Tutto il ferro di Milano, la disfatta intimità dei luoghi

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    Una città si mostra, dopo una catastrofe, nella sua sofferta nudità quando non la ingarbuglia l’intreccio dell’accadere. Nel monco teatro vediamo, dove e se esistono, dettagli di una geometria storica, sociale. Aldo Rossi parlava, a proposito delle città europee dopo i bombardamenti dell’ultima guerra, di “case sventrate dove tra le macerie rimanevano ferme le sezioni dei locali familiari con i colori sbiaditi delle tappezzerie, i lavandini sospesi nel vuoto, il groviglio delle canne, la disfatta intimità dei luoghi”.

    In questo torno di tempo, non patiamo la catastrofe del bombardamento, ma lo scenario non è diverso da quello: siamo di fronte a una “disfatta intimità dei luoghi”, anche se i luoghi non sono case, ma spazi a cui apparteniamo non meno che a un appartamento.

    Perdurando la condizione di cittadini dimidiati, una delle opportunità che abbiamo è comunque quella di saper guardare.

    Siamo all’interno di una mutazione inevitabile. Contare sul prefisso ri- che illude e impoverisce il sentimento del tempo è mortificante. Non si tratta di ri-partire o di ri-costruire –  semmai di confidare sulle potenzialità di cambiamento.

    Una metropoli come Milano ha provato, prima del silenzio, ad accettare la logica di una metamorfosi progressiva – complessa, e non scontata. È come se quel processo (controverso quanto si vuole, ma evidente, netto come un paesaggio) si fosse congelato. Sottentra ora una tentazione di guardare, che può far male ma induce a non smettere di esercitare la nostra capacità di lettura. Leggere una città, sì. Leggere Milano.

    Possiamo partire da lì? Questo è almeno quello che posso provare a fare io.

    Euforbia delle ferrovie

    La ferrovia è tramontata, o almeno è tramontata la sua funzione commerciale, è cambiato il rapporto merci e movimento. Le merci viaggiano in modo diverso rispetto a cinquant’anni fa. Milano è di fatto una città ferroviaria, nel senso che, dopo la lunga eredità medioevale e rinascimentale, la struttura urbana è andata prendendo forma attraverso le ferrovie. Non è un caso che uno dei più redditizi affari immobiliari del nuovo secolo e il cantiere potenzialmente più grande della città siano quelli rappresentati dalle aree dismesse degli scali ferroviari. È come se, improvvisamente, questa identità fosse emersa con la vastità e anche con la magnificenza di un teatro abbandonato. Tutto il ferro di Milano, verrebbe voglia di dire, parafrasando il titolo di un romanzo di Michele Mari.

    Non è necessario muoversi nell’amministrazione pubblica o all’interno degli studi di architettura che hanno prodotto progetti per vedere a occhio nudo tutto quel ferro, e come lo spazio degli scali merci abbia modellato la mappa della città. La ferrovia è stata la prima vera cerchia, dopo le mura spagnole, a fare da cintura esterna, e, attraverso gli scali, è penetrata con uno sciamare a delta di binari in sette aree chiave del corpo urbano.

    Esistono alcune tracce monumentali di vagoni merci abbandonati, forse qualche motrice, ma per lo più quello che vediamo dai ponti che scavallano la ferrovia è il ferro dei binari: binari che, in primavera e in estate, recitano l’invisibilità prodotta da una vegetazione invasiva tornata a crescere con selvaggia fierezza. Più di trecento specie di flora ferroviaria sono state individuate.

    Non patiamo la catastrofe del bombardamento, ma lo scenario non è diverso da quello: siamo di fronte a una “disfatta intimità dei luoghi”, anche se i luoghi non sono case, ma spazi a cui apparteniamo non meno che a un appartamento.

    Flora inseminata dagli spostamenti d’aria e ora radicata nel sabbioso interregno fra traversine e acciaio. Per gusto del catalogo do una sequenza di presenze familiari che, dall’alto del ponte, forse non sapremmo nominare: equiseto, avena, gramigna rampicante, cicerchia pelosa, verbena, radichella cotonosa, vitalba, sorgo, erba medica, euforbia, cencio molle, malva canapina, bocca di leone.

