Coworking come nuovo laboratorio dell’innovazione?

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    A fine 2014 in Italia erano mappati oltre 250 spazi di coworking e il conteggio è probabilmente al ribasso poiché frutto di una autosegnalazione da parte dei gestori stessi. Il fenomeno nato dieci anni fa, dal 2012 cresce a livello globale al ritmo del 100% annuo. Malgrado la velocità e la dimensione il coworking è finora rimasto pressochè ignorato dal mondo accademico e della ricerca, mentre è analizzato all’interno di comunità di pratiche e di progetto (conferenze, piattaforme online, meeting).

    Con il paper Performatività del welfare? Un’analisi delle pratiche e dei discorsi dei Coworking Plus (CO+), presentato in occasione del IX Colloquio Scientifico sull’Impresa Sociale tenutosi a Reggio Calabria dal 22 al 23 maggio 2015, ho inteso avviare un’attività di ricerca che identifichi nel lavoro negli spazi di coworking una tendenza dell’organizzazione della produzione nel capitalismo cognitivo e relazionale.

    In questo quadro i temi della coproduzione e dell’innovazione (gli stessi che producono e sono prodotti nell’ambito del discorso del coworking) vengono ri-articolati nel senso della partecipazione dei cittadini alla produzione e alla distribuzione dei servizi di interesse generale. La partecipazione, per essere concreta, richiede però presenza, interazioni e competenze: tutti elementi che ci riportano ai temi della collaborazione e delle occasioni di scambio del sapere tacito in senso culturale e sociale oltre che tecnico. La dimensione della comunità, allora, non è più un’esternalità positiva del processo di produzione e distribuzione del valore generato, ma diviene un fattore abilitante cioè che innesca e alimenta la produzione del valore.

    La proposta di inserire tra le forme di imprenditorialità sociale i coworking (Venturi & Zandonai, 2014) trova qui un fondamento che supera l’evidenza e la rilevanza empirica, che pure ci sono, e traccia una coerenza operativa tra le dimensioni della localizzazione, della relazionalità e dell’organizzazione del lavoro nello spazio dei processi di innovazione sociale e culturale. Se la piattaforma è l’infrastruttura tecnologica, il peer to peer quella relazionale (sociale), i free-lancer quella materiale, il coworking è una delle infrastrutture organizzative della sharing economy .

    I coworking diventano allora una risposta al lavoro che cambia e al crescente bisogno di luoghi di contaminazione e creazione (creatività), ricordando molto le comunità creative e ancora di più le organizzazioni collaborative di cui Ezio Manzini ha parlato in occasione del Festival delle Comunità del cambiamento di Bologna.

    In questo scenario il coworking diventa una sorta di incubatore di iniziative imprenditoriali e  “un centro di aggregazione che attira o entra nell’orbita di attività sociali diverse”. Non a caso, sono decine gli esempi che solo in Italia possiamo fare di laboratori “per la progettazione e la realizzazione di attività sociali e culturali che coinvolgono associazioni, cittadini, operatori artistici e culturali” (Symbola, 2014).

    Nel sistema di produzione contemporaneo la produzione di conoscenza trae beneficio da forme di collaborazione e condivisione, conducendoci in una nuova fase che potremmo definire di capitalismo relazionale. Gli spazi di coworking (con i fablab e gli incubatori, per citare gli altri più famosi) per la loro istitutiva essenza di spazi collaborativi diventano i luoghi privilegiati di questo nuovo modo di produrre valore.

    Non basta più la tradizionale definizione dei coworking come spazi dove professionisti, imprenditori e altre tipologie di lavoratori condividono alcune risorse (tipicamente spaziali, fisiche e strumentali) e sono aperti a condividere la loro conoscenza con il resto della comunità e che per incoraggiare e animare la collaborazione tra i loro frequentatori sviluppano specifici modelli di gestione (Moriset, 2013).

