Milano contemporanea e creativa, un dialogo con Davide Giannella

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    Incontro Davide Giannella in due occasioni: un piovoso giovedì di fine novembre e un soleggiato venerdì di dicembre. A Giannella avevo chiesto di scegliere un posto dove trovarci e sederci tranquilli per un paio d’ore. Poi gli avrei domandato il perché. La scelta è caduta su Cucchi, una storica pasticceria milanese, all’incrocio tra via De Amicis e Corso Genova. Sulle vetrine natalizie, fra decorazioni di carta e scatole di cioccolatini, spiccano una scritta e un gioco di parole (forse un po’ sopra le righe per l’atmosfera ancora novecentesca del luogo): Peace & Love & Panettone. Giannella è un curatore indipendente. Ha lavorato per istituzioni come la Triennale e il PAC di Milano. Insieme a Delfino Sisto Legnani e Giovanna Silva ha fondato uno spazio espositivo: MEGA. Tra i rivoli della conversazione non trascritti nell’intervista a seguire, c’è, per esempio, un passaggio sulla morte di Lawrence Wiener, avvenuta il 2 dicembre, artista che Giannella dice di aver molto amato.

    La prima domanda che mi ero segnato è «Tu chi sei?», ma forse è meglio partire da qualcosa di più semplice. Ho letto che sei nato a Sarzana…

    Sì, sono nato a Sarzana e fino ai miei cinque anni ho vissuto in un paese, Castelnuovo Magra. Tutta quell’area, che poi è la Lunigiana, mi affascina molto. Non è Toscana, non è Liguria e non è Emilia Romagna. È un’isola culturale molto particolare e anche l’accento, la parlata, sono molto specifici e risentono della natura transitoria e di confine di quei luoghi. Questo è un fatto che mi affascina e in qualche modo corrisponde all’interesse che nutro per tutto ciò che è liminale e anche alle mie ricerche e interessi come curatore.

    Dopo Castelnuovo Magra ti sei trasferito a Milano, dove sei cresciuto e dove ti sei formato. Che scuole hai fatto da ragazzo?

    Ho fatto il liceo classico, o meglio, più licei classici, avendo avuto una vita scolastica un po’ travagliata. Ho iniziato al Parini, che resta quello che ho frequentato maggiormente. Erano gli anni Novanta. Ricordo che al Parini c’erano ancora il progetto e l’ambizione -direi la velleità- di formare la futura classe dirigente, per cui c’era questo atteggiamento normativo, selettivo, inquisitorio, con il quale io ed altri entravamo in un conflitto molto pesante, non tanto politico, ma proprio umano, esistenziale. Allo stesso tempo, tra molti studenti, resisteva una tradizione contestataria e un tipo di retorica indigeribili, in continuità pressoché totale con quella delle precedenti generazioni, dalla Zanzara (il giornalino scolastico del Parini, che fece scandalo nel 1966 per un’inchiesta sulla sessualità, Ndr) in su, cioè qualcosa di molto lontano da tutto ciò che di nuovo stava emergendo in quel periodo. Penso alla cultura hip-hop, hardcore punk, rave e allo skateboarding. Penso a film come L’odio di Kassovitz e Kids di Larry Clark usciti nel 1995. Per non parlare di centri sociali e case occupate come Pergola, Garigliano o Conchetta, realtà che hanno contribuito alla costruzione di una città più internazionale e contemporanea. Tutte influenze ed esperienze per me folgoranti. 

    Quello che mi racconti mi fa tornare in mente un libro di qualche anno fa, La legge del cane dei Club Dogo, dove la Milano degli anni Novanta è ricostruita piuttosto bene…

    Conosco i Club Dogo, soprattutto Cosimo, Gué Pequeno, che è un mio fraterno amico fin dai tempi del liceo, per l’appunto.