    Milano e il suo acciaio floreale, quasi l’eredità liberty della ghisa avesse subìto una nuova metamorfosi all’incontrario.

    L’euforbia ha una sua specie rinominata “euforbia delle ferrovie”. Con lo schiocco di dita di un designer, ecco la divagante creatività della natura inselvatichita conquistare uno spazio nella visione della città, tormentare di segni l’altrimenti silente distesa di acciaio. Non dunque giardini, ma furia riproduttiva di vegetazione “povera”, così comune che troppo poca attraversa con un nome lo sguardo di chi guarda. Eppure la “malva canapina” è bella, generosa. C’è persino nelle striminzite fette di verde intorno all’acquedotto di piazza Trento. E la ruggine che ammutolisce la festa degli scambi appartiene allo stesso decoro. Un decoro che discende da una trasecolante assenza di movimento. Qui si muoveva il trasporto di merci che pesavano su carri, che pesavano sulla sala montata, e le ruote della sala montata pesavano sui binari. E di quel peso c’è ora una memoria sospesa nell’aria. Tutto in questi scali era peso, e il peso era merce, e la merce era ricchezza.

    O carro vuoto

    Prima che la eventuale green infrastructure della riconversione degli scali traduca in un’altra lingua quello che resta dell’inattuale lingua delle linee ferrate, è ben possibile prestare occhio e orecchio alla loro stentorea baldanza. Che è icona innocua (ma quanto innocua?) della metropoli borghese e operaia. È necessario scavalcare cementi, cancelli, palizzate. E solo in questo ideale (ma non solo ideale) scavalcamento si consuma la visione di un universo che è stato scena di traffici poderosi, di risorse, di ricchezze mobilizzate, e che ora è imbuto prospettico della sua storia.

    In questo imbuto i materiali rotabili hanno dichiarato, con severità, una funzione e hanno assunto forme dettate dalla qualità del trasporto: il carro chiuso con portelloni laterali scorrevoli, il carro a tramoggia, il carro cisterna, il carro silo, il carro bisarca. Li abbiamo veduti, contemplati, e qualche volta li abbiamo sentiti attraversare l’immaginazione, oggetto di desiderio e di fuga.

    Qui si muoveva il trasporto di merci che pesavano su carri, che pesavano sulla sala montata, e le ruote della sala montata pesavano sui binari. E di quel peso c’è ora una memoria sospesa nell’aria. Tutto in questi scali era peso, e il peso era merce, e la merce era ricchezza.

    Milano ha avuto un paesaggio ferroviario che è stato cruciale nella fantasia adolescenziale di chi è cresciuto nelle sue periferie.

    Ha lasciato segni. E ha nutrito per un secolo intero la visione che produce sedimento culturale. Come non rammentare la stazione di Milano di Angelo Morbelli, oggetto per due volte della sua attenzione pittorica fra il 1887 e il 1889?

    Angelo Morbelli, La stazione di Milano 1889

     

    E la stessa stazione colta da Carlo Carrà in un drammatico addensarsi di colori crepuscolari nel 1911? Il treno passa a Milano dall’imperio naturalista a quello visionario del futurismo (in Boccioni ma non solo), ma è piuttosto significativo che in assoluta contemporaneità con la tensione futurista un poeta come Clemente Rebora sappia cogliere, proprio dentro la cornice di uno scalo milanese, l’immobilità e la solitudine di un carro sorpreso in una pausa delle sue funzioni: O carro vuoto sul binario morto /ecco per te la merce rude d’urti / e tonfi. Gravido ora pesi / sui telai tesi […] e trascinato tramandi / e irrigidito rattieni / le chiuse forze inespresse / su ruote vicine e rotaie / incongiungibili e oppresse.

