Diario di una rigenerazione umana a Palermo

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    8 Febbraio 2014, dopo quasi due anni di lavoro e numerosi ostacoli superati, apriamo a Palermo l’Ecomuseo Urbano Mare Memoria Viva, che di quel mistero prova a individuare le ragioni sociali, politiche, urbanistiche, cercandole nelle storie e nelle immagini degli abitanti delle borgate marinare. CLAC l’ha ideato, progettato e realizzato sperimentando sul campo una metodologia originale di creazione partecipata, tantissimi hanno contribuito, la Fondazione con il sud l’ha finanziato e il Comune di Palermo ha messo in condivisione l’Ex Deposito Locomotive di Sant’Erasmo che ci ospita ancora oggi.

    «Le ragioni che impediscono ai palermitani di tener presente il loro mare, sono un mistero. Tanto più che il nome stesso della città dichiara, esplicitamente, che la città è tutta un porto» (Fulvio Abbate Zero Maggio a Palermo, 1990).

    Di quel giorno ricordiamo la tensione e la gioia, gli anziani  che si emozionano a ritrovarsi sui monitor, i ragazzini che hackerano i tablet per collegarsi ai videogame e un fiume di persone che riempie tutti gli spazi accessibili.

    Raccontando Mondello e il mare di Palermo, in una puntata recente de Le Meraviglie  su Radio tre, e facendo riferimento alle zone nuove della città, lo scrittore Giorgio Vasta dice: «un luogo apparentemente privo di rilevanza nel momento in cui coincide con la propria origine diventa per questo uno spazio significativo […] il valore narrativo di un luogo non sta nel fatto di essere legato a un valore artistico, dipende dallo sguardo di chi racconta». È esattamente l’operazione che abbiamo fatto con Mare Memoria Viva: costruire valore narrativo per luoghi marginali, lavorare sulle radici per diventare consapevoli del presente e quindi inventare il futuro. Ma, continuando a usare le parole di Vasta, a  Palermo: «i progetti sono sempre incerti, vaghi, non si sa esattamente chi riesce a realizzarli, sono sempre realizzati parzialmente e nelle varie parti della città si parla, infatti, di tutto quello che ancora sarebbe possibile fare e non viene fatto».

    A Sant’Erasmo, dove il margine tra progetti illegali realizzati e promesse mai mantenute, si disfa nel fiume Oreto, noi qualcosa stiamo facendo. Da tre anni sperimentiamo un’inedita alleanza pubblico-privata con il Servizio Musei e Spazi Espositivi dell’Ass.to alla Cultura del Comune:  il pubblico garantisce il personale che tiene aperto, copre le spese delle  utenze e la pulizia; noi non abbiamo le chiavi, lo spazio non è stato dato in concessione ma abbiamo creato il museo, attrezzato lo spazio, messo tutto il “contenuto”, curiamo gli exhibit, le attività educative, culturali, di audience development, fund-raising.
    Ci confrontiamo con una burocrazia che non sa dove collocare una “terza via” che non sia né pubblico né privato ma “comune” e non ha indicatori per quantificare il valore d’uso di un bene collettivo che era vuoto ed ora è rigenerato, aperto, accessibile. Fiutare lo stato del tempo, come fanno i surfisti: giorni di calma piatta per poi vedere il mare ingrossarsi, prendere l’onda, rimanere in equilibrio, cadere e aspettare il momento giusto per ritentare. Chi ha esperienze di PPP o ha a che fare con la pubblica amministrazione sa che il surf può essere una grande metafora.

    In tre anni, di onda in onda, numerose attività culturali gratuite e inclusive, un percorso educativo innovativo sui temi della città e della cittadinanza, decine di progetti presentati. I numeri standard non sono alti se confrontati con i grandi musei, ma sono aumentati progressivamente e con continuