Va da sé che questa metamorfosi storica va letta, almeno nell’area della scrittura di immaginazione, alla luce della funzione della critica, che si è avviata ad anteporre il testo all’autore e alle sue intenzioni, chiamando nondimeno in causa una figura nuova, fino ad allora esclusa dalle indagini: il lettore.

    Noi agiamo nell’età del lettore, anzi, meglio, alla fine di quell’età, giacché anche il lettore è figura obsolescente. Mi giro intorno, vedo i testi che hanno contribuito alla mia formazione e alla formazione di almeno tre generazioni, e mi domando se il senso di vertigine che provo non abbia proprio a che fare con il franare ininterrotto di un Umanesimo che, beckettianamente, non vuole morire. Ed è molto significativo che il fronte più esposto di questa condizione è proprio quello in cui, secondo la bella intuizione di Gobetti, si crea dal nulla.

    L’“editore ideale”, quello che deve poter guardare a una sua nuova funzione di mediatore culturale, sarebbe teoricamente nella posizione di ridiscutere, insieme ai suoi, con quali parametri economici si trova a operare. Se le nuove tecnologie hanno progressivamente consumato la floridezza di tanta parte dell’industria culturale (si pensi alla più che significativa spoliazione del mercato della musica e alla corrosione della stampa periodica) e hanno aperto modelli nuovi di produzione e consumo, è necessario rileggere con strumenti diversi tutta l’industria culturale, e con questa tutta la civiltà che troppo automaticamente ci piace far aderire, senza certificazione, al lavoro editoriale.

    L’“editore ideale” non può temere di esporsi a un nuovo sistema, o farlo giocando con le carte che già conosce. È singolare come, malgrado la quantità di rilevazioni a cui i funzionari editoriali possono accedere per monitorare la produzione, la forma mentis editoriale resti ancorata a un modello di autorevolezza (sia quantitativo sia qualitativo) non diverso da quello che ha guidato le trasformazioni del secondo Novecento. Che ci siano scritture e autori che possano esaustivamente rappresentare la bandiera identitaria di un editore può accadere soltanto dove le dimensioni dell’impresa rendono perseguibile un effettivo rispecchiamento tra proprietà e produzione. Fuori da questa accidentalità è bene rompere triangolazioni abusate.

    Un comitato di salute pubblica.

    E proprio a proposito di autorevolezza sarebbe augurabile una interrogazione plenaria, quel “comitato di salute pubblica” di cui si diceva più sopra. È così complicato porre e sostenere la domanda (che dovrebbe occupare molta parte delle riflessioni delle redazioni delle case editrici) “su cosa si fonda l’autorevolezza di chi scrive”? Che rapporto sussiste fra l’autorevolezza del mercato e l’autorevolezza scientifica e letteraria? E in quella disordinata e caotica e frammentaria elaborazione di linguaggi che segna, piuttosto che il lavoro dell’editore classico, quello che si muove – armato di sofisticatezza social – nei suoi immediati dintorni – e spesso disegna fughe, rivendicazioni di autonomia, scatti in avanti o improvvisi arretramenti all’interno delle apparentemente solide strutture dell’industria culturale –, quale nuova verifica, utile a tutti, può essere compiuta?

    Nell’“editore ideale” vedo la necessità di un investimento e di una ricerca non meno decisivi di quelli a cui le comunità scientifiche devono accedere per elaborare ricognizioni e condurre studi tali da garantire l’esistenza alla totalità dei viventi. Non meno decisivi.

    È troppo? Non credo.

    La pandemia e il teatro di rovine dell’economia sono una rappresentazione (non la sola, ahimè) di una insufficienza grave, di una assenza di risorse. Il fatto che la tecnologia abbia mitigato la solitudine dei reclusi è paradossalmente meno importante del fatto che quegli stessi reclusi abbiano cercato, quasi automaticamente, forme di collettività, di linguaggi comuni, di racconti in comune.

    Lo scrittore tradizionale si è dato da fare, ha trovato uno spazio, talvolta ha anche provato a essere utile, ma non è stato autore.

    Forse collettore di voci, nel migliore dei casi. Sintetizzatore. Sbrinatore di pensieri.

    Un “editore ideale” lo sa, ma, al di là del sapere, ha il compito di fondare una nuova auctoritas.

    Ci siamo abituati a considerare letteratura tutto ciò che ha un autore, una firma fuori e dentro i confini di quella che consideriamo opera. Questo è pensiero debole, debolissimo. La letteratura non è un anticipo di valore. E soprattutto esiste un gap fra opera e operato. Anche quella che chiamiamo letteratura scientifica ha bisogno di essere sondata, esperita, approvata. Sennò è priva di effetto.