    Carlo Carra, La stazione di Milano 1910-1911

     

    Una pausa, quella del carro vuoto, che, paradossalmente, non smette di durare dal primo decennio del secolo (il suo, il Novecento), a cui Rebora dedicava i suoi Frammenti lirici, fino alla scena immobile degli scali come ci appaiono ora.

    Tracce mozze

    Prima di altri silenzi, quelli degli scali hanno anticipato la rappresentazione dell’abbandono. Rappresentazione che tuttavia va letta all’interno di persistenze, di insistenze. E Milano si fa riconoscere nelle tracce che la sua storia lascia nella sequenza di quegli stadi che chiamiamo presente. Tracce che esigono discrezione per essere lette, anche quando siamo di fronte allo sterminato museo ferroviario degli scali. Museo che di fatto essi sono. Condividono la sovranità dell’opera che vi si dispiega, trasparente e ambigua come ogni opera d’arte: c’è nondimeno un rituale da rispettare come quello prescritto dalle sale di un’esposizione. Qui sono i ponti a dettare la comprensività della visione, altrimenti frammentata, qui è il precipitare dello sguardo dentro la nervosa tessitura del ferro – spesso come si diceva più sopra, confuso dalla rivalsa di una natura disordinata, spettinata, aggressiva – a creare la vertigine.

    La visita a uno scalo, così come esso è ora, principia dall’alto ma ha bisogno del dettaglio, di farsi largo nel tempo immobile per riaccendere quello mobilissimo che ha contribuito al suo disegno, ora solo apparentemente eccentrico. Gli scali merci non sono mai stati uno spazio chiuso, semmai uno spazio protetto. Dentro le loro mura erano previsti sbocchi di fuga, a volte per un solo binario, o, più spesso, le barriere si aprivano alla città attraverso pesanti cancelli scorrevoli, e lì i binari, di cui tuttora ci sono familiari le tracce, correvano interrati fino agli slarghi dove dai carri le merci passavano a mediatori, trasportatori, funzionari della dogana, commercianti. Un apparente scompiglio, appena al di là delle mura, protettrici di beni itineranti. Quelle lingue di binari, quelle tracce mozze sono ancora evidenti. È lì che, anche senza una documentazione fotografica, l’attuale silenzio si affolla di uomini, di animali (già, il trasporto animale, durato molto a lungo dentro lo spazio urbano), di clangori, di ordini, di segnali convenuti, e naturalmente di fatica fisica.

    Il treno in verità – quantunque sintetizzato in mera velocità meccanica dal futurismo – non ha mai scollato da sé la prestazione intelligente, il sudore, il governo muscolare. Basterebbe Jean Gabin in La Bête humaine di Renoir per evocare la stagione leggendaria delle locomotive a vapore, gli occhialetti sulla faccia impolverata di carbone, la sigaretta accesa, la mano stretta intorno all’asta di comando.

    E la rotaia, sopravvissuta, che taglia la strada, che a volte resiste parallela e poi si perde, la rotaia chiusa dentro il granito, o nell’asfalto, il suo corso fedele è segno e disegno, fra gasometri e torsi di fabbriche. È di fatto un dettaglio, la metonimica apparizione di un’immensa stagione metropolitana.

    La grazia dei capolinea

    Più deserti del deserto che continuano a essere, gli scali sono un patrimonio che merita di essere valorizzato anche solo attraverso la consapevolezza della loro esistenza, della loro individuazione. “Museo”, già. Le virgolette ne designano la fisionomia transeunte, il destino che ci si augura ancora compatibile con le urgenze e le esigenze della città.

    E pur sempre gesto d’acciaio sono le rotaie di una delle più fitte e dinamiche reti tranviarie di superficie d’Europa. Per quanto ne sappia, le uniche città che competono in efficacia e pervasività sono Amsterdam e Berlino. Milano è i suoi tram. Lo è iconicamente, ma lo è anche strutturalmente.

