La trappola del cosmopolitismo assoluto

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    PostMetropolis. Una serie mensile di Filippo Barbera per cheFare. La città non è finita. Ma non è neppure infinita. Cambiano i suoi confini, le sue funzioni e i rapporti che intrattiene con il policentrismo territoriale. Questo è Postmetropolis. Dove i confini creano i luoghi. Qui la prima puntata.

    PostMetropolis. Dove i confini creano i luoghi. Una serie mensile di Filippo Barbera per cheFare

    Il tema dell’identità italiana e delle sue differenze regionali, specie tra Nord e Sud, ha una lunga storia ed è oggetto di una letteratura ampia e variegata, scrivono Fabrizio Barca, Carlo Trigilia ed Emmanuele Pavolini in un saggio per l’Enciclopedia Treccani. Ma quanto contano davvero le regioni nella definizione della nostra identità di luogo? Ci sentiamo “lombardi”, “veneti”, “toscani” o “calabresi”?

    In base a un recente sondaggio SWG, le identità regionali parrebbero non contare granché. Alla domanda: “Lei si sente più cittadino…” solo il 12% risponde “della sua regione”, a fronte di del 41% che dichiara “italiano”. L’identità regionale è di poco superiore a quella comunale (9%) ed entrambe sono molto inferiori a quella nazionale. Se vi chiedete perché “la nazione” ha oggi ripreso vigore nel discorso politico, parte della risposta è “perché funziona”. Il livello nazionale surclassa anche le identificazioni sovra-nazionali: anche i c.d. “cosmopoliti” (coloro che dichiarano una preferenza per il livello “europeo” o “mondiale” sono in minoranza (30%) rispetto a chi indica la dimensione nazionale. Ci sono poi differenze interessanti: come atteso, gli elettori del centro-destra sono sovra-rappresentati tra chi manifesta una identità nazionale e quelli del centro-sinistra tra chi si dichiara “cosmopolita”.

    Il cosmopolitismo, del resto, crea più di un mal di pancia anche a sinistra. In Germania, il recente nuovo partito di sinistra di Sarah Wagenknecht, critico verso le politiche di accoglienza degli immigrati “quando minacciano il benessere degli autoctoni”, si attesta intorno al 12%, sottraendo 5 punti percentuali all’AfD (rispetto ai sondaggi precedenti). La Wagenknecht è autrice di un libro che ha fatto discutere, dal titolo eloquente: “Contro la sinistra neoliberale”, il cui bersaglio polemico è il cosiddetto “effetto ZTL”: il richiamo all’accoglienza solidale di chi vive nei centri delle città che fa a pugni con la vita quotidiana di chi vive nelle periferie e nei “luoghi che non contano”.

    Elisabetta Bianchi, collage

     

    La posizione politica della Wagenknecht può essere certamente essere definita “rossobruna”, ma ha anche giustificazioni teoriche nella sinistra intellettuale progressista. Per esempio, il filosofo Kwame Anthony Appiah1K.A. Appiah, Il cosmopolitismo radicato, Castelvecchi, 2023 non crede nella ricetta offerta dal “cosmopolitismo assoluto”, per proporre invece un “cosmopolitismo radicato” o “parziale” dove l’incontro con i sistemi di valori e le culture altre non avviene al prezzo di negare la propria eredità linguistica, culturale e territoriale. Se il cosmopolitismo assoluto associa le identità locali ad appartenenze ascritte che definiscono universi simbolici sempre reazionari da lasciarsi alle spalle in nome del “globale”, la sua versione “radicata/parziale” sostiene che è proprio: “sulle fondamenta solide della mia cultura e dei tratti condivisi con chi mi è più prossimo, su questa sicurezza, che posso aprirmi con sincerità al dialogo con altre e altri di diversa cultura; è attraverso la cura di chi mi è più prossimo che imparo a prendermi cura di chi mi è meno prossimo”2F. Barca, “Il metodo nuovo per tempi migliori. Considerazioni fra vita, politica e tecnica”, prefazione a S. Tulumello (a cura di), Verso una geografia del cambiamento. Saggi per un dialogo con Alberto Tulumello, dal Mezzogiorno al Mediterraneo, Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 17.. Il cosmopolitismo parziale non rifiuta le radici comuni, solo non le trasforma in gabbie escludenti sulla base di appartenenze pregresse e naturalizzate. La postura non è quindi nativista, ma aperta ai saperi esterni e ai valori “altri” in un’interlocuzione continua, favorita e non ostacolata, dalla comune appartenenza alla lingua, alla tradizione, alle identità di luogo intese come grammatiche generali della condizione umana. È, nella definizione fornita da Bruno Latour, il “terrestre” che sostituisce il “locale”3B. Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina, Milano 2020.. Il cosmopolitismo radicato è quindi in sintonia con l’idea che non esistono società naturali fondate sul “sangue”. Esiste piuttosto la storia naturale delle società, che mostra come queste siano l’effetto del rimescolamento e della diversità. Si può dunque aderire al cosmopolitismo parziale che si apre all’altro senza rinnegare le proprie appartenenze, ma a partire da queste.

    A riguardo, va detto (cfr. F. Barbera, Le piazze vuote. Ritroviamo gli spazi della politica, Laterza, 2023), che uno dei più gravi errori commessi dalle classi dirigenti post-’89 è stato quello di aderire in modo acritico alle sirene del cosmopolitismo assoluto del mercato “libero” e a quelle della “fine delle ideologie” di matrice post-moderna senza rendersi conto che le appartenenze contano, per quanto non naturali e non fondate sulla reazionaria idea di “sangue e suolo”. Cos’è, del resto, il cosmopolitismo assoluto se non l’incontro tra il post-moderno (le identità non esistono) e il modello neoliberale del “globalismo”? Questa narrativa si è scontrata con una realtà molto diversa: un mondo non di mercati aperti, ma di mercati oligopolistici, non di competizione libera, ma di rendite private e pubbliche, non di bisogni soddisfatti e desideri esauditi nel “globale senza appartenenze”, ma di mercati con pochi vincitori, complementari alla diffusione del fallimento come condizione quotidiana e della proliferazione di faglie territoriali tra centri e margini.

    Negli spazi aperti dalla distanza tra la narrazione del cosmopolitismo assoluto di matrice post-moderna e neoliberale, si è così inserita la narrazione nativista. La geografia elettorale ci dice che il voto anti-establishment è fortemente concentrato in quei territori dove i valori, le priorità, le regole pratiche e gli stili di vita di chi abita in quei luoghi non sono più riconosciuti dai modi “ordinari” di funzionamento delle istituzioni e, quindi, dalle classi dirigenti cosmopolite che governano i centri di potere, dal disegno delle politiche e dalle regole che governano la distribuzione delle risorse. Sono, questi, territori dove la capacità di aspirare4A. Appadurai, “The future as cultural fact: Essays on the global condition”, Rassegna Italiana di Sociologia, 14, 4, 2013, pp. 649-650. a un futuro condiviso si scontra con il restringersi delle opportunità e del benessere. Luoghi dove il “noi” nativista basato sulla conservazione, sul rifiuto della diversità e con lo sguardo rivolto a un passato idealizzato prevale sul “noi” inclusivo orientato a un futuro più giusto. I luoghi umiliati dal cosmopolitismo assoluto a misura di élite che vivono e lavorano nei centri, prima o poi, si vendicano.

    (Profilo X di Filippo Barbera)

    L’immagine di copertina è stata pensata appositamente per la serie PostMetropolis da Elisabetta Bianchi

    Note