Sintesi di gioia e frustrazione nel lavoro culturale

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    Il momento arriva sempre, a un certo punto, quando prima quando dopo, in occasione di nuovi incontri o di vecchie rimpatriate. Il momento arriva, la domanda nasce spontanea: “ma tu di cosa ti occupi? Cosa fai nella vita?”. Ecco.

    Io di cosa mi occupo, cosa faccio nella vita? Quasi mi vergogno a volte a rispondere. ” Tecnicamente sarei una film buyer. Cioè io nella vita giro per festival, leggo sceneggiature, compro film”. Segue solitamente un qual certo basito stupore. “Sì insomma io leggo tante sceneggiature, viaggio per i mercati, che nella maggior parte dei casi coincidono con i festival di cinema più importanti, vedo film, incontro venditori e cerco di comprare i diritti di sfruttamento di un film per il mercato italiano”.

    Sguardo perplesso: “per esempio?”. “Ecco per esempio se hai visto in Italia film come…(segue lista dettagliata di alcune delle acquisizioni più soddisfacenti di quindici anni di lavoro)”. “Ah. Non ne ho visto nessuno”. Appunto.

    Sintesi di gioia e frustrazione del lavoro culturale.

    Gioia.

    Appassionata di cinema da quando avevo poco più dell’età della ragione, laureata al D.a.m.s di Bologna degli anni d’oro, spettatrice avida, curiosa, mai sazia e mai stanca. Eccomi. Che cosa ho la sfacciataggine di fare nella vita? Quello per cui ho studiato.

    Lavoro nell'”industria culturale” e ho la fortuna di farlo dalla parte del cinema che preferisco, il cosiddetto “cinema di qualità”.

    Ho iniziato con la gloriosa e ahimè scomparsa Mikado Film, ho lavorato per Sacher Distribuzione e oggi per Teodora Film.

    Ho passato gli ultimi quindici anni della mia vita gomito a gomito con le persone che hanno contribuito alla mia formazione culturale, che hanno accresciuto – e ancora accrescono – il mio amore per il cinema e la mia passione per questo mestiere.

    Viaggio e frequento i più importanti mercati e festival del cinema: Berlino, Cannes, Venezia, Toronto, Torino…e molti altri. Se me lo avessero detto il giorno della laurea, che avrei avuto la fortuna di riuscire a fare questo beh, non ci avrei sperato. Sono una persona fortunata: Italia 2017, ho studiato quello che amavo e lavoro per quello che ho studiato. Gioia.
    Frustrazione.

    “Ah. Non ne ho visto nessuno”. Appunto.

    Ricordo ancora il giorno in cui a Berlino, ormai qualche anno fa, vidi un film rimasto poi per me un vero e proprio feticcio.

    Lavoravo all’epoca con la Sacher e l’entusiasmo che seguì la visione non lo scorderò mai. Avevo la febbre del capolavoro, avevo visto qualcosa che emanava grandezza e friggevo nell’impazienza di mostrarlo, portarlo in Italia perché tutti potessero vedere che grande film che era.

    Il film era in concorso e vinse molto. Un trionfo a cui seguì la consacrazione internazionale: Golden Globe, Oscar come Miglior Film Straniero, David di Donatello. Tutto. Il film vinse tutto. Io non ero mai stata così orgogliosa nella mia vita professionale. Il film uscì in Francia dove lo videro più di un milione di persone. Per dire, lo stesso numero di persone che ad oggi, in Italia, stagione 2017, ha visto I guardiani della Galassia e Baby Boss, parecchi di più di quelli che hanno visto Assassin’s Creed, Split e Wolverine e giusto un po’ meno di quelli che hanno visto La La Land. Così per citare qualche titolo fresco di memoria collettiva.

    Quanti spettatori fece quel film in Italia? Poco più di centomila. Un successo. Non scherzo.

    L’Orso d’oro vinto anni dopo con un film di Teodora, opera terza di un talentuoso e giovane regista rumeno, lo videro in poco più di trentamila. Il Grand Prix di Cannes, nonché Oscar 2016 come Miglior Film Straniero, David di Donatello e via dicendo, poco più di novantamila. E potrei continuare piuttosto a lungo con un elenco della vergogna di capolavori della cinematografia contemporanea passati pressoché inosservati sui grandi schermi italiani. Non sui piccoli, per fortuna e merito di alcune televisioni.

