«Il costruzionista non fa che lavorare, deve costruire: soggetti, oggetti, sostanze, forme, dispositivi, valori, etc. E questa continua attività costruttiva è funzione di valori e della loro continua comparazione e valutazione»
(Paolo Fabbri, Natura, naturalismo, ontologia: in che senso? Conversazione con Gianfranco Marrone)
Da cosa nasce questa pratica?
1. Negli anni, come Kilowatt, abbiamo maturato diverse esperienze del cosiddetto community organizing, termine con cui si intendono tutte le attività di inclusione e co-creazione fatte con una community tematica (ossia aggregata attorno a un argomento di interesse, una passione, uno stile di vita).
Abbiamo sempre dato per scontato che tali attività fossero: a) fatte (almeno in parte) in presenza e b) sviluppate a fronte di un obiettivo – dato in partenza – di indagine, di conversazione, di sviluppo condiviso. Un obiettivo fornito da noi, in quanto facilitatori di processo, come input, cioè come “consegna” iniziale alla community. I primi mesi del 2020 hanno messo in discussione questo doppio assunto di partenza.
2. Nelle settimane del lockdown, ognuno di noi ha ricevuto molti questionari a scopo statistico, che avevano il principale obiettivo di profilarci secondo un sistema di categorie dato in partenza e proveniente dalle classificazioni tradizionalmente usate nelle scienze sociali (età, genere, reddito, collocazione geografica, ecc.).
Di conseguenza, abbiamo sentito il bisogno di esplorare una strada di analisi più qualitativa e aggregante e di porre domande laterali, trasversali, che potessero accendere la nostra capacità di auto-osservarci, specialmente in un periodo così delicato, e di creare le nostre categorie di riferimento, il nostro percorso di senso al di là delle differenze sociali.
3. Ne è nato un progetto sperimentale: si chiama Passa il tempo, passa la bufera ed è stato un esperimento di etnografia domestica a distanza, nato per stimolare un rituale di auto-osservazione collettiva di una comunità non formalizzata a priori di persone, ai tempi di COVID-19. Si è trattato di una serie di cinque questionari, (compilati complessivamente da quasi seicento partecipanti), le domande di ognuno dei quali erano il risultato delle risposte al precedente: un flusso di riflessioni e di interpretazioni condivise dei nuovi rituali domestici nati a cavallo tra Fase Uno e Fase Due.
Cosa significa etnografia condivisa?
Come sostiene Tiziano Bonini, la nostra «etnografia domestica è stata impiegata come una “tecnologia del sé” (Foucault 1988): l’attività di prendersi cura di sé durante il lockdown è passata attraverso la generazione individuale e l’analisi collettiva di dati qualitativi (i diari)». Da questa esperienza abbiamo compreso alcune cose importanti:
1. attivare un gruppo di persone nella generazione di dati qualitativi collettivi porta l’indubbio vantaggio di fornire loro un senso di appartenenza a una comunità di riferimento, di creare cioè l’opportunità di sentirsi parte di un sistema descritto da dati relazionali e più “caldi” (Warm Data direbbe il Bateson Institute, per intendere quei dati che forniscono nuovi punti di vista a un sistema complesso e possibilità di apprendimento collettivo: dove la cosa importante è la connessione, non solo il punto).
