Lavorare meno per studiare tutti

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    Scuola – formazione – mondo del lavoro è un percorso che diamo per scontato da quando ci viene posta, a partire da un’età in cui sappiamo a malapena parlare, una domanda che ci accompagnerà per notti insonni: «Cosa vuoi fare da grande?». Se gli iter formativi per diventare astronauta, ballerino o calciatore non hanno subito grandi evoluzioni, nel momento in cui cresciamo e aspiriamo a carriere più probabili possiamo trovarci di fronte ad un percorso che appare comunque incerto.

    Da alcune decadi, il ritmo a cui assistiamo a piccole rivoluzioni tecnologiche è senza pari e non sembra destinato a rallentare: ovunque, negli ultimi anni, non si fa che parlare di intelligenza artificiale, realtà virtuale e internet delle cose. Pur godendo dei frutti del progresso, osserviamo impotenti gli stravolgimenti strutturali del mercato occupazionale che esso comporta, creando e distruggendo figure professionali, e alterando permanentemente il modo stesso in cui è concepito il lavoro.

    Se un giovane italiano nel dopoguerra aveva un’idea piuttosto chiara delle sue prospettive all’uscita della scuola, lo stesso non può aspettarsi un liceale di oggi. Al di là di un mercato della conoscenza troppo saturo per le aspirazioni borghesi e della demolizione dell’idea del posto fisso, la vera incertezza oggi è la difficoltà di prevedere se le nostre competenze non verranno rese obsolete nell’arco di qualche lustro. La risposta è adeguarsi o soccombere.

    In molti settori lavorativi, l’idea di applicare per tutta la vita, con aggiornamenti minimi, le conoscenze acquisite da giovani non ha più senso e, fintanto che il reddito di cittadinanza non rimarrà che un’ipotesi, la formazione continua può essere la risposta adattativa necessaria alla sopravvivenza lavorativa.

    Se ogni rivoluzione industriale ha comportato periodi di disoccupazione tecnologica assorbita successivamente dai nuovi impieghi creati, l’imprevedibilità della situazione attuale non giace solo nella rapidità con cui cambia il mondo, ma anche nel capire in che direzione e in che modo verranno impiegate le forze lavorative. Così come l’automazione ha ridotto il lavoro manuale, gli ultimi progressi riducono il lavoro concettuale e quello che rimane esclusività degli esseri umani sono i lavori che richiedono creatività, imprevedibilità ed empatia.

    Logicamente, non possiamo aspettarci che tutti fluiscano in questi settori e, con l’aumento costante della produttività, non è neanche pensabile mantenere stabile il numero di ore lavorative, a meno di non indirizzare diversamente i consumi. Al momento è difficile prevedere se ci attenda la stagnazione occupazionale o finalmente vedremo realizzata la profezia keynesiana delle quindici ore settimanali, quel che è certo è che il cambiamento sta avvenendo.

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    Molte professioni sono potenzialmente sostituibili, ma tale potenziale varia di attività in attività. A sinistra le mansioni più difficilmente automatizzabili, a destra quelle che invece lo sono maggiormente. In basso i settori meno automatizzabili, in alto quelli dove tale automazione è più probabile. Via Fortune.

    Non sono solo le professioni ad essere cambiate, anche i rapporti lavorativi non sono più gli stessi. L’avvento di Internet, ad esempio, ha creato enormi possibilità per il lavoro freelance e da remoto, per quanto siano modelli lavorativi ancora in assestamento. Secondo le parole di Stephane Kasriel, CEO della piattaforma per freelancer Upwork:

    «In education, lifelong learning is more important than it ever used to be. The idea that you study in your youth and then have a career in one company is gone. Skills are changing all the time. There is a constant need to be reskilled. If you look at jobs in the marketplace today, you need some kind of renewal every five years or so. In the workplace, we are moving towards more flexible arrangements where the individual is working with multiple companies at the same time. A lot of it is knowledge work, which can be done from anywhere. That creates more value than the traditional work model.»