    Gué Pequeno è nato nel ’78, se non erro…

    In realtà Cosimo è dell’80, 25 dicembre 1980, mentre io sono nato il 29 febbraio 1980.  Date bizzarre…

    In quel libro, La legge del cane, c’è una ricostruzione interessante di Milano. Era una città ancora divisa in tante cosiddette «tribù giovanili». Tu in che tribù stavi?

    Io ero piuttosto trasversale. Avevo amici un po’ in tutti gli ambienti e in tutte le piazze. Esistevano ancora differenze tra i vari gruppi, soprattutto di carattere estetico, però credo siano anche stati anni di grande mescolanza tra scene e culture che fino al decennio prima erano molto distinte. Una cultura che ho frequentato con interesse è stata quella del writing, anche se non sono mai stato un writer. Seguivo chi usciva a ‘’dipingere’’ e a un certo punto, grazie all’acquisto di un handycam usata, ho iniziato riprenderli. Erano delle sorte di videoclip, sul modello di quelli realizzati dai brand di skateboard. È stata per me una prima -e inconsapevole- esperienza curatoriale. Era un tentativo di raccontare e restituire il mondo del writing, rendendo appetibile a un pubblico più ampio anche una serie di gesti e azioni ‘’sotterranee’’ e non propriamente legali… Bisogna dire che al di là della spensieratezza e dello slancio giovanile, ai tempi c’erano meno controlli rispetto a oggi. Io credo che fino al 2001 il mondo sia stato una cosa e che poi sia cambiato tutto.

    In che senso?

    Mmmhh… è un discorso lungo… diciamo che una delle prime conseguenze dell’11\9 è stato l’aumento di controlli sul territorio e sugli individui. In secondo luogo il 2001 è stato l’anno di Genova e della fine dei movimenti su larga scala. Molti interessi e attività sono passati dal piano fisico a quello digitale. Ma il 2001 è un turning point in termini ancora più ampi. Il moderno, inteso come sistema di pensiero, si basava su un andamento lineare e progressivo su di un piano ortogonale, poi c’è stato appunto il 9/11, l’accelerazione tecnologica, la guerra al terrorismo globale, la scomparsa delle ideologie e delle ‘’grandi narrazioni’’. Così la scala progressiva, cronologica e lineare del mondo, quella moderna e postmoderna, è saltata ed è stata sostituita da una dimensione totalmente trasversale e da un moto circolare. Insomma, dalla modernità e dalla postmodernità, siamo approdati a una altermodernità, com’è stata definita da un critico come Nicolas Bourriaud. Prendi YouTube. Su YouTube trovi Mina e Nicky Minaj, il tizio che fa da mangiare la carbonara in America e Michel Foucault in una conferenza del 1969, tutti incolonnati fra i video suggeriti, tutto mescolato insieme, tutto sostanzialmente sullo stesso piano e confinato nel tuo desktop. È il regno del «vale todo». Ecco, la sostanziale equiparazione di tutto un po’ mi spaventa. Anche tanta gente della nostra età ha già perso la capacità di distinguere tra una cosa e l’altra e quindi di trovare relazioni di senso. Inevitabilmente sono molto cambiati anche gli spazi urbani e il modo in cui gli spazi urbani vengono vissuti.