Questi dati seguono un approccio costruttivista, secondo il quale la realtà non è data ma si costruisce insieme e diventa il mondo di dati in cui la comunità di riferimento si riconosce, perché ha contribuito (tramite auto-osservazione) a generare il corpus di analisi condiviso;
2. l’uso di questionari qualitativi, compilabili a fronte di un lavoro individuale o dialogico di auto-osservazione, genera sì dati a loro volta qualitativi, ma al tempo stesso fa emergere da un lato alcuni temi comuni e trasversali che possono essere assunti come costanti, dall’altro elementi singolari, opinioni e osservazioni che vengono a galla una tantum, ma quando si verificano scompaginano l’insieme;
3. la restituzione visiva, ossia la rielaborazione illustrata dei dati così generati, è parte integrante del processo e crea un immaginario condiviso che si alimenta passo dopo passo, dove i componenti della comunità, di nuovo, si possono riconoscere; al tempo stesso, quell’immaginario fornisce una porta di ingresso in più per chi voglia “entrare” nella comunità in medias res. Inoltre, abbiamo sperimentato un linguaggio di restituzione innovativo, molto più illustrativo che infografico: non pensato come accompagnamento a un testo ma come mondo da esplorare, quasi fosse una cartografia, una mappa dell’esperienza. Oltre a essere un terreno di esplorazione non solo per questa esperienza, è un motivo in più per far sentire i partecipanti parte attiva e per uscire dalla dinamica della restituzione che non sopravvive all’occasione che ha generato il dato;
4. per Passa il tempo, passa la bufera abbiamo formalizzato un bilanciamento – molto profittevole in termini di partecipazione – tra domande introspettive, etnografiche in senso stretto, domande ludiche, semi-serie e piccoli giochi di ruolo inseriti all’inizio e alla fine dei questionari che hanno permesso di abbassare le barriere all’ingresso della compilazione. Anche questa è un’importante lezione appresa, che apre strade di approfondimento: in particolare, la possibilità di scegliersi uno pseudonimo giocoso all’interno della compilazione e l’andirivieni di consigli e doni (come nel “rigattiere” della restituzione del primo questionario) sono stati importanti trigger relazionali che hanno consolidato la nostra comunità nascente (e contribuito a costruire la “barca dove sentirsi sulla stessa barca”, per riprendere una ricchissima metafora suggerita da una persona che ha compilato l’ultimo questionario dell’esperimento).
Quando usare questi strumenti?
Come diceva lo scrittore francese Georges Perec (nel Tentativo di esaurire un luogo parigino), osservare ciò che si pensa di conoscere, come se lo si osservasse per la prima volta, è un ottimo modo per mettere in discussione il dato per scontato della nostra quotidianità, mentre apparentemente «non accade niente, se non il passare del tempo, […] delle nuvole».
I dati relazionali e caldi e l’etnografia condivisa sono interessanti come strumento partecipativo proprio quando si tratta di lavorare su stili di vita e resistenza al cambiamento nelle abitudini quotidiane. Fare osservare la propria quotidianità è il primo importante passo per metterla in discussione, da un lato, e per reinterpretarla all’interno di un’esperienza comunitaria, dall’altra. Infine, come abbiamo visto, l’etnografia condivisa è utile proprio quando si vuole aggregare una comunità attorno a un tratto della quotidianità, a un ruolo, a una passione o a un tratto identitario delle persone, senza che queste si sentano “incasellate” in una profilazione.
Per concludere, un ultimo aspetto. Ci sembra che la nostra seppur limitata esperienza abbia fatto emergere un bisogno: quello di ritualizzare l’attenzione, ossia creare appuntamenti ciclici di auto-osservazione e di creazione di comunità attorno a essa. Ci sembra che osservarsi e condividere queste osservazioni siano due passi fondamentali per il cambiamento. Vogliamo pensare alle persone come parte attiva, attenta oseremmo dire, di questo rituale. Sappiamo quanto ciò sia rilevante in un mondo dove la risorsa più scarsa è proprio l’attenzione. Ci piacerebbe avere tante altre occasioni per verificare questa ipotesi di partenza. Dopo aver incontrato (il 6 settembre) il nostro “equipaggio” di Passa il tempo, passa la bufera, lo faremo anche a partire da questo laboratorio di “autocostruzione” di un questionario qualitativo e ospitando un Warm Data Lab, due delle attività previste per il prossimo Resilienze Festival, che non a caso avrà come sottotitolo “Legami invisibili”: quelli che ci tengono insieme come comunità, ma ancor prima come parti di un ecosistema complesso, dove natura e cultura sono concetti inestricabili – e dove abbiamo la responsabilità di “fare mondo”, come scrive Bruno Latour a partire da Donna Haraway.