    Anche se in alcuni settori (come l’informatica) può essere più lampante, qualunque ambito trarrebbe giovamento da una formazione continua. Questa, però, non deve essere vista come una devozione eterna ai capricci del mercato quanto una liberazione da essi. Il nostro sistema educativo sta fallendo palesemente sia nel formarci come individui sia nel trasmetterci competenze utili alla vita lavorativa. Oltre ad essere inefficace (con risultati mediocri in rapporto all’enormità di ore che utilizza), il sistema scolastico prepara i giovani al mondo del passato attraverso una visione della conoscenza nozionistica e compartimentalizzata, alla ripetizione delle istruzioni impartite idonea alla catena di montaggio piuttosto che all’autonomia di apprendimento e alla libertà di esplorare percorsi di studio alternativi. Chi esce da scuola, poi, spesso si sente obbligato, sia per questioni di prestigio sociale che di esigenze del mercato, ad iscriversi all’università, pur uscendone spesso con competenze completamente inutili o grandemente ridondanti rispetto a quelle necessarie per il futuro lavorativo.

    La conoscenza non deve essere esclusivamente funzionale alla produttività, ma affidare la nostra crescita culturale a questi percorsi strutturalmente difettosi potrebbe non essere il modo più efficiente di raggiungere l’obiettivo. Ovviamente è giusto che un medico passi per un tipo di formazione rigorosa, ma la laurea in Lettere non dovrebbe essere il requisito per lavorare alle Poste.

    Se lo scopo è quello della crescita culturale, il percorso universitario ha smesso da tempo il primato di modalità di accesso al sapere. Con i mezzi attuali si possono seguire corsi di altissimo livello senza per questo essere legati ad un percorso incanalato in un curriculum ristretto e ostacolato da eventuali lezioni scadenti e programmi obsoleti. Crescere culturalmente liberi di saltare dalla letteratura all’economia senza dover chiedere il permesso al piano di studi. Resta tuttavia insostituibile la funzione di luogo di incontro e scambio che l’università continua ad avere.

    Se e come il sistema educativo vada riformato è una domanda politica non scontata, perché c’è chi sostiene che il mondo della formazione dovrebbe riformarsi per risultare sempre il più aderente possibile alla realtà politica ed economica, ma c’è anche chi sostiene il contrario. Chi crede che l’educazione non vada riformata, ma vada semplicemente finanziata, non argomenta negando l’evidenza di un mondo in trasformazione, al contrario ne è consapevole, ma sostiene che l’educazione non dovrebbe uniformarsi all’ambiente sociale finendo per coincidere con le esigenze economiche del mercato e debba piuttosto prescinderne.

    In quest’ottica l’educazione è un investimento a lungo termine che si dimostrerà economicamente fruttuoso in un futuro più o meno prossimo ma comunque certo. Si prenda ad esempio l’insegnamento del latino, la cui persistenza nei licei italiani è da anni al centro di dibattiti vivissimi: c’è chi sostiene la preminenza delle materie “moderne” come l’informatica e le lingue straniere, ma c’è anche chi rivendica la primazia di materie classiche sottolineandone l’utilità alternativa a quella funzionalista incentrata sulla spendibilità occupazionale.

    La posizione dei fautori di un’educazione disinteressata alle esigenze del mercato è legittima. L’idea ha radici nella preoccupazione che un’educazione rispondente alle esigenze del mercato perderebbe di vista l’obiettivo primario di un sistema educativo pubblico: assicurare gli strumenti utili per una cittadinanza consapevole, distante dal mero fornire i mezzi di sostentamento dei singoli nella giungla competitiva della domanda e dell’offerta.

    In questo articolo si propende per la riformabilità del sistema educativo, con la convinzione che gli sforzi per un’aderenza dell’organizzazione della trasmissione del sapere alla realtà socioeconomica non siano incompatibili con una formazione che fornisce anche gli strumenti per lo sviluppo dell’individuo .

    Tra i molti punti su cui basare un ripensamento del percorso formativo ce ne sono alcuni particolarmente attuali. Innanzitutto è inutile protrarre a oltranza percorsi di studio distanti dall’obiettivo di fornire gli strumenti necessari per affrontare un mercato del lavoro saturo e competitivo. Questo per un motivo semplice quanto banale: se anche un percorso formativo fornisse tutti gli strumenti per essere “cittadini consapevoli”, la povertà e la precarietà dovute alla disoccupazione costituiscono una minaccia concreta proprio a quei valori di inclusione sociale e tolleranza alla base di una cittadinanza consapevole.

