Oggi la cultura è incapace di produrre: smettiamola di vendere e iniziamo a pensare

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    I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.


    Tra le tante cose affascinanti che Romeo Castellucci ha detto in una intervista per Repubblica (firmata da Anna Bandettini lo scorso 16 gennaio) ce ne sono almeno un paio su cui vale la pena tornare.

    Il famoso regista, ormai noto e amato in tutta Europa, era “straordinariamente” in Italia per presentare a Bologna “La vita nuova”, sua recente creazione, nell’ambito della stagione di Ert-Emilia Romagna Teatro.

    Si ricorderà: Castellucci, con la sorella Claudia e Chiara Guidi diede vita alla Socìetas Raffaello Sanzio, straordinario ensemble che ha segnato la pratica teatrale dalla fine degli anni Ottanta ed e ancora tra i vertici della innovazione scenica internazionale.

    E Romeo, che si muove agilmente tra produzioni liriche e teatrali a Parigi o in Germania, in Giappone o al prossimo Festival di Salisburgo, è paradossalmente poco visibile in Italia. Lo fa notare anche Anna Bandettini, chiedendogliene ragione. Ed è utile, qui, riportare la risposta di Romeo Castellucci: «Forse non è una domanda per me. Io vedo solo che la capacità produttiva qui, rispetto ad anni fa, è ridotta al lumicino. E non per i mezzi economici: parlo di filosofia di creazione, tempi di prove, scelta dei titoli. Opera e teatro sono sparite dal dibattito culturale ma all’estero le terze pagine dei giornali sono occupate da musica e prosa. Il degrado è iniziato trenta anni fa: cultura è diventata una parola ingombrante. Per le destre è una cosa elitaria, ma è una scusa politica per colpire la libertà di espressione. Eppure in Austria, ad esempio, la destra non è così».

    Ci sono molti spunti di riflessione che scaturiscono da questa affermazione. Andiamo a vedere e proviamo a capire.

    Il primo riferimento che ci arrovella: la capacità produttiva. È vero, intanto dal punto di vista economico, che la scena italiana (compresa la lirica!) è una scena tendenzialmente povera, sempre più povera.

    Il Fus, il Fondo unico dello Spettacolo, è una catena sempre troppo stretta. Consente (ai più) di vivere o sopravvivere, ma mai o quasi di investire, di programmare a lungo termine – anche oltre il triennio in cui è scandita la progettualità nazionale.

    Una battaglia di civiltà, tanto più in epoca di crisi, e in una stagione in cui, secondo l’indagine Eurispes, il 15% degli italiani nega la Shoah, potrebbe essere quella di raddoppiare, o aumentare, il finanziamento pubblico allo spettacolo dal vivo e alla cultura.

    L’investimento culturale deve essere – per un vecchio socialista come chi vi scrive – pubblico, e il teatro in particolare, questa arte che è nata assieme alla Democrazia, deve essere un fatto e un bene pubblico.

    Il teatro deve essere solo per chi se lo può permettere?

    È un’utopia? Non lo era per Grassi e Strehler quando fondarono il Piccolo Teatro, cercando quel “teatro d’arte per tutti” che oggi sembra svanire sempre più, a favore di selezioni per “censo”, all’insegna dell’”esclusività”, della possibilità culturale e economica di accedere alle sale teatrali. Il teatro deve essere solo per chi se lo può permettere? Lasciamo aperta la questione e torniamo a Castellucci, secondo il quale il problema non è solo economico.

    Viviamo un’epoca di “managerialità” che certo ha fatto e fa bene alle gestioni degli enti pubblici lirici o di prosa, ma che ha reso, o rischia di rendere, sempre più asfittica la “filosofia della creazione”, la “scelta dei titoli”. È una tendenza facilmente riscontrabile: anche tra artisti non si parla più, o sempre meno, che so, della “scena della tempesta del Lear”, ma si parla tanto del bando dell’assessorato di turno. Il “Bando”, la politica del bando, ha favorito l’amministrazione, ma ha ammazzato la poesia.

