L’acquaforte è prima di tutto una tecnica incisoria indiretta, ed è naturale che lo scrittore che intitoli così un proprio testo intenda rimandare all’espressione calcografica preesistente. Prima di analizzare le acqueforti scritte da Roberto Arlt su Buenos Aires e diverse città dell’Andalusia e del Marocco settentrionale, conviene pertanto analizzare le caratteristiche del loro modello, le acqueforti incise con acido nitrico (in latino aqua fortis) su una lastra di zinco o di rame protetta dalla cosiddetta “vernice all’asfalto”, usando una punta d’acciaio più o meno stondata.
È una tecnica in bianco e nero che gli armaioli arabi usavano per decorare i calci e le impugnature delle loro armi, diffusa nel Medio Evo e ampiamente sviluppata da Albrecht Dürer, fu perfezionata dal Parmigianino nel Cinquecento. Diffusasi in tutta Europa grazie alla libertà che concedeva all’artista inesperto, a differenza di altre tecniche che richiedevano un lungo tirocinio, l’acquaforte raggiunse il suo apogeo con Rembrandt, che ne incise oltre trecento. Solo nel VIII secolo, tuttavia, oltre al paesaggio e alla veduta, gli incisori di acqueforti cominciarono a inserire riferimenti (acidi, per l’appunto) ai contrasti sociali che caratterizzavano il loro tempo, a usarle insomma per dire anche altro.
Lo storico dell’arte Henri Focillon, nel suo Estetica dei visionari, cita a esempio la Roma fatiscente e grandiosa di Giovan Battista Piranesi, e i suoi tromp d’oeil architettonici usati per rendere la disposizione delle città, dei luoghi più belli, celebri e strani d’Italia. Piranesi riprodusse fedelmente ogni dettaglio, ma il risultato di quell’infinità di particolari furono immagini di tipo fantasmagorico.
Ora, se lo scrittore argentino Roberto Arlt (Buenos Aires, 1900 – ivi 1942) decise d’intitolare Acqueforti le pellegrinazioni per la sua città, e se i suoi articoli ebbero un tale successo da convincere il direttore del quotidiano El Mundo, Carlos Muzio Sáenz-Peña, a inviarlo in Spagna e in Marocco per non perdere i suoi numerosi lettori, è perché anch’esse riportano descrizioni molto dettagliate, e anch’esse insistono in modo acido sulle miserie che descrivono: sono visioni che colpiscono direttamente le cornee dei lettori/spettatori. Arlt non percorse Buenos Aires, Cadice, Granada, Siviglia e Tangeri con l’intenzione di descrivere paesaggi da cartolina. Anzi, al contrario, le sveste per ritrarle nude e scarnificate nelle loro forme:
Questa vecchia Cadice (…) può essere rappresentata da masse cubiche di palazzi la cui architettura non si differenzia in niente: pareti lisce, stanze che si affacciano sulla strada, illuminate da ampie vetrate, uniche fonti di luce. Ogni massa cubica è separata da quella antistante da uno stretto corridoio di due, tre o quattro passi d’ampiezza, simile al passaggio che separa le celle in un nido di termiti.
Appena sbarcato In Andalusia, Arlt non cerca i tipici cortili decorati con fioriere, in cui schiere di donne vestite di scialli accompagnano i canti del flamenco, ma i pueblos blancos dove vivono gli operai, i contadini e i pescatori. Di quel paesaggio rischiarato dal sole ci riporta solo le scintillanti feste religiose, i mestieri, le danze e i gioghi più estremi. Di Siviglia la Semana Santa, in cui l’alta società usa le processioni per scambiarsi sguardi complici, indifferenti al sudore dei penitenti; di Granada il Sacro Monte, in cui Arlt incede tra donne scontrose, color del rame; del Marocco le promesse spose trascinate per i vicoli di Tetuán, chiuse in una gabbia dalla quale non usciranno mai, tantomeno dopo il matrimonio deciso a loro insaputa. Infine, del mercato di Tangeri, il raccontastorie che tramanda con il tam-tam i racconti della tradizione musulmana:
Al centro di questo circolo di pietra c’è il raccontastorie, lo xej-el-clam, scalzo, con i piedi gonfi e lividi, una gellaba nera sulle spalle, volto mongolo, sottile, color del tabacco, con un muschio di barba bianca sul mento e vivaci occhi trasversali (…) E uno, malgrado la sporcizia, i parassiti e il fetore, si sente benissimo… respira… È come se si trovasse in un sanatorio profondamente bestiale, che lo curasse da quella lunga e terribile malattia chiamata civiltà.