    Le situazioni di indigenza, infatti, impediscono all’elettorato di proiettare la propria volontà politica sul lungo termine e di farlo con raziocinio: la povertà infatti – soprattutto quella di generazioni che si trovano a rivedere al ribasso le aspettative economiche – crea del malcontento che può incanalarsi proprio in derive antidemocratiche, come si osserva nella recente ascesa del populismo nella politica occidentale. Insomma, l’idea di un processo formativo che fornisce le basi teoriche, ma non gli strumenti per far fronte all’occupabilità, non tiene conto che proprio quel “grado di civiltà” frutto dell’istruzione potrebbe essere spazzato via dal malcontento. Ecco il perché dell’urgenza di un aggiornamento del processo formativo.

    Altrettanto inutile è immaginare che sia sostenibile un numero elevatissimo (e crescente) di giovani incuneati in un iter estremamente lungo e specialistico come quello universitario che poi, al suo termine, si scontra con la penuria di posizioni lavorative dentro e fuori il mondo accademico. In alcuni casi, la rapidità dei cambiamenti può rendere obsoleti i percorsi formativi ancor prima che essi giungano a termine.

    Basandoci sulla mutevolezza e la dinamicità del mondo tecnologico e del mercato che vi si adatta, potrebbe risultare vantaggioso un percorso formativo diluito nel tempo. Studiare continuamente e parallelamente all’attività lavorativa: non più un aggiornamento una tantum, ma un apprendimento continuo a fare da supporto alla formazione professionale. L’idea di mantenere un modello che prevede che lo studio sia un passo precedente, e solamente propedeutico, a quello lavorativo potrebbe essere sostituita con un’idea che tenga conto di una dinamicità tecnologica così prorompente da essere indicata come base di una nuova rivoluzione industriale continua. Ecco che in quest’ottica si palesa tutta la distanza tra il sistema formativo e il mondo reale.

    Oggi esiste già la necessità di un aggiornamento costante, ma a fronte di una dinamicità economica, politica e tecnologica senza precedenti si offre ancora lo stesso sistema educativo vecchio di decenni. In particolare in Italia, il modello di insegnamento rimane ancora estremamente curriculare, oltre che rigidamente legato a lezioni frontali dove manca spazio per l’interazione e la partecipazione attiva dello studente. Tenendo conto che ogni sistema scolastico va considerato nell’ambito del proprio paese, la Finlandia costituisce un classico esempio di come sia possibile aggiornare radicalmente i percorsi pedagogici e trarne miglioramenti sia dal punto di vista umano che sotto l’aspetto del rendimento accademico.

    A chi crede che, per tornare ad avere successo, la scuola debba riprendere i modelli rigidi e autoritari del passato (che possiamo ancora vedere in alcuni sistemi asiatici) va opposto un modello collaborativo piuttosto che competitivo e stimolante piuttosto che punitivo. Smetterla di annichilire la curiosità dei più giovani considerandoli dei contenitori da riempire con pacchetti formativi standard e di renderli refrattari alla lettura propinando quella storia degli sposini lombardi ad ogni ciclo scolastico. Non è necessario avere più ore di studio, piuttosto ridurle e renderle significative, evitando che metà del tempo preposto all’apprendimento sia dedicato alla fuga mentale. Una formazione scolastica basata su questo modello, oltre ad essere semplicemente più felice e produttiva, sarebbe più adatta ad un futuro che richiede adattabilità, capacità relazionali e autonomia nell’apprendimento.

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    Nonostante il calo di alcune posizioni negli ultimi anni, la Finlandia riesce a raggiungere risultati alla pari di sistemi educativi molto più severi nei campi in cui eccellono (vanno comunque tenuti in conto i limiti valutativi e metodologici di questo tipo di test).

    Affinché quanto auspicato avvenga, è necessario che anche il mondo del lavoro si conformi ad un sistema formativo differente. È impensabile affiancare ulteriori impegni formativi ai ritmi lavorativi attuali, ma l’occasione per rendere plausibile tale trasformazione può nascere proprio attraverso la riduzione del carico lavorativo determinato dall’avanzamento tecnologico. Insomma, non più solo «lavorare meno, lavorare tutti», ma «lavorare meno per studiare tutti».

    Note