Conflitto e trasgressione: Anonymous all’Unione Europea

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    Bruxelles, febbraio 2015. NetFutures 2015

    Nell’edificio post industriale di The Egg, il centro congressi a pochi passi dalla Gare Du Midi, si parla di cose interessanti: dalle smart cities, all’Internet of Things, alla social innovation, al cloud e, in generale, a tutti quegli scenari secondo i quali la rete – in tutte le sue forme e manifestazioni ubique – condurrà per mano l’Europa verso il futuro.

    In una piccola sala, che ospita la plenaria del programma CAPS (Collective Awareness Platforms for Sustainability), sorge una risata collettiva inaspettata, seguita da un momento di silenzio un po’ imbarazzato.

    Lo scenario: siamo stati invitati a parlare di Ubiquitous Commons, il progetto di ricerca tramite cui stiamo creando un insieme di strumenti legali e tecnologici per mitigare l’enorme dislivello di potere che, attualmente, caratterizza il rapporto tra data-subjects (i soggetti che, consapevolmente o inconsapevolmente, producono dati e informazioni durante la propria quotidianità) ed operatori (Facebook, Google, gli operatori del cloud, i grandi aggregatori di BigData, e così via): le persone non sanno (e non possono sapere) quali dati/informazioni generano e vengono raccolti, e gli operatori possono sostanzialmente farne ciò che vogliono, acquistando e vendendo persone migliaia di volte al secondo, trasformandoci in cavie per esperimenti sociali e cognitivi e decidendo con pochi click le sorti dell’informazione e delle libertà di una parte crescente del pianeta.

    Pochi minuti prima Fabrizio Sestini, ideatore e leader di CAPS, illustrando le innovazioni promosse e sostenute dal programma in vista delle evoluzioni dei prossimi anni, evidenzia un fatto importante: ci si è accorti che sostenere e finanziare solo aziende e consorzi affermati e conosciuti non è sufficiente. Occorre trovare nuovi modi per riuscire a sostenere anche l’informalità, l’emergente, il temporaneo, il peer-to-peer. Come si fa? Sestini chiede l’aiuto dei presenti nel trovare soluzioni.

    Fast forward di qualche minuto: è il momento della nostra presentazione. Abbiamo aggiunto una slide, subito dopo questa interessante (e importante.. per noi fondamentale) affermazione, quella della lista di partner di Ubiquitous Commons.
    Appena vi arriviamo, iniziamo ad elencare: “… stanno partecipando all’iniziativa l’Università X, il Dipartimento Y, il Centro di Ricerca Z… e Anonymous.”
    Pausa.
    Anonymous.
    Pausa.

    Gettiamo lí una battuta, per essere certi che le persone abbiano registrato il messaggio: “E quindi sarebbe interessantissimo, anche in vista dell’affermazione di Mr. Sestini, capire come Anonymous potrebbe partecipare a, chessò, un progetto Horizon2020.”

    Risatine nel pubblico.
    Silenzio.
    Strizzatine d’occhio.
    Si va avanti con le altre slide.

    La questione non viene realmente presa sul serio, tranne forse il suscitare qualche strana immagine che vede peculiari raggruppamenti di persone mascherate presentarsi alle porte della Commissione Europea per pretendere il pagamento in Bitcoin del finanziamento Horizon2020 appena ottenuto con il progetto Anonymous Social Innovation. Ma, per noi, è di centrale importanza, in quanto affronta in maniera diretta un tema fondamentale per ogni discorso sull’innovazione: il conflitto e la trasgressione.

    Ma facciamo un passo indietro nel tempo
    Siamo sempre a Bruxelles. Sempre in Commissione Europea. È il Settembre del 2014, al High Level Group Meeting on Smart Cities. Rem Koolhaas, dal podio, racconta come, con il sorgere del “mercato”, dagli anni ’70, la città sia diventata un luogo enormemente meno avventuroso, e più prevedibile.