Tra i criteri per riconoscere un bravo scrittore, diceva Salinger, c’è quello che dice che mentre lo leggi vorresti diventare suo amico. Il bravo reporter invece ci regala l’illusione (di più, la sensazione) di aver visto i luoghi che descrive. Nelle Acqueforti accade esattamente questo, si ha una resa talmente perfetta delle città intese come corpo vivo e insieme mostruoso, che si trasformano in metafore:
Ombre brutali sulle torri desolate. I merloni si stagliano sulla tela di un cielo duro, celeste. Gli uccelli scompaiono rapidamente. Tristezza, vuoto, morte.
Scrive a proposito dell’Alcazaba, la fortezza che circonda l’Alhambra di Granada, nelle Acqueforti spagnole (1936).
Arlt non amava la città, e nel suo romanzo I sette pazzi, attribuisce a Buenos Aires molte delle distorsioni che affliggevano i suoi abitanti. In un suo articolo apparso su il manifesto, Francesca Lazzarato sottolinea che l’autore proveniva da un paese proiettato verso la modernità, e si avvicinava invece ad altri impregnati da una cultura fortemente tradizionale: il Marocco, ma per certi versi anche la Spagna. Arlt restò affascinato proprio da quella medievalità e da quell’arretratezza; vergò dei ritratti che ci convincono di poter ritrovare quelle città vivide ed eterne, in bianco e nero, se le attraversassimo in questo momento. Tuttavia, non c’è da illudersi che un bastian contrario di razza come Roberto Arlt potesse trovare fuori della sua cara e detestata città, descritta, amata e odiata, un rimedio che risponde al nome di “arretratezza”. Abbatte il mito della vita agreste appena constata le miserrime condizioni di vita delle contadine marocchine, così come condanna il lavoro minorile nelle concerie di Tangeri.
La struttura congetturale della sua narrativa cede all’impianto descrittivo, da reporter ferocemente contemplativo, delle Acqueforti. Quando descrive Buenos Aires pervasa e insieme ispiratrice del dolore di Erdosain, il protagonista de I sette pazzi e I lanciafiamme, la metropoli appare trasfigurata in una plaga umbratile che non può che rimandare a una soluzione estrema, la creazione di una nuova società distopica, rifondata attorno al politeismo e alla dittatura degli dèi. Ancora una volta, un incisore di acqueforti retrocede fino a una visione arcaica, nella luce assoluta del bianco e nero. L’Astrologo è il teorico della società del futuro, che ha per modello l’Età dell’Oro, un mito che rivive sulle pagine di carta dei libri e nelle lamine dei suoi modelli di zinco. Il nostalgico sarcasmo delle cronache di Buenos Aires, di cui Arlt descrisse i quartieri che si trasformavano sotto i colpi del progresso, i fannulloni come pigri filosofi e gl’immigrati italiani che parlavano il lunfardo, è sostituito da uno sguardo disposto a farsi sedurre dalle strade che somigliano a catacombe:
Una freschezza di cisterna refrigera queste gallerie coperte di tronchi d’albero, nei cui interstizi biancheggia la malta da costruzione, dipinte invariabilmente di latte celeste. Dalle rustiche nervature delle colonne e degli archi, pendono ragnatele ampie e grigie, così come dalle sbarre delle finestre e dalle feritoie, che perforano con le loro lunghe linee nere il candore del muro. Sono case o prigioni?
Tangeri e Tetuán sono un calco delle città-prigione (Piranesi) delle città-sogno (in cui impara a riconoscere le ragazze libere dai tatuaggi e dai bracciali) filtrate dagli occhi dello scrittore. Se si esclude questo unico prisma, questa unica ed essenziale distorsione, leggere le acqueforti equivale a passeggiare con la mente attenta, quasi allucinata. Per questo Roberto Arlt è considerato il precursore di molta narrativa argentina del XXI secolo (su tutti Ricardo Piglia in Respirazione artificiale). Perché ci troviamo già la condanna di una società irrimediabilmente pessimista sul proprio destino, ma nelle cronache di viaggio c’è la ricerca di una salvifica migrazione.
Arlt si adattò in modo perfetto allo stile delle acqueforti perché gli permettevano di riconfigurare le città col suo sguardo luminoso e mordente. Autodidatta, duro ed esperto della vita di strada, finì per aggiungere una nuova declinazione al termine “acquaforte”, proprio in virtù di quest’immedesimazione precisa, esatta fino al millesimo, con il genere incisorio che interpretava.
Come la Roma di Piranesi, come il Paesaggio con tre alberi di Rembrandt, Buenos Aires, Cadice e Granada appaiono sotto una luce orientale e insieme nordica. Naturale, perché modellate secondo le leggi della prospettiva delle ombre, ma sovrannaturale per la sua intensità, per le evocazioni e i sogni che ci fanno vivere.
Le Acqueforti di Buenos Aires si possono leggere nell’edizione di Del Vecchio (a cura di Marino Magliani e Alberto Prunetti), mentre le Acqueforti spagnole, le uniche che non erano ancora state tradotte in italiano, sono uscite nel novembre di quest’anno per l’editore Casimiro Libri (traduzione a carico chi scrive).