    Sono coraggiosamente periferiche le riviste che assolvono la funzione di osare, sfondare frontiere, cercare interlocutori, né per altro esistono intellettuali chiamati a ripristinare il loro mandato; anche perché non ci sono fondamenti sociali e politici per un vero mandato (esistono magazine, sì, a volte di pregio, a volte condomìni abitati da gazzettieri opinionisti, devoti alla satira, alla posta psicoterapica, alla divulgazione del non citato moralismo settecentesco).

    L’“editore ideale” non è ovviamente un veicolatore di certezze: ma di contenuti sì. E i contenuti di un’epoca di crisi sono contenuti (ovvero hanno dentro qualcosa) che prendono corpo solo a partire da una percezione nevrotica, da una porosità generosa, da una curiosità febbricitante.

    Il lettore non è una creatura unidimensionale, e soprattutto non dipende dalla forma-libro. Il lettore può frequentare librerie, ma ha ormai anche mete diverse, trova e inventa urgenze diverse. Credo che questa sia una dimensione della libertà che conosciamo pochissimo, che conosciamo pochissimo dal punto di vista professionale. Di tanto in tanto raccogliamo stimoli che per lo più subiscono una radicale reductio, onde diventare comprensibili. E invece forse non sono comprensibili secondo i criteri che ci sono familiari. La stessa incerta claudicanza tocca all’autore che in quanto auctor è artefice, e può “accrescere” solo prendendo le distanze dalla fisionomia che si è dato per via accademica, o per imitazione, o per convenienza.

    Lettori di se stessi.

    Vogliamo dirlo? Una delle operazioni editoriali di maggiore successo degli ultimi vent’anni è stata quella che ha negato l’autore, pur dotandolo di nome e cognome, e lo ha fatto attraverso la complicità dell’editore. L’amica geniale ha dimostrato una cosa molto concreta: che non è necessaria la mediazione della fama e che il riverbero (vale a dire l’estensione di consumo e di lettura) può dipendere dalla sola congruità seduttiva di una storia che nasce dentro la fisicità del libro, si sposta nella fisicità dell’audio-book e nella fisicità planetaria della serie televisiva.

    Non è necessaria la mediazione della fama e il riverbero può dipendere dalla sola congruità seduttiva di una storia

    La vera novità di questa operazione (che in quanto tale ha un solo grave difetto: non è ripetibile) è che attua l’azzardo di mescolare la più restaurativa forma di scrittura con la più sperimentale delle dinamiche di ricezione da parte di quello che chiamiamo pubblico. Geniale, come l’amica, non è il romanzo in sé, ma la sua progressiva contaminazione – la felicità con cui l’opera cede le proprietà letterarie non a un manipolo di critici specializzati ma a uno sciame vastissimo di glossatori emotivi che hanno trovato mezzi di comunicazione impensabili prima della rivoluzione digitale.

    Ed è sorprendente come una celebre riflessione di Marcel Proust nel Tempo ritrovato si rispecchi in questa modalità esperienziale: “Solo per un’abitudine derivata dal linguaggio insincero delle prefazioni e delle dediche, lo scrittore dice ‘il mio lettore’. In realtà, ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una sorta di strumento ottico ch’esso offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe veduto in se stesso”.
    Eppure, tutto ciò resta nell’ambito di una forsennata empiria – spesso vitale, spesso articolata e ricchissima – che presume ma al contempo nega o è incapace di mettere a fuoco un centro propulsivo, una sorta di cabina di regia da cui attingere modelli d’azione, regole.

    Nulla è più vecchio di ciò che negli anni sessanta e settanta del Novecento entrava nell’area della “sociologia della letteratura”, eppure è stato a partire da lì, e, fra gli altri, dagli studi di Robert Escarpit, che si è cominciato a pensare – almeno dal punto di vista accademico – un universo in cui la forma-libro poteva essere considerata materia di riflessione.

    Quando rammentiamo la definizione innamorata che Escarpit ha dato del libro nel 1965, ci rendiamo conto che la sua verità (intatta) ha sfarinato oltre e tocca una avventura ben più ampia di quella editoriale in senso classico: “…poiché passa facilmente di mano in mano e poiché può essere copiato e moltiplicato a volontà, il libro è lo strumento più semplice che, a partire da un punto dato, sia in grado di liberare tutta una serie di suoni, di immagini, di sentimenti, di idee e di elementi di informazione dischiudendo le porte del tempo e dello spazio; nonché, unitamente ad altri libri, di convogliare questi dati diffusi verso una moltitudine di altri gruppi, sparsi attraverso i secoli e i continenti, e un’infinità di combinazioni tutte diverse le une dalle altre”.