    È questo il luogo in cui, secondo lui, gli effetti apocalittici del cambiamento climatico, dell’invecchiamento della società, dell’acqua e dell’energia trovano supposte soluzioni nella smart city, a suon di sensori, droni, Internet delle Cose ed efficienza.
    Un occhio di riguardo viene riservato al linguaggio visuale dedicato ai cittadini della smart city.

    Riportiamo qui una traduzione di questa parte dell’intervento:

    “Quando guardiamo al linguaggio visuale attraverso cui viene rappresentata la smart city, lo troviamo tipicamente caratterizzato da forme semplici, infantili, con angoli arrotondati e colori vivaci. I cittadini della smart city sono ‘al servizio’, e sono trattati come bambini. Veniamo imboccati con icone carine di vita urbana, integrate con dispositivi innocui, che trovano la loro coerenza in diagrammi piacevoli in cui cittadini ed imprese sono circondati da numeri sempre crescenti di cerchietti che rappresentano servizi e bolle di controllo. Perché le smart city offrono solo miglioramento? Dov’è la possibilità per la trasgressione?”

    Trasgressione
    Con questo termine si indicano tanti concetti differenti.
    Qui ci riferiamo al concetto sociologico, quello secondo cui si trasgredisce quando si viola una norma sociale. Trasgressione implica oltrepassare un limite, un confine, ma anche l’esistenza dello stesso. Come affermava Bataille in Eroticism: “La Trasgressione apre le porte verso ciò che è al di là dei limiti osservati abitualmente, ma preservandoli.”

    In questa era dello smart (smart cities, smart communities), dell’innovazione e della creatività c’è poco spazio per la trasgressione e, quindi, per il conflitto. La classe creativa è già stata assorbita dall’industria. Hackers, makers, startuppers e i tanti altri profili umani di questo nuovo scenario già creano le fila dei nuovi laboratori di ricerca e delle linee di produzione del complesso industriale. Sono loro gli inaspettati colletti blu di questo tipo di industria, perfettamente codificati nei nuovi modelli del lavoro e della produzione.

    Questa economia corrisponde ad una industria che ha già come presupposto l’interesse per il pensiero creativo, come studiato da Pine e Gilmore nella loro Experience Economy. Non c’è dubbio, dal punto di vista delle architetture del potere, su chi effettivamente mandi avanti la baracca. In questo scenario i troublemakers (“coloro che creano problemi”, i discoli, i trasgressori, i conflittuali) sono merce preziosa.

    Enzensberger usa proprio questa parola nel suo Industrialization of the Mind del 1962. Secondo la sua tesi, l’industria culturale vive di/in un paradosso: non può produrre il proprio “prodotto” (la coscienza), in quanto la coscienza può da essa essere solo “indotta e riprodotta”, in quanto è un prodotto sociale. Ne segue una industria sterile in cui la gran parte della produzione è di tipo derivativo e in cui solo pochissimi (i “troublemakers”) sono in grado di innovare realmente.

    Ciò non è evidentemente sostenibile per il complesso industriale, che ha, quindi, imparato ben presto ad aver a che fare con in conflitto, con ogni genere di tecnica: dalle più violente; alla pressione economica; all’esposizione/esibizione mediatica e la co-optazione. In una parola: codificando, assumendo, estetizzando.

    Le azioni sovversive sono già state internalizzate dal mercato, sotto forma di strumenti per la creazione del valore, per aumentare le vendite e per il marketing. Questo è evidente, ad esempio, con la trasformazione linguistica (e, quindi, percettiva ed operativa) della parola hacker. Nella sua Prefazione alla Trasgressione (su Bataille: a Critical Reader, di Bolling e Wilson) Foucault sostiene che la trasgressione obbliga i limiti, i confini e le norme a riconoscersi, forzandoli ad aver a che fare con la loro imminente scomparsa.

