Pubblichiamo un estratto da “Sguardi neri/Black Looks. Nerezza e rappresentazione.“, libro di bell hooks. Edito da Meltemi editore. Traduzione di feminoska. Collana Culture radicali, diretta dal gruppo di ricerca indipendente Ippolita. Ringraziamo l’autrice, l’editore e Ippolita per la disponibilità.
Nel teorizzare l’esperienza nera, è utile esaminare il modo in cui il concetto di “terrore” è collegato alle rappresentazioni della bianchezza.
In assenza della realtà della bianchezza, ho imparato da bambina che per essere “al sicuro” era importante riconoscere il potere della bianchezza, persino temerla, ed evitare di incontrarla. Non c’era nulla di terrificante nella condivisione di questa conoscenza come strategia di sopravvivenza; il terrore diventava reale solo quando lasciavo il lato nero della città e attraversavo un’area prevalentemente bianca per raggiungere casa di mia nonna. Nel saggio Homeplace: A Site of Resistance descrivo questi viaggi “attraverso la città”:
Significava allontanarsi dalla nerezza segregata della nostra comunità e attraversare un quartiere bianco povero. Ricordo la paura, la paura di camminare fino a casa di Baba, nostra nonna, perché avremmo dovuto superare quella bianchezza terrificante, quelle facce bianche sotto ai porticati che ci fissavano con odio. Anche quando erano vuoti, quei porticati sembravano gridare “pericolo, tu non appartieni a questo posto, non sei al sicuro”.
Oh! La sensazione di sicurezza, di salvezza, di familiarità quando finalmente raggiungevamo il suo cortile, quando vedevamo il viso di nostro nonno, Daddy Gus, seduto sulla sedia sotto il portico, sentivamo l’odore del suo sigaro e riposavamo sulle sue ginocchia. Un tale contrasto, quella sensazione di casa, di dolcezza, e l’amarezza di quel viaggio, quel costante richiamo al potere e al controllo bianco. Anche se è passato molto tempo dall’ultima volta che ho fatto quel tragitto, le associazioni mentali della bianchezza con il terrore sono ancora vive. Anche se vivo e mi muovo in spazi in cui sono circondata dalla bianchezza, non c’è consolazione capace di far scomparire il terrore. Tutti i neri degli Stati Uniti, indipendentemente dalla loro classe o posizione politica, vivono nella consapevolezza di poter essere terrorizzati dalla bianchezza.
Questo terrore è vividamente descritto da autrici e autori neri di narrativa, e ne è un chiaro esempio il romanzo di Toni Morrison Amatissima. Baby Suggs, la profeta nera, che è particolarmente esplicita nel rappresentare la bianchezza, muore perché soffre di un’assenza di colore. Circondata dalla mancanza, dallo spazio vuoto, catturata dalla bianchezza, ricorda: “Quei bianchi mi hanno preso tutto quello che avevo e che sognavo”, disse, “e mi hanno anche rotto le corde del cuore. A questo mondo non c’è la sfortuna: ci sono solo i bianchi”. Se la maschera della bianchezza, nella finzione, è rappresentata come sempre buona, benevola, allora ciò che questa rappresentazione nasconde è il pericolo, il senso della minaccia. Nell’era Jim Crow dell’apartheid razziale, era più difficile per i neri interiorizzare questa finzione, non sapere che le forme che si nascondevano sotto quei teli bianchi avevano il compito di minacciare, di terrorizzare. Quella rappresentazione della bianchezza e la sua associazione con l’innocenza, che inghiottì e uccise Emmett Till, era un segno; era destinata a torturarci come fosse il promemoria di un possibile terrore futuro. In Amatissima di Morrison, il ricordo del terrore è così profondamente inscritto nel corpo di Sethe e nella sua coscienza, e l’associazione del terrore con la bianchezza è così intensa, che uccide i suoi bambini per non far loro conoscere mai il terrore. Spiegando le sue azioni a Paul D., gli dice che è suo compito “tenerli lontani da ciò che so essere terribile”. Naturalmente, il tentativo di Sethe di porre fine all’angoscia storica dei neri la riproduce soltanto in una forma diversa. Conquista il terrore attraverso una perversa rievocazione, attraverso la resistenza, usando la violenza come mezzo per sfuggire a una storia che è un peso troppo grande da sopportare.
Raccontare la nostra storia consente un recupero politico del sé. Nella società contemporanea, sia i bianchi sia i neri credono che il razzismo non esista più. Questa cancellazione, per quanto mitica, disinnesca la rappresentazione della bianchezza come terrore nell’immaginazione nera, permettendo l’assimilazione e la dimenticanza. L’entusiasmo con cui la società contemporanea cancella il razzismo, sostituendolo con esortazioni al pluralismo e alla diversità che mascherano ulteriormente la realtà, è una risposta al terrore. È anche un modo di perpetuare il terrore fornendogli una copertura, un luogo in cui nascondersi. I neri sperimentano ancora il terrore associato alla bianchezza, ma raramente riusciamo ad articolare i vari modi in cui ci sentiamo terrorizzati, perché è facile mettere a tacere le persone nere accusandole di “razzismo al contrario” o suggerire che stiano semplicemente facendo le vittime per ottenere un trattamento speciale.