    Anche i giovani artisti – gli ormai famigerati under 35 – sono diventati consustanziali alla pratica dell’application e del bando: vivono l’illusione del sostegno statale nella breve paretesi di una crescita limitata. La gioventù, e dunque l’investimento, finisce a 35 anni. Poi, puoi pure “schiattà”.

    Anche tra artisti non si parla più, che so, della “scena della tempesta del Lear”, ma si parla tanto del bando dell’assessorato di turno

    Dove è dunque la filosofia della creazione a fronte dei vincoli imposti da amministratori e manager? Solo nel botteghino? Nelle alzate di sipario? Va da sé: ci sono manager e assessori illuminati, che riescono meravigliosamente a fare le famose nozze con gli altrettanto famosi fichi secchi. Ma per il resto, è burocrazia, è routine, è svendita della creazione teatrale al “volto noto”, alla commercializzazione a tutti i costi. Anche per questo, l’infinito patrimonio culturale del passato, quell’archivio immenso di titoli – tragedie, drammi, commedie – si riduce velocemente: la scelta va sempre ai testi “di richiamo”, che si possono “vendere bene”.

    Di massima, ci confrontiamo con i soliti cinque drammi di Shakespeare, tutto Cechov, due o tre tragedie, un paio di “novità”, magari inglesi, morbosamente piccanti e poco altro: e il resto? Come reagire a questo appiattimento? Si può ancora reagire?

    «Il degrado è iniziato trenta anni fa – dice Castellucci – cultura è diventata una parola ingombrante». Già.

    Lo vediamo, lo viviamo: nella semplificazione violenta del pensiero, della dialettica ridotta a urlo, dell’ascolto diventato insulto, il teatro è ai margini. Forse per questo si salva: nel suo essere povero e di (ampia) nicchia è la sua forza. Però, l’impoverimento culturale di questo paese è disarmante.

    Dove è dunque la filosofia della creazione a fronte dei vincoli imposti da amministratori e manager? Solo nel botteghino? Nelle alzate di sipario?

    Fenomeni di comunicazione e di intrattenimento politico come Matteo Salvini e la Lega, squadrismo violento e ottuso come quello di Casa Pound, superficialità di visione e di gestione culturale come quella di tanti rappresentati del Movimento 5 Stelle, commercializzazione e eventi del centrodestra sono i preoccupanti “successi” di quel degrado cui fa riferimento Castellucci. Se la prospettiva “culturale” è stata, ed è, quella di diffondere la miseria cognitiva, l’analfabetismo di ritorno, di promuovere insomma il pensiero semplificato a fronte della “pedanteria” del pensiero critico, allora gli esiti sono conclamati.

    Eppure, il teatro può ancora, o potrebbe essere, un anticorpo, uno spazio e un tempo di democrazia discorsiva, di riqualificazione umana e urbana. Il momento adatto per rimettere al centro del dibattito la “libertà di espressione” oggi sempre più minacciata da censure di varia natura e autocensure di derivazione economica. Chi rischia più? Chi parla più? Si tratta, insomma, di assumer(ci) la responsabilità, ancora e sempre: di non abdicare alla “Cultura oppio dei popoli”, come dice Goffredo Fofi, chiamando in causa anche tante fallimentari politiche “di sinistra”.

    Dice ancora Romeo Castellucci: il teatro «è un’arte che non lascia traccia. Non è mai merce, ma esperienza. E questa sua fragilità è la sua potenza, gravida di futuro».

    Ecco il tema portante, l’interrogativo sistematico: il futuro. A quale futuro guardiamo? Che teatro, e dunque che società, avremo tra dieci, quindici anni? Cosa lasceremo ai nostri figli?  Gli adolescenti, oggi, a partire da Greta Thumberg, prendono posizione. I Friday for Future sono un fatto serio, importante, da tenere in conto. Non più e non solo “sdraiati” e “a occhi bassi”: i giovani ci guardano. E le piazza tornano a riempirsi.