    La trasgressione crea uno spazio, innova

    Elizabeth Grosz chiama questo processo spatial excess, una nuova dimensione capace di oltrepassare preconcetti, pregiudizi e preoccupazioni sull’utilità, “oltre la rilevanza per il presente, rivolta verso il futuro.” La rivelazione e scoperta di questo eccesso dipende dalla possibilità di trasgressione. L’eccesso si trova nel “problematico”, pieno di potenziale.

    Il clandestino, il non riconosciuto, il non ufficiale trovano la propria sopravvivenza – al di fuori del crimine – nella trasgressione dei limiti e delle norme sociali. Proprio trasgredendo quei limiti che li hanno esclusi in primo luogo. Riciclano immondizia, si appropriano di spazi, inventano modi di comunicazione, creano stili, mode ed andamenti. Non oltrepassano i confini: ci si muovono.  Muovendosi, innovano.

    Movimento

    Da De Certeau, Lefebvre, fino a Maturana, Bateson, Bhabha e discendenti, è evidente come questo sistema sia un sistema cibernetico di secondo livello. I cittadini ri-programmano continuamente il proprio spazio, appropriandosene, ibridando, creando relazioni, reazioni e cambiamento nel sistema. È la trasgressione sistematica a creare l’innovazione. Per dirla usando un fraseggio di Massimo Canevacci Ribeiro: è l’indisciplina metodologica.

    Non è il conflitto come rappresentato nello spettacolo (da tutti i partecipanti, compresi quelli conflittuali), quello con le violenze, le molotov e i manganelli a innovare. È, piuttosto, l’incedere polifonico e indisciplinato di miriadi di individualità non coordinate, che attuando un proprio stile di riappropriazione spaziale (sia fisico che digitale), creano di continuo il conflitto, la trasgressione, il movimento lungo i confini e gli interstizi.

    Il complesso industriale ha già reagito a questo scenario, cercando di risolvere il paradosso enzensbergeriano intervenendo su linguaggi e immaginari, codificando i troublemakers. Ad esempio, è molto interessante notare come l’ascesa in Italia di Telecom nell’arena delle culture digitali sia iniziata proprio dall’arte digitale. Con il Future Centre di Venezia e con iniziative come RomaEuropa Web Factory ha aperto la strada alla codifica del troublemaking, creando di fatto l’incipit per il sorgere della nuova classe di colletti blu dell’industria creativa. (non a caso uno dei nostri primi interventi in materia è stato proprio attraverso la performance collettiva del RomaEuropa FakeFactory)

    Matura l’idea dell’innovazione come inseguimento di una singola forma di futuro

    Questo tipo di percorso è evidente in tutto il mondo, ovviamente: dovunque è un sorgere di istituti culturali, fabbriche dell’arte digitale, officine della creatività. Le metafore linguistiche non sono nemmeno velatamente nascoste: si creano spazi e occasioni (dagli spazi di coworking, agli incubatori, agli hackathon); si co-optano i creativi (makers e hackers); li si trasforma in centri di ricerca precari (startup, incubatori, fablab); si genera valore e scalabilità/replicabilità (accelerazione); si prendono le poche idee buone e si generano profitti, vendendo (exit).

    Questo modello, potenzialmente virtuoso, soffre però di molteplici svantaggi, soprattutto al livello della discussione sociale e politica. Innanzitutto, si riconduce rapidamente nel paradosso dell’industria creativa: codificando, si riporta all’integrazione del conflitto e della trasgressione e, quindi, all’incapacità di innovare.

    Poi, crea precarietà, scaricando il rischio di impresa. I 20mila euro (o giù di lì) di finanziamento iniziale di una startup sono sicuramente molto inferiori al rischio cui si incorre assumendo anche un solo, singolo ricercatore. I grandi operatori fanno la “call”; ricevono le proposte da schiere di precari che offrono la loro idea; selezionano con cura quelle più fattibili e in linea con i propri obiettivi di business (in maniera diretta e indiretta); elargiscono il piccolo capitale; incubano, istruendo il team su immaginario e metodologia di lavoro; se dovesse andare male, spendono meno di quando avrebbero speso per un singolo dipendente, avendo però ottenuto un intero team a lavorare notte e giorno, senza contributi, ferie, malattie, straordinario, sindacato e così via; se dovesse andare bene, si apprestano alla exit, di cui prenderanno la propria quota, sicuramente più alta dell’equivalente risultante dalle altre forme di investimento industriale o finanziario.