    Che cosa ti viene in mente se dico «spazio pubblico»…

    Tante cose diverse. Da una parte mi sembra che lo spazio pubblico sia una dimensione verso la quale le istituzioni hanno ripreso a guardare con interesse. Altrettanto assistiamo a una nuova presa di coscienza rispetto allo spazio pubblico. Mi riferisco ai diversi movimenti che hanno rimesso in discussione certe pratiche, per esempio con il discorso delle statue, dei monumenti, che negli Stati Uniti è stato sollevato da Black Lives Matter e qui a Milano dai movimenti femministi, nel caso della statua a Indro Montanelli. È un tema interessante. Per quanto sia d’accordo con la contestazione dei valori che quelle statue possono veicolare, sono piuttosto contrario alla loro rimozione secca. Esattamente come accade in termini psicoanalitici, rimuovere senza elaborare è un processo pericoloso, perché rischia di creare i presupposti per dei rigurgiti o creare empatia verso ciò che si vorrebbe eliminare. Sarebbe interessante trovare dei luoghi dove custodire le statue che rimandano a simboli o a valori che non sono più accettabili. Sarebbe bello poi immaginare dei monumenti transitori: un’opera all’anno in ogni quartiere, che viene poi raccolta in una collezione civica e sostituita da un’opera nuova. A Milano ci sono già bellissimi esempi di arte pubblica. Penso a Daily Desiderio, il lavoro di Riccardo Benassi a City Life (si tratta di un display collocato sulla sommità di una struttura in alluminio, prospiciente una panchina, dove ogni giorno scorre una frase nuova, che l’artista sceglie e continuerà a scegliere ogni giorno della sua vita, Ndr). Ma pure l’ago e il filo di Claes Oldenburg in piazzale Cadorna, che quando fu inaugurato suscitò molto scalpore. O l’installazione neon realizzata recentemente da Patrick Tuttofuoco, dietro la basilica in piazza Vetra. Un intervento realizzato nel contesto di un nuovo condominio, quindi in uno spazio privato. Tuttavia, dal momento che il neon è visibile da tutti, l’opera incrocia gli sguardi pubblici. In questo caso la scelta di un privato arricchisce lo spazio pubblico, ma al tempo stesso s’impone sullo spazio pubblico. Mi sembra un nodo molto interessante.

    Milano oggi ti sembra più accogliente?

    Sì, certo, ci sono più servizi e più attenzione agli spazi comuni. Parco Sempione, per esempio, oggi è magari un luogo più ordinato e normato, ma più piacevole. Non è più una valvola di sfogo sociale – o come si sarebbe detto negli anni Novanta, una TAZ- ma un luogo più inclusivo. Un tempo Parco Sempione era una landa polverosa di giorno e invasa dai topi di notte. 

    Anche tu rattofobico?

    Sì, infatti quando facevo i video nei tunnel con i writers, per me spesso era un incubo.

    Quali sono invece, a tuo avviso, le esperienze sociali più interessanti in città in questo momento? 

    C’è una cosa che ho scoperto negli ultimi tempi e che sto seguendo. Sono delle competizioni di voguing che si ripetono ogni mercoledì sera dietro la chiesa del Lazzaretto, in Porta Venezia. Mi ha rincuorato scoprire questa realtà, perché lì c’è della gente che va per strada in modo totalmente indipendente, senza chiedere il permesso e senza creare economie intorno a ciò che fa. Al contrario, si sta costruendo una comunità intorno alla danza, alla musica, alla moda, al costume e alla cultura queer e lgbt. Almeno, questo è quanto ho percepito e vorrei indagare ulteriormente.

    E qui c’è un segno di contemporaneità, a tuo avviso?

    Certo. C’è anche un elemento che negli ultimi anni mi pareva fosse scomparso, forse anche a causa dell’abuso di contenuti digitali gratuiti, fruiti in grandi quantità ma poco approfonditi o assimilati. Parlo del piacere della competizione. Mi viene in mente una scena de La stanza del figlio di Nanni Moretti. Moretti e il figlio giocano a tennis. Il padre vuole vincere e al figlio invece non interessa. Io credo che la competizione, soprattutto nel gioco, sia un valore, un fatto sano, che aiuta a migliorarsi e spinge ad andare oltre la superficie e l’esperienza casuale.  Anche nel caso di queste gare di voguing, c’è chi vince o chi perde, naturalmente in una dimensione ludica. L’aspetto della competizione fa sì che queste persone si preparino e magari si studino una sfilata di Prada su YouTube. L’esibizione, quindi, non è un fatto puramente liberatorio o istintuale, non è una pagliacciata fatta con sciatteria, ma è un momento artistico vero e proprio, giocato in presenza, non ripetibile e partecipato. Produce un valore concreto.