    I tram hanno trasportato operai e impiegati. Alla figura del tranviere è connessa un’autorevolezza che non si esaurisce in sostanza meneghina ma comprende la funzione civile di un servizio utile alla comunità cittadina. Si pensi alla grazia sociale (sì, alla grazia) dei capolinea: il tram che gira in tondo e sosta, e in quel sostare definisce un’area, la qualifica.

    Alla figura del tranviere è connessa un’autorevolezza che non si esaurisce in sostanza meneghina ma comprende la funzione civile di un servizio utile alla comunità cittadina.

    Il capolinea dell’ospedale Sacco, quello della Barona (tutt’intorno, un quartiere di case popolari che dal dopoguerra non ha smesso di allargarsi), quello della stazione di San Cristoforo in fondo a via Giambellino (altra “stazione” di quartieri di proletariato, sottoproletariato e malavita), quello di viale Ungheria (la Milano dei primi anni sessanta e quella industriale di viale Mecenate), quello di via Costantino Baroni, in fondo a via dei Missaglia, fra centri commerciali, dispiegamento sconfinato di case popolari, e navette per l’Ospedale Humanitas.

    Ho detto “grazia” perché, anche se spesso le pensiline e il verde pubblico sono mortificati, lo stesso concetto di quel giostrare di destini che guadagnano o riguadagnano distanze ha segnato tanta parte della vita civile urbana. Fra anni cinquanta e sessanta, la discesa verso il centro città rappresentava anche la conquista di un mondo incantato (Ti te se no, di Enzo Jannacci), di un mondo di benessere negato, per così dire, al capolinea. Quel percorso è ancora una volta rotaia, ferro, materiale rotabile. Capita di trovare rotaie orfane, non meno orfane di quelle ferroviarie degli scali, e allora ecco che riconosci un disegno, la gentilezza con cui la rotaia gira intorno a un monumento e poi si perde, sostituita, funzionalmente, dai treni sotterranei – anche quelli, ancora una volta, ferrovia.

    L’ingegner Beruto

    Nei tratti di corsie preferenziali, soprattutto nei viali della circonvallazione interna, i binari corrono a lato di un filare centrale o chiusi tra due filari di alberi, liquidambar, olmi campestri, platani, pioppi, tigli, pruni. Per quanto segnata da una storia di ostilità e fatica, quella relazione fra via tranviaria e decoro naturale è legata alla fisionomia assunta dalla città nel primo piano regolatore (firmato da Cesare Beruto e approvato nel 1889), quando vengono abbattuti i bastioni e sono enfatizzati la sua struttura concentrica e i suoi assi radiali.

    L’ingegner Beruto disse di essersi ispirato a Berlino, e suona in qualche modo eccitante come Berlino sia tornata spesso negli ultimi dieci anni per suggerire un confronto con quanto stava succedendo dal punto di vista architettonico a Milano.

    Molto è accaduto, lo sappiamo. Tanti interventi. Un nuovo skyline. Un nuovo linguaggio – internazionale, per l’appunto – che, di fronte alla fisionomia degli episodi architettonici (grandi firme, ardite forme), ha scatenato dibattiti, furie, bocciature, ma anche un’interessantissima adesione di cittadini e visitatori.

    In che solitudine sembrano recedere i gesti autorevoli di tanto disegno, di tanto design. Nel tempo chiuso che stiamo conoscendo ora, il Solar Tree – la lampada a forma d’albero per la quale un impianto fotovoltaico integrato volge la luce solare in energia –, interpreta una sua mortificata sterilità, una presenza inefficace rispetto alla domanda di salvezza.

    Piazza Gae Aulenti è destituita dalla funzione primaria di assembrare viventi dentro il cerchio delle torri, sotto la lucida tower della Unicredit di César Pelli. Il collasso pandemico rettifica, in una volta sola, interni ed esterni: prosciuga le relazioni non mediate tecnologicamente in cattività domestica e spoglia di esperienza civile le arene che architetti e urbanisti si erano prefissi di trasformare in luoghi comuni. Ne consegue – ed è condizione particolarmente evidente in una città come Milano – una desensibilizzazione delle forme, di quelle forme che erano state pensate per attivare una più acuta percezione della contemporaneità.