    Negli ultimi anni iniziamo ad assistere alla nascita o alla riprogettazione di spazi di coworking che superano l’approccio fisico e riescono ad incorporare l’attivazione di spazi condivisi di lavoro nei processi di produzione aziendale. Si tratta di quelle esperienze che propongo di chiamare coworking plus (Co+) [mentre approfondivo il lavoro di ricerca e iniziavo a lavorare alla definizione di questa nuova tipologia di coworking, mi sono imbattuto nel padovano CO+ e studiandone gli obiettivi e conoscendone i protagonisti mi sono convinto che nel loro nome avessero perfettamente riassunto l’essenza della tipologia organizzativa che stavo indagando]  e che si caratterizzano come una particolare fattispecie di coworking il cui core-business è contenuto nel plus variabile (servizi di incubazione, agricoltura, servizi alla famiglia, produzione culturale, etc) e nei quali l’affitto di spazi di lavoro è strumentale a generare una rete di relazioni P2P a supporto di un core-business che spesso interviene in settori a basso rendimento marginale e che faticano a reggere sul mercato in assenza di una contribuzione pubblica che oggi sta via via scomparendo e che cercano nel P2P nuove forme di produzione del valore.

    Ad esempio, il milanese Barra A non è un ramo d’azienda di Avanzi e tantomeno un corpo estraneo rispetto a Make a Cube. È piuttosto una serra all’interno della quale far germogliare professionalità e progetti imprenditoriali che possono poi trovare negli altri due ambienti ulteriori forme di supporto e scambio. Se la missione di Piano C (ancora Milano) è quella di far incontrare donne e lavoro, il coworking è inserito in una filiera più ampia di servizi che vanno dall’orientamento, alla formazione passando per il Cobaby.

    O ancora, il fiorentino Multiverso è esplicito nell’indicare il coworking come luogo fisico e virtuale per rafforzare il posizionamento sul mercato (interno ed esterno) del circuito di lavoro (i coworkers). La Faber Academy Box di Itaca (Pordenone) attiva il coworking nell’ambito di un processo più ampio di re-branding aziendale che si è trasformato in un processo di rigenerazione aziendale. Il Coworking Family Friendly di Lab Altobello (Venezia) aggrega l’offerta di servizi di conciliazione per sviluppare nuove forme di welfare familiare e aziendale. Il luogo condiviso di vita (coliving) e di lavoro (coworking) di Rural Hub è lo strumento per interconnettere ricercatori, attivisti, studiosi e manager interessati al mondo delle nuove imprese rurali.

    In tutte queste esperienze la sostenibilità del coworking è rintracciabile nello sviluppo di core business differenti (+) dal co(working), ma ciò non avviene in modo separato ed esclusivamente funzionale alla sostenibilità del Co, anzi Co e + si integrano e sostengono reciprocamente mediante interazioni bidirezionali continue: le interazioni sviluppate nel Co alimentano e sostengono il +, favorendo la diversificazione della produzione e l’aumento della qualità del prodotto; al tempo stesso il + non solo sostiene economicamente il Co ma ne alimenta i frequentatori e soprattutto i processi di comunità. Si crea così un circolo virtuoso che rende indissolubilmente intrecciate le due dimensioni, per questo Co+.

    Questi approcci al coworking non rappresentano solo una variante della forma originaria, piuttosto presentano una particolare fattispecie di organizzazione della produzione che offre una serie di potenziali vantaggi competitivi.

    Nel Co+ l’incorporazione del coworking nella filiera aziendale determina l’incorporazione della dimensione comunitaria nella produzione stessa. I coworking diventano spazi di lavoro comune che si propongono di generare conoscenza organizzata e di qualità e nei quali i coworkers hanno libero ‘accesso’ e producono un apprendimento continuo e consapevole.

    Tale azione è finalizzata a favorire le possibilità di introdurre cambiamenti nelle modalità di produzione per perseguire un obiettivo comune a due o più membri della comunità. Comunità di pratica (Wenger & McDermott & Synder, 2002), comunità di azione (Zacklad, 2003; Pemberton-Billing & Cooper & Wootton & North, 2003) e comunità d’intenti (Wenger, 1995; Cigognini & Barella & Švab, 2005) si fondono originando comunità di progetto nelle quali una pluralità di attori collaborano (condivisione dei mezzi) e cooperano (condivisione dei mezzi insieme ai fini) per trovare soluzioni alla multiproblematicità del contesto nel quale operano.