    Frustrazione.

    In Italia se hai quella che io considero una grandissima fortuna, ovvero lavorare col “prodotto culturale”, devi necessariamente fare i conti con frustrazioni di varia natura.

    In primo luogo quando porti in Italia un film, con entusiasmo trasbordante e con la ferma convinzione di star facendo un grandissimo regalo ai tuoi connazionali i quali certamente ti ripagheranno correndo al cinema, preparati: non sarà così.

    Il film se ti andrà bene e se il tuo naso ci avrà sentito bene lo incenseranno i critici e lo vedranno in pochi. Breve storia triste (ma non priva di soddisfazioni, sia chiaro). In secondo luogo: quando al festival del caso vedi “il film”, quello che ti manda in corto le sinapsi e ti aggroviglia lo stomaco, quello che esci e dopo hai una stranissima e peraltro poco pratica, dovendo lavorare, sindrome per la quale, quel giorno, non puoi vedere più nulla.

    Ecco quando vedi “quel” film e hai l’immediata consapevolezza che non lo puoi comprare, la frustrazione è della peggior specie. Non puoi perché tu i film li devi acquistare, perché non selezioni per un festival, tu tratti un “prodotto” che ha un costo e deve avere un risultato commerciale perché altrimenti l’azienda per cui lavori e che ti paga lo stipendio rischia di “fallire”, perché nessuno – a parte l’Unione Europea con alcuni programmi di sostegno alla distribuzione transnazionale di film europei – ti aiuta, ti sostiene, ti finanzia per portare in Italia il cinema “di qualità”.

    Quindi capita di vedere film bellissimi e di doverli lasciare lì, col pianto nel cuore, con il solo obiettivo di seguire il regista e sperare nel futuro. Quindi capita di acquistare un film piccolo, che sai essere “bello e impossibile” e che, magia, diventa “cult” nel mondo toccando cifre inattese e guadagnando un pubblico insperato. Regolarmente – o quasi – in Italia “la straordinaria opera prima che ha stregato centocinquantamila spettatori francesi e più di duecentomila spettatori spagnoli” arriva a malapena a venticinquemila.

    Il mio vecchio e lungimirante capo diceva “continuiamo così, facciamoci del male”.

    Continuiamo così: facciamoci del bene, facendo un lavoro meraviglioso, guardandoci allo specchio sapendoci fortunati, privilegiati e un po’ frustrati ma sempre più privilegiati.

    Ci incontriamo ai mercati, andiamo ai festival pagati dalle nostre società ma potendo pagheremmo per andarci comunque, siamo acquirenti, giornalisti, uffici stampa, interpreti, passiamo una settimana a parlare solo di cinema, vediamo film che non arriveranno mai in Italia (e alcune volte la selezione è una fortuna, credetemi…ma più spesso è una privazione), non abbiamo perso la passione nel discutere di film, attori, sceneggiature, ruoli, generi (e cibo: ah quanto ci piace mangiare e bere bene parlando di cinema!).

    Siamo noiosi, monotematici, ossessivi ma mettiamo così tanto di noi in questo lavoro che i “nostri” film poi quando escono sono come dei bambini al primo giorno di scuola: e se non vengono capiti, se non vengono accolti, se li trattano male, se non si fanno abbastanza amici, e se non è la scuola giusta….

    Gioie e dolori, soddisfazioni e frustrazioni: non ci si annoia quasi mai e si lavora con quello che si ama. Splendidamente fortunati.

    Quando non ci saranno più nemmeno quei venticinquemila, trentamila, cinquantamila, centomila curiosi, coraggiosi, spettatori allora avremo un problema.

    Ma non noi film buyer del “cinema di qualità”, che alla peggio ci dovremo reinventare (io nel dubbio un diploma come istruttrice di yoga l’ho preso, poi si vedrà…), il problema, grosso, ce lo avrà la nostra piccola e sempre più provinciale Italia che ha già perso tante, troppe, sale cinematografiche e con queste il piacere dell’offerta differenziata, della scoperta della piccola cinematografia emergente, del rito sociale che il cinema porta con sé e che tanto, anche, ci fa amare questo lavoro.

    Note