    In Piazza Vetra nel 2016 hai fondato uno spazio espositivo, MEGA…    

    Sì, l’ho fondato insieme a due amici: Delfino Sisto Lignani, che è un fotografo, e Giovanna Silva, editrice e fotografa. Poi al gruppo si è aggiunta Joel Valabrega, che ora si trova in Lussemburgo.

    15 metri quadri…

    Beh, piccolo ma dalle ampie prospettive (ride, Ndr). MEGA nasce con l’obiettivo di offrire agli artisti la possibilità di uscire dalla propria comfort zone linguistica ed espressiva. Questa scelta risponde anche alla volontà di non appiattirci sul modello della galleria commerciale. Sia chiaro, ho un enorme rispetto per il lavoro svolto dalle gallerie, ma è evidente che funzionano con altre dinamiche e parametri. MEGA è nato con l’intenzione di produrre contenuti in maniera più spontanea e immediata. E poi c’è un certo piacere nel poter fare ancora cose ‘’sbagliate’’ o quantomeno non sicure. Forse è anche un tentativo di reazione a un certo conservatorismo del mondo dell’arte, laddove invece occorrerebbe sempre sperimentare e mettere in discussione. Faccio qualche esempio, tra i tanti possibili, dei progetti realizzati a MEGA. Nel caso di un’artista di lungo corso come Gianni Pettena – che ha praticamente sondato ogni chiave espressiva e che quindi non era facile portare fuori da una zona di comfort – abbiamo pensato di cercare nel suo archivio fra i lavori che per un motivo o l’altro non erano mai stati esposti o erano stati scartati, quindi ne abbiamo scelto uno e abbiamo deciso di portarlo a MEGA. In questo caso si trattava di una installazione performativa, che consisteva in un grande drappo calato dall’alto, oltre il quale era seduto Gianni Pettena e sul quale era scritto «Spazio riservato a Gianni Pettena». Nel caso di Patrick Tuttofuoco, invece, abbiamo invitato Patrick ad approcciare il disegno, cosa che, da scultore, non faceva abitualmente. Patrick poi lo ha fatto a modo suo, usando l’aerografo e i colori fluo che adotta nelle sculture, per realizzare dei ritratti dello scrittore David Foster Wallace. Un fotografo come Ramak Fazel, invece, che per una quindicina di anni è stato il principale testimone del design italiano, è diventato a sua volta designer, trasformando MEGA in una vera e propria falegnameria per la produzione di uno sgabello. In questo momento invece c’è una vetrofania di Costanza Candeloro. Si tratta di un’opera nata da una collaborazione con la collezione Ramo. La vetrofania infatti prende spunto da un disegno di Dadamaino del 1979 custodito nella collezione. Ogni volta che curiamo un progetto produciamo anche una piccola pubblicazione. Non facciamo in nessun modo mercato, anzi, spendiamo di tasca nostra. Credo che sia importante, da un lato per non aver nessun tipo di restrizione nello sviluppo dei progetti e dall’altra per non fare concorrenza sleale al sistema delle gallerie, che si fanno carico di ben altre responsabilità.

    Tra le altre cose, hai insegnato alla NABA. Dove porteresti i tuoi studenti a fare una passeggiata e parlargli del legame tra il contemporaneo e Milano?

    Credo che li porterei sulle chiuse del Naviglio, perché la contemporaneità di Milano parte da lì, dalla sua apertura all’esterno, ai flussi, che anche simbolicamente sorgono in quella porzione di città.

    Era anche la tesi di Primo Moroni, in effetti. Ma secondo te perché ancora così tanta gente si sposta per venire a studiare e lavorare in questa città?

    Perché credo resti la città più aperta, la più disposta ad accettare, ad accogliere, e anche la più disposta a cambiare. Non conosco bene Roma o Firenze ma ho la sensazione che – fatta eccezione di operatori locali coraggiosi e di grande visione –  siano città in cui il peso della storia è tale da inibire il cambiamento. Milano cambia continuamente e forse può farlo anche perché in fondo è una città non troppo grande. Le persone si trasferiscono in cerca di una possibilità, più che della contemporaneità. Quella arriva dopo, come conseguenza. A Milano vive e abita una grande classe desiderante. Qui apro una parentesi: la classe creativa. La classe creativa spesso, proprio a partire da questo aggettivo, si autorappresenta come qualcosa di etereo, sfuggente, quando in realtà è una delle maggiori forze produttive della città.