    Il silenzio e l’oro

    Esco e guadagno la più nuova delle piazze milanesi, piazza Adriano Olivetti. Mi piace. Mi piace per l’uomo al quale è dedicata, e perché non è ancora diventata nulla, quantunque qui sono previsti gli headquarter di Fastweb. C’è una geometria di arbusti, c’è uno stagno, e poi un locale – anche d’asporto. Ma per ora c’è silenzio. Dominano l’oro e la torre di cemento bianco strutturale di Rem Koolhas che fanno da quinta a nord. Penso, mi immagino che qui si possano fare molte cose. Mi domando: ma che cosa? e quando? Per ora so solo che dobbiamo inventare una nozione nuova di piazza affollata. E infatti mi risponde il silenzio.

    Per ora ha molte più risposte, solo trecento metri più in là, lo Scalo Merci Porta Romana. La rotaia è un dettaglio, e viene dal disegno di travi a T simmetrico dovuto all’ingegnere britannico Charles Vignoles nel 1836. Un disegno perfetto. Migliorano le leghe, e migliora la tenuta, ma il disegno è quello.

    Nei 150.000 metri quadri dello Scalo di Porta Romana, il disegno a T simmetrico ripete, con composta eleganza, la canzone della sua perfetta utilità, che dura da quasi due secoli. Che suoni pure bizzarro, ma la presenza di quell’utilità moltiplicata all’infinito, ora confinata in due binari, attualmente in funzione (li si riconosce dall’alto, lucidi, forti, sicuri, in mezzo allo sfumare di 18 ettari di ruggini), è uno spettacolo che dobbiamo mandare a memoria, comunque vadano le cose.

    Si diceva di insistenze, di persistenze. Si pensi anche al rapporto di Milano con l’acqua. Non solo attraverso la cerchia dei navigli soppressa e di tanto in tanto al centro di progetti che vorrebbero riaprirla (e anche qui il prefisso ri- suona difficile, se non stonato). C’è una faglia sotterranea ricca che assicura un’acqua peraltro potabile e persino gradevole. E quest’acqua che, preziosa, si vede sbavare in ventagli verticali di umidità dall’acquedotto di via Crema, è la stessa erogata dalle 750 fontanelle pubbliche distribuite su tutto il territorio della città (un tempo si chiamavano vedovelle o draghi verdi).

    Sono in ghisa, salvo quella in ottone (disegnata da Luca Beltrami) in piazza della Scala. La ghisa, il ferro, l’acqua. E il disegno. Qui c’è una precisa ricerca simbolica, e non caso le vedovelle sono familiari al cittadino: le fauci d’un drago buttano acqua, poggiano su una piccola vasca per far bere gli animali, e in testa hanno una pigna. Sono memoria di una solidità, di una consuetudine. Sono meno meneghine di quanto vien voglia di pensare. Sono ordine, igiene e conforto. Sono utili.

    Dispositivo simmetrico

    Chissà poi da dove viene, se non da qui, l’ossessione dell’utilità in un uomo come Enzo Mari, un artista che, giovanissimo, pensava che non avrebbe mai potuto concepire la Cappella Sistina ma invece essere, questo sì, “il Michelangelo dei fiammiferi”.

    Ho una vera ossessione per i cestini della raccolta rifiuti. A Milano ne sono apparsi, cilindrici, verdi, appesi ai pali della luce o con supporto autonomo: erano funzionali, hanno cominciato a sparire lasciando spazio a più capaci contenitori plastici che, in quanto più capaci, sono diventati ancora più rari. La civiltà passa di lì, e per sapere che possono rispondere anche a un criterio di bellezza funzionale, basti pensare ai cestini Koro (1977) e In Attesa (1971) di Enzo Mari, gli uni e gli altri in propilene ma i secondi dotati di una sensibile inclinazione destinata a facilitare la raccolta.