    Prima che il movimento delle Sardine venga assorbito e anestetizzato dalla politica ufficiale, c’è da registrare l’aspetto interessante di simili mobilitazioni. Ero in Piazza San Giovanni, alla manifestazione dello scorso dicembre. Ed è stata, per dirla grossolanamente, la prima “manifestazione 2.0” cui ho assistito. Le altre, quelle passate, le marce, i cortei, i concerti, avevano una loro ritualità, una scansione precisa. Qua no, il rito era aperto, quasi sospeso. C’erano piccoli cartelli – più ironici e poetici che non politici – c’erano sparuti cori, ma soprattutto c’erano persone autoconvocatesi a formare una “compattezza liquida”, per tentare un ossimoro, ovvero una nuova presa di posizione.

    Dice Romeo Castellucci: il teatro è un’arte che non lascia traccia. Non è mai merce, ma esperienza

    E quando ho percepito finalmente questo, ossia che la chiave di volta fosse proprio, semplicemente, l’essere presenti e l’essere in ascolto, ho pensato al teatro.

    Mi sembra, infatti, che tra le pratiche teatrali recenti (o meno), molte abbiano – direttamente o indirettamente – aperto la strada e anche avviato delle modalità di condivisione dello spazio, molto simili a quel che abbiamo con-vissuto a Piazza San Giovanni. Ci sono esperienze italiane e internazionali – a partire da quella storica di Augusto Boal per arrivare, tra le più note e più facili da citare, a quelle del tedesco Stephan Kaegi e Rimini Protokoll, del catalano Roger Bernat, ma anche certi lavori dello svizzero Milo Rau – che hanno insistito molto sul recupero della presenza fisica dello spettatore, che lo hanno insomma reso partecipante attivo e creativo dell’evento scenico.

    Elemento comune di questa attitudine, mostrata da numerose realtà italiane e diversi artisti, è lavorare favorendo le “teatralità diffuse” e, in particolare, con modalità in cui torna ad essere protagonista quello che sin dall’antica Grecia era chiamato il “coro”.

    Oggi alla parola “coro” si dà spesso accezione negativa: “stare nel coro, unirsi al coro, il coro del consenso” sono espressioni che evocano una perdita di identità, un allinearsi passivo alle voci della maggioranza, qualsiasi essa sia; oppure ancora un “cantare” le lodi del politico o del potente di turno, al di là di ogni spirito critico. Il coro ha avuto nella tragedia classica un ruolo fondamentale (e altamente critico): quei dodici o quindici che calcavano lo spazio della rappresentazione, erano “testimoni” ma anche rappresentanti della cittadinanza, ossia presenza effettiva, reale, concreta nella dinamica della riflessione, tanto teatrale quanto democratica, sulla Polis.

    Non si tratta solo di vendere biglietti: ma di pensare, assieme, la città e il mondo

    Il coro in scena era il prolungamento, l’estensione simbolica e concreta della platea, ovvero dei cittadini che assistevano allo spettacolo.

    Simbolicamente, non fosse altro per questo, anche a teatro “si prende posizione”: ogni sera, si tratta di uscire di casa, entrare in un luogo, prendere posto, scegliere la prospettiva dello sguardo, e ascoltare. Significa poter contribuire, con la propria presenza attiva, alla riuscita di qualcosa, e dunque al compimento dialettico, democratico, della Polis, della città. Semplicemente ascoltando qualcuno che (ci) parla.

    Dall’ascolto nasce il dibattito, la discussione. Forse anche le Terze pagine dei giornali, come auspica Castellucci, potrebbero ricordarsene e dar seguito a quel dibattito che, replica dopo replica, spettacolo dopo spettacolo, il migliore teatro sa far esplodere. Non si tratta solo di vendere biglietti: ma di pensare, assieme, la città e il mondo.


    ph. di copertina di Ph. Ruth Waltz da Io-Salome

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