    Che rapporto hai con gli studenti e che cosa hai imparato, insegnando, da chi ha vent’anni meno di te?

    Credo di avere un buon rapporto, basato sulla curiosità che nutro sempre nei confronti di chi appartiene a generazioni differenti. Vale sia per le giovani, che per le vecchie generazioni. Poi sai, insegnare permette di fare mente locale sui propri interessi e il proprio lavoro. Si è costretti a un esercizio di riordino mentale molto utile. Credo che i ventenni di oggi stiano lentamente tornando ad appassionarsi alla vita e alle esperienze reali e che su Instagram ci siano più quarantenni che ventenni. Una cosa bizzarra, tutta da indagare, è che mi pare che molte ragazze e ragazzi abbiano nostalgia per qualcosa che non hanno mai vissuto.

    Qualche settimana fa ricorrevano cinquant’anni dalla morte di Luciano Bianciardi. Esistono ancora quel disincanto e senso di frustrazione che Luciano Bianciardi ha raccontato a proposito del lavoro culturale a Milano negli anni del boom?

    Non saprei. Paradossalmente, direi che oggi esiste ancora più incanto. Mi pare che soprattutto nel ‘’lavoro culturale’’ ci siano sempre meno certezze e tutele. Va da sè che quindi è un mondo che proprio di desiderio e incanto si nutre ed è su quello che forse riesce a stare ancora in piedi. Poi si potrebbe parlare di reale sostenibilità di questo sistema, ma sarebbe forse fuori tema rispetto alla tua domanda.

    Bianciardi voleva far esplodere la Torre Galfa. Tu che cosa vorresti far esplodere?

    Credo di sentirmi costruttivo in questo momento. O forse non trovo dei simboli del ‘’male’’ tanto forti, evidenti e riconoscibili da dover essere abbattuti. Per Bianciardi poteva essere più semplice individuare un bersaglio. Ora credo sia necessario uno sguardo più sottile, meno immediato nel giudizio di una realtà complessa.

    So che qualche anno fa organizzavi delle cene intitolate a Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee. È perché ti piacciono i serial killer?

    No, direi di no, però m’interessa molto il cannibalismo da un punto di vista concettuale, come idea di cibarsi l’uno dell’altro, magari in un periodo di carestia culturale. Preparare le cene insieme agli artisti mi ha permesso di approcciarli su un piano differente, quindi di arrivare a ragionare con loro in modo diverso, meno funzionale. Questa cosa mi ha consentito di comprendere attitudine e gusti di un’artista, quindi di intenderne meglio il lavoro. Il cibo è un buon passpartout per entrare in relazione. Mi piacerebbe fare un libro su quella esperienza. Devo dire che oggi non mi pare di vivere in un momento di carestia culturale, ma in una fase positiva, a Milano e in generale. Ci sono molte energie che convergono sia sul piano indipendente che su quello istituzionale. 

    Curare una mostra e cucinare: c’è qualche relazione?

    Credo di sì. Anche scrivere un libro o fare un disco sono gesti non così lontani dal preparare una cena. In ciascuno di questi casi stai parlando a qualcuno, hai a che fare con qualcuno. C’è un pensiero a monte e un’intenzione di condivisione con gli altri. 

    Qual è il cibo più strano che hai mai mangiato?