    Enzo Mari, Koro

     

    E con Enzo Mari provo a spostarmi negli interni. Esiste una città di interni? Esiste una specificità di interni milanese? Credo proprio di sì. Penso, al di là di appartamenti o case d’abitazione, al capolavoro di Piero Portaluppi, l’Albergo Diurno Venezia, alla elegante ospitalità offerta al viaggiatore, al passante, va da sé in un tempo in cui (siamo fra il 1923 e il 1925) non tutti avevano bagni in casa, e non in tutti gli alberghi si offrivano servizi di livello così alto. Portaluppi pensava a un cliente che aveva mezzi e bisogni commisurati ai mezzi – in un luogo che allora era vicino alla vecchia stazione di Milano.

    La borghesia milanese (ma soprattutto la media e piccola borghesia) è quella sulla quale si esercita la lingua di Carlo Emilio Gadda: da lui conosciamo il gusto approssimativo ma non estraneo alla necessità di esibire la qualità implicita nello stato sociale. Tutto quello che matura nell’infuriare “umorale” della Cognizione del dolore (la prima redazione risale agli anni compresi fra il 1931 e il 1941) sembra trovare un’analoga dinamica esperienziale nel disegno di Portaluppi, dalla sontuosa deriva liberty delle sue dighe al lussureggiare di ceramiche e specchi nel Diurno Venezia, come se avvertissero entrambi, con divertito e discorde esito, il premere di una società ossessionata da una composta opulenza. Scrive Gadda di una passeggiata del medico: “Dai rametti le frasche si dividevano innùmeri, lodevolmente verdi e però piene di giudizio, animate dal proposito di venir d’esempio all’uomo e di letificarne i rinati municipi, con quell’idea d’ordine e di denaro bene speso, ch’era continuamente suggerita dal dispositivo simmetrico”.

    Ordine e denaro bene speso. Non c’è dubbio che l’esprit lombardo, anche quello settecentesco, ramifica in quella doppia parola chiave. Dunque, per chiudere facciamo un passo indietro, ed entriamo in un interno, un interno aristocratico, quello che l’abate Giuseppe Parini si condannò per tutta una vita a rappresentare. Perché Il giorno? Perché Parini? Perché nessuno meglio di lui seppe attardarsi sull’opera utile di un design: le frequentazioni mondane, assidue, animatissime (ah, tempi di epidemie anche quelli, placati dall’innesto del vaiolo celebrato in un’ode dall’abate), avevano bisogno di mobilia conforme alle mode e alla dignità delle famiglie, ma al contempo sensibili all’arte della conversazione e dell’intrigo.

    Una sensibilità che va di pari passo con una automatica (manifatturiale) maturazione di forme, di forme per interni (che, va da sé, sono altro dalle forme istituzionali in cui si dovevano sentire il potere e l’esercizio del potere). Non più troneggiare, non più affondo in scomodi cuscini. In un memorabile passaggio del Vespro, Parini fa entrare nel salotto aristocratico il canapé (Tutte il chiesero a gara: ognuna il volle / ne le stanze più interne), “macchina elegante”, dispensatrice di comode mollezze e di dolci intese.

    Già, il salotto aristocratico: ma le belle il chiesero a gara. Basta poco più di mezzo secolo perché quell’essere voluto da tutte proceda verso un voluto da tutti che si apre a un nuovo teatro civile, a una inedita invenzione di bisogni, connaturata all’avvicendarsi delle nuove classi. La città si apre alla produzione dell’utile bello e il “bel fabbro” del Parini tutto inteso a legare molli cigne e vaghe colonne è già un industre imprenditore che ha davanti a sé il suo secolo, il secolo borghese della produzione e della riproducibilità.

    Le carrozze della Notte del Parini sono inghiottite dal buio e noi torniamo al disegno esatto della rotaia. A quella T che ha retto il peso di quasi due secoli di storia del mondo. Da quella T, così perfetta, alla forma in cui saremo ricordati domani c’è ancora, formicolante dentro “la disfatta intimità dei luoghi”, un ignoto, febbrile silenzio.

    Note