    Nei Co+, anche alla luce del fatto che sono simultaneamente ‘abitati’ da operatori e da professionisti inseriti in una filiera aziendale organizzata, il sapere esplicito e quello tacito si confrontano continuamente nell’esperienza del fare, nel valore della pratica. Gli spazi di Co+ diventano il luogo nel quale affrontare i problemi della produzione complessiva.

    In un certo senso, i Co+ ricordano contemporaneamente gli “scaffali della tecnologia” della Motorola e la “discussione continua” di Nokia (Sennet, 2008). I coworkers, in virtù del loro approccio collaborativo, sono essi stessi possibili soluzioni nelle quali imbattersi attraverso un processo di comunicazione fluido, dipendente dal contesto e indeterminato (Lester & Piore, 2004).

    Un’organizzazione aziendale rigida che affrontasse il problema dividendolo in parti e affidandone per ciascuna la soluzione ad un diverso ‘ufficio’ opererebbe di certo con maggiore linearità e disciplina ma per ottenere il medesimo risultato dovrebbe contrastare la competizione tra i vari uffici. Il ricorso alla condivisione e alla collaborazione porta a “quell’intimo e fluido nesso tra soluzione dei problemi e individuazione dei problemi che (per Sennet) è il segno esperienziale della maestria tecnica”.

    Nel costruire in modo collaborativo questa abilità artigiana fondata sulla condivisione di conoscenza, però, i coworkers dei Co+ non si limitano a sviluppare l’abilità tecnica necessaria al ben-fare, sviluppano anche la capacità di organizzare più fattori dell’attività stessa: almeno gli altri coworkers (i loro saperi e le loro abilità) e le altri parti della filiera.

    Al tempo stesso, nei Co+, la scelta di affidare al coworking le tradizionali funzioni della divisione ricerca e sviluppo dell’impresa fordista implica di assegnare ai coworkers la missione di risolvere i ‘problemi’ della produzione attraverso soluzioni incerte fondate su un elevato tasso di creatività.

    Nei coworkers dei Co+, allora, oltre alle caratteristiche tipiche del professionismo (abilità tecniche) possiamo rintracciare le caratteristiche che fin dal 1730 sono state identificate da Richard Cantillon come doti imprenditoriali: innovatività o creatività (soluzioni differenti), propensione al rischio (risultati incerti) e ars combinatoria (connessione dei fattori). Ciò significa che l’impresa nel suo insieme attraverso il Co+ incorpora non solo la tradizionale compagine imprenditoriale e sociale ma pure una notevole quantità di collaboratori (coworkers sganciati dai tradizionali vincoli di subordinazione) con spiccate attitudini e abilità imprenditoriali. L’impresa in questo modo riesce a “catturare” il valore della produzione cognitiva dei coworkers senza instaurare una relazione dipendente.

    Questo filone di analisi, che tratta il coworking come tendenza dell’organizzazione del lavoro, ci può aiutare a “scrostare” alcune retoriche, a svelare e far emergere una delle strutture di fondo del lavoro relazionale, ovvero la dialettica continua tra il potenziale di realizzazione personale (già ampiamente celebrato dallo storytelling sul coworking) e il dispositivo di cattura del valore cognitivo prodotto (accentuato dalla collocazione del coworking in ambito aziendale).

    Non si tratta di attribuire al Coworking Plus la prevalenza dell’una o dell’altra, quanto piuttosto di riconoscerlo come spazio di massimo inveramento di quella contraddittoria struttura che caratterizza le fasi di grande trasformazione in cui le comunità creative si tramutano in organizzazioni collaborative e generano processi di innovazione sociale e culturale, cioè quello spazio in cui oggi operano i lavoratori cognitivi del terziario avanzato, del welfare e della produzione culturale.

    Note