    Non credo esistano cibi strani. Ogni cibo è connesso a un sistema culturale. Non ho mai mangiato le cavallette, per esempio, ma pure la cavalletta, nei paesi in cui è mangiata, è parte di un contesto e di una quotidianità. Questa settimana, non potendo masticare bene per via di un intervento subito ai denti, mi sono trovato a frullare dei pezzi di pollo bollito e di verdura. È venuta fuori una mistura molto stramba, grigiastra e un po’ angosciante. Il gusto non era male, ma bevendo a tazze, velocemente, non era un mangiare vero e proprio, ma più un alimentarsi. Ecco, quello mi è sembrato un cibo strano, perché non aveva nessi nè con una cultura, nè con il piacere, nè con la condivisione.

    Che rapporto hai con gli animali? 

    Non sono mai stato particolarmente sensibile alle vicende animali, però ultimamente ho un po’ riconsiderato questo mio atteggiamento. Non ho mai trovato plausibili i maltrattamenti, ovviamente, però, forse a causa di un retaggio dell’infanzia campagnola, mi viene da pensare al cane, per esempio, più nella sua funzione pratica che in quella affettiva. Di fatto anche il ruolo affettivo diviene funzionale in un contesto domestico urbano. Se ci pensi gli animali sono sempre stati considerati o delle creature divine o degli strumenti. Solo dal dopoguerra la dimensione affettiva è diventata preponderante. Devo comunque riconoscere che l’osservazione degli animali e del nostro rapporto con gli animali innesca molte utili riflessioni sul legame tra natura e cultura e in generale sul tema della salvaguardia ambientale. La natura è a suo modo spietata e credo che solo la cultura può porsi il compito di salvare gli animali, il pianeta e gli essere umani. 

    Che libri stai leggendo?

    Milano fine Novecento, di Alberto Saibene, che mi è sembrato un libro molto affettuoso nei confronti della città e di alcune figure del paesaggio culturale milanese, e il pamphlet di Walter Siti, Contro l’impegno. Mi preoccupa molto che anche nel mio mondo, quello dell’arte, il lavoro di un’artista venga ritenuto buono solo se è anche giusto moralmente. Non è una questione che riguarda il cosiddetto politicamente corretto, penso però che il ruolo dell’arte contemporanea sia quello di suggestionare e di indirizzare verso orizzonti nuovi, anche quando sono discutibili. Occorre generare dubbi, domande, offrire visioni ‘’altre’’, più che rassicurare, spiegare o confermare certezze. Poi se un lavoro è efficace, lo è in assoluto, qualsiasi cosa dica.

    Qualche giorno fa ho ascoltato l’ultimo episodio del podcast «La città dei vivi», dove si racconta dell’omicidio Varani e si parla moltissimo di Roma. In questo episodio finale ci sono un sacco di persone che raccontano di incontri assurdi o epifanie vissute per strada a Roma. Tu ce l’hai una epifania milanese da raccontare? 

    Temo di no, e non ti nascondo che a tratti mi manca un’epifania. Anche solo per vedere cosa potrebbe generare.

    Nella mail che ti avevo spedito per questo incontro ti avevo chiesto di scegliere tu il posto dove vederci e poi di raccontarmi perché. Come mai, quindi, siamo seduti qui, da Cucchi, in questa vecchia pasticceria con camerieri in camicia bianca e cravatta scura?

    Un po’ perché è vicino a casa e un po’ perché è una specie di estensione dello spazio di lavoro. È un luogo aperto, pieno di relazioni, che nutrono il lavoro, ma senza che ci sia una funzionalità o un’utilità immediata negli incontri che fai, solo continue occasioni, spunti, deviazioni… A seconda degli orari ci sono frequentazioni differenti: al mattino le mamme che hanno da poco portato i figli a scuola, poi i clienti dell’orario di pranzo e nel pomeriggio gli appuntamenti di lavoro e gli incontri galanti tra anziani ingegneri e vedove eleganti. In mezzo qualche turista. Poi arriva il momento dell’aperitivo e tutto questo movimento, questa continuità di vita e lavoro, prosegue in altre forme. Insomma, credo sia la storia di tanti caffè, specie quelli con una lunga vita alle spalle. Peccato per le decorazioni di vetrine e tavoli in questi giorni.

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