    Oltretutto, facendolo, promuovono il diffondersi degli immaginari sociali utili all’infiltrazione culturale del proprio business: matura l’idea dell’innovazione come inseguimento di una singola forma di futuro, invece che aprire alla pluralità dei futuri possibili, tipicamente in direzione armonica con la fibra ottica, i sensori, i robot e tutti gli altri prodotti del complesso industriale che finanzia l’iniziativa.

    Questo modello, oltretutto, promuove grandi dislivelli e diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza: l’immaginario dell’eroico startupper, della cultura del fallimento, della “billion dollar startup”, et similia assomiglia più ad una lotteria che ad un modello di diffusione equa della ricchezza. Oltretutto, viene anche banalizzato il ruolo della tecnologia stessa, e dell’idea di come si possa trovare soluzione ai maggiori problemi del pianeta.

    La tecnologia diventa un feticcio, in grado di essere di per sé garante della risoluzione di problemi energetici, ambientali, umani. Come pure si instrada l’immaginario che vede piccoli gruppi di persone unirsi per 24 ore di hackathon o nello sforzo di produrre una App o un sito web per affrontare grandi problemi che sono politici, sociali e culturali, non certamente tecnici. Ciò è, ovviamente, riduzionistico e semplicistico.

    Tutto questo, in tempi di crisi, diventa potenzialmente uno scenario apocalittico: quando l’istruzione, le iniziative istituzionali, le arti e la spesa culturale vengono completamente inondate da iniziative di questo genere – con l'”ora di coding” che diventa d’un balzo più importante della filosofia, giusto per dirne una –, diventa immediatamente chiaro chi gestisca le redini di questo processo, e in sostegno di quali strategie.

    Tornando alla domanda iniziale: come fare per preservare la possibilità del conflitto e della trasgressione e, così, mantenerne gli effetti positivi in termine di visione critica del mondo, e di conseguente apertura possibilistica alla molteplicità di futuri e immaginari?

    Per cercare una possibile risposta, è interessante usare la metafora del giardino. Nel suo Giardino in Movimento Gilles Clément esplora le possibilità di un tipo giardino nuovo, emergente, mobile e in perenne mutazione, che nasce nelle friches, i terreni incolti, quelli che la storia denuncia come una perdita di potere dell’uomo sulla natura. “E se si posasse su di loro uno sguardo diverso? Non sono forse le pagine nuove di cui abbiamo bisogno?”

    Da un lato, storicamente, la forma – la forma controllata – godeva dell’enorme potere di proteggerci dai residui diabolici dell’ignoto. Dall’altro lato, “le friches non hanno a che fare con nulla di morente. Nel loro letto le specie si abbandonano all’invenzione. La passeggiata in una friche è un perpetuo interrogarsi. […] Questo grande potere di conquistare lo spazio non potrebbe mettersi al servizio del giardino? E di quale giardino?”

    Il Terzo Paesaggio è una sfida in movimento, con bordi e confini mutevoli e perennemente in discussione. È l’erba(ccia) che cresce tra i mattoni e i binari del treno. È lo spazio naturale delle nostre città che non è ancora stato codificato.

    Clément parla apertamente della necessità di educare ad un nuovo tipo di sguardo

    Nelle nostre città, la gran parte della biodiversità si trova nel Terzo Paesaggio. È un tessuto connettivo, composto da spazi residuali, resistenti alla forma ed al governo. È trasgressivo, in questo. È un moltiplicarsi di narrative. Non è una proprietà, ma uno spazio possibilistico per il futuro.