In occasione di una recente conferenza nell’ambito degli studi culturali, mi sono accorta di quanto il discorso sulla razza sia sempre più separato da qualsiasi riconoscimento della politica del razzismo. Avevo scelto di partecipare alla conferenza perché ero fiduciosa di trovarmi in compagnia di intellettuali progressisti che la pensavano come me, persone “consapevoli”; eppure le classiche regole dettate dalla gerarchia della supremazia bianca erano evidenti sia nell’ordine dei discorsi, sia nella disposizione dei corpi sul palco, sia nel pubblico. Era pertanto evidente quali voci fossero ritenute degne di parlare e di essere ascoltate. Nel corso della conferenza, cominciai a sentirmi nervosa. Se persino queste persone progressiste, per lo più bianche, erano in grado di riprodurre così ciecamente una versione dello status quo e non “vederlo”, il pensiero di come la politica razziale sarebbe stata riprodotta “fuori” da questa arena era orribile. Riemerse in me la sensazione di terrore che avevo conosciuto così intimamente nella mia infanzia.
Senza nemmeno chiedermi se il pubblico sarebbe stato in grado di abbandonare il punto di vista prevalente per ascoltare un’altra prospettiva, ho parlato apertamente di quel senso di terrore. Più tardi, mi sono state riferite storie di donne bianche che mi avevano preso in giro, scherzando su quanto fosse ridicolo che io (che ai loro occhi rappresento la donna nera tosta e “cattiva”) mi sentissi terrorizzata. La loro incapacità di comprendere che il mio terrore, come quello di Sethe, è una reazione all’eredità della dominazione bianca e alle espressioni contemporanee della supremazia bianca è un’indicazione di quanto poco questa cultura comprenda davvero il profondo impatto psicologico della dominazione bianca razzista.
In occasione di quella stessa conferenza, ho stretto amicizia con una donna nera progressista e il suo compagno, un uomo bianco. Come me, erano rimasti turbati nell’accorgersi che i partecipanti avevano scelto di ignorare l’influenza della supremazia bianca sull’organizzazione della conferenza.
Mentre parlavo con la donna nera, le chiesi: “Cosa fai quando sei stanca di affrontare il razzismo bianco, stanca degli atti quotidiani casuali di terrorismo razzista? Voglio dire, come ti comporti quando torni a casa da una persona bianca?”. Ridendo rispose: “Oh, intendi quando soffro della ‘Sindrome da stanchezza dei bianchi’? Lui la capisce più di me”. Dopo aver smesso di ridere, abbiamo discusso di come i bianchi che riescono a cambiare il proprio punto di vista, come il suo compagno, inizino a vedere il mondo in modo diverso.
Comprendendo finalmente il funzionamento del razzismo, questa persona bianca si è accorta di come la bianchezza possa risultare terrorizzante, senza considerarsi un uomo cattivo e senza considerare tutti i bianchi come cattivi, e tutti i neri come buoni. Ripudiare la dicotomia “noi e loro” non significa dover evitare di parlare del fatto che osservare il mondo dal punto di vista della “bianchezza” può effettivamente distorcere la percezione e ostacolare la comprensione del modo in cui funziona il razzismo, sia nel mondo in generale che nelle nostre interazioni intime.
In The Post-Colonial Critic, Gayatri Spivak sollecita una modifica dei posizionamenti, esplicitando le possibilità radicali che si manifestano quando il posizionamento viene problematizzato. “Ciò che chiediamo è che i discorsi egemonici, e i detentori del discorso egemonico, de-egemonizzino la loro posizione e imparino a occupare la posizione soggettiva dell’altro”. In generale, questo processo di riposizionamento ha il potere di decostruire le pratiche di razzismo e rende possibile separare la bianchezza dal terrore nell’immaginazione nera. È un intervento critico che permette di riconoscere che i bianchi progressisti e antirazzisti possono essere in grado di capire in che modo la loro pratica culturale rinforza la supremazia bianca, senza che questo implichi un senso di colpa paralizzante o la negazione. Privata della capacità di ispirare terrore, la bianchezza non corrisponde più al diritto di dominare. Diventa davvero un’assenza benevola. Baldwin conclude il suo saggio Stranger in the Village con la seguente dichiarazione: “Questo mondo non è più bianco, e non sarà mai più bianco”. Esaminando criticamente l’associazione della bianchezza con il terrore nell’immaginazione nera, decostruendola, nominiamo l’impatto del razzismo e facciamo del nostro meglio per spezzarne la presa. Decolonizziamo la nostra mente e la nostra immaginazione.
Immagine di copertina di Melanie Kreutz su Unsplash