    Escarpit sembra verosimilmente parlare delle potenzialità che oggi non sono esclusivamente legate alla forma-libro, quanto piuttosto a una dinamica esperienziale che passa anche attraverso il libro ma implica un ben più vasto e ingovernabile gioco combinatorio.

    Ci si deve preparare.

    Ritorno all’“editore ideale” di Gobetti. Le idee e la “moltiplicazione degli affari” sono gli aspetti essenziali. Il “nostro” editore ideale non può limitarsi a difendere la produzione (magari riducendola, e riducendo la forza lavoro) e sperare di sopravvivere.

    Mai si è parlato come in questi ultimi due mesi di un dopo (a Milano ho sentito coniare un sostantivo biavverbiale interessante: il poidopo), di un dopo che avrebbe contemplato lo scatto della ripartenza, di un dopo in cui, sostanzialmente, avremmo cominciato a dimenticare per essere in grado di costruire. E, va da sé, non solo in ambito editoriale.

    In verità, non esiste un dopo: esiste semmai una continuità di crisi che segna l’attività di case editrici, imprese, fondazioni, società di produzione, produttori tv e cinematografici, discografici, product manager. Ciò che negli ultimi trent’anni l’editoria libraria era venuta imparando dalla musica e dallo spettacolo – la logica assemblativa dei concerti, il rock stardom applicato al mondo dello scrittore di successo, del fumetto, delle grandi saghe di genere – tutto ciò sembra rientrare in un processo rieducativo che, dallo stadio ai tendoni dei festival, contempla il disorientamento dell’impossibilità di un pubblico fisico.

    Lo spostamento online registra una impennata piuttosto considerevole, ma si limita a stimolare con urgenza una visione non approssimativa, non episodica della veicolazione online di contenuti, e non solo un utilizzo vicario della promozione. Lo spazio vuoto dei teatri, il silenzio delle filarmoniche, il deserto degli stadi sono immagini che non dimenticheremo facilmente. Non tanto e non solo per l’oggettivo spaesamento di una modalità umana privata della convergenza fisica, ma anche per il brusco (ed effettivo) processo di smaterializzazione che era stato sino a poco prima solo un tema, diciamo così, teorico, una delle configurazioni prospettiche della produzione ivi compresa la produzione di cultura.

    Per l’editoria libraria si apre l’opportunità di un’attività più solidamente ancorata alla qualità del lavoro, e alla qualità del futuro

    E invece quella drastica sostituzione di forme, di formalità, o di mezzi per accedere a contenuti, è elemento fondante di nuove triangolazioni possibili – non così traumatiche, ci si augura – orientate da una maggiore capacità visionaria e consegnate a una meno dispersiva efficienza empirica.

    L’“editore ideale” ha davanti a sé il destino e la sfida di essere più o meno compatibile, non solo con la giustizia e la ricchezza dei contenuti (e delle idee) che dovrà impegnarsi a raccogliere, ma anche con la sopravvivenza del Pianeta.

    Inutile girare intorno alla questione: ogni pagina e ogni atto che medieremo – e più forte è la funzione di mediatori, tanto più forte è il risultato – sarà più di sempre una ipotesi di civiltà e di cultura, proiettata non verso il futuro, ma verso la possibilità di un futuro. Lo abbiamo sempre fatto, per lo più, ma la complessità di un giudizio di valore restituisce a chi lo esprime una responsabilità in più. Se pubblicare meno titoli è ormai l’obiettivo di una disciplina produttiva e di una grammatica aziendale sostanzialmente difensiva, per l’editoria libraria si apre l’opportunità di un’attività più solidamente ancorata alla qualità del lavoro, e alla qualità del futuro.

    Vien voglia di risentire, ma corretta, la profezia di Veršinin, così amara da suonare comica, in Tre sorelle di Čechov: “Fra duecento, trecento anni la vita sulla terra sarà incredibilmente splendida, eccezionale. L’uomo ha bisogno di questa vita, e se per il momento non esiste, l’uomo la deve presentire, aspettare, sognare, ci si deve preparare […]. E voi vi lamentate che sapete tante cose inutili”.

    Note