    Se John Barrell parlava del “lato oscuro del paesaggio”, alludendo alle sue forme controllate come ad una imposizione del punto di vista di una singola classe sociale, Clément parla di un suo lato luminoso: il Terzo Paesaggio non è un modello esclusivo, ma inclusivo; è un “frammento condiviso di una coscienza collettiva.” È una trasgressione mutevole, che opera in maniera emergente attraverso molteplici punti di vista ed intenzionalità. È una mappa sincretica che si sviluppa assieme al modificarsi delle aree residenziali, industriali o del commercio. È la geografia della mutazione della città.

    Clément parla apertamente della necessità di educare ad un nuovo tipo di sguardo per cogliere l’importanza e la valenza del Terzo Paesaggio: di una nuova possibilità per la visione e per la disseminazione dei saperi negli ambienti naturali urbani.

    La necessità, in sintesi, di una nuova estetica, di una nuova sensibilità

    Questo è un punto di vista potenzialmente rivoluzionario, che apre le porte alla possibilità di percepire l’emergente, il conflittuale, il trasgressivo, e di trasformarlo in una forma di conoscenza condivisa.

    Lo stesso discorso, ad esempio, può essere fatto a partire dalle considerazioni di Marco Casagrande sulle rovine, intese come il progressivo riunirsi degli oggetti e delle architetture alla natura.

    Se, da un lato, le rovine rappresentano una perdita di potere dell’essere umano nei confronti della natura, dall’altro lato, secondo una estetica differente, rappresentano la vita della città, dimostrandone usi e non-usi: l’azione (e non azione) degli esseri umani porta gli edifici in uno stato differente, trasformandoli in rovine e, così, producendo l’evidenza della loro storia e di quella della natura. Le rovine, a tutti gli effetti, costituiscono una sorgente condivisa ed estremamente accessibile ed utilizzabile di saperi e informazione.

    Secondo Casagrande la Città di Terza Generazione è la rovina della città industriale, e diventa reale quando riconosca la propria conoscenza locale, facendola diventare una parte della natura. In queste metafore, dal mio punto di vista, è possibile cercare una soluzione. Come fare?

    Occorre una nuova estetica, una nuova sensibilità, che consenta di riconoscere il valore (e, quindi, di sostenere direttamente) della stratificazione continua nelle nostre città (e nell’ambiente in generale) dell’incosciente, del trasgressivo, del conflittuale, del differente, sì da valorizzarlo in quanto nuovo materiale costruttivo, capace di innovare quanto di preservare la storia e i saperi, e di trasformare spazi e processi.

    Trasgressione e conflitto, come forma di sapere emergente condiviso

    Dal Terzo Spazio di Bhabha e Soja, al Terzo Paesaggio di Clément, alla Città di Terza Generazione di Casagrande, al Terzo Paradiso di Pistoletto, al Terzo Infoscape, come lo chiamiamo noi, alludendone alle sue manifestazioni informazionali.

    Una nuova estetica, una nuova sensibilità, un nuovo immaginario, che corrispondano alla possibilità di istituzioni di forma nuova, ecosistemiche, responsabili non solo di strategie, ma anche della possibilità di emersione delle tattiche, delle trasgressioni e dei conflitti. Non solo “certificatori e attuatori di norme”, ma anche e soprattutto sostenitori diretti e responsabili dell’ambiente in cui possano avvenire trasgressione e conflitto, come forma di sapere emergente condiviso.

    Riprendendo la metafora di Clément, insieme ad un immaginario riguardo un nuovo tipo di giardino, serve anche una nuova concezione del giardiniere: “È certo difficile immaginare quale aspetto prenderanno i giardini per cui è prevista un’esistenza non iscritta in nessuna forma. A mio parere, giardini di questo tipo non dovrebbero essere giudicati sulla base della loro forma, ma piuttosto sulla base della loro capacità di tradurre una certa felicità di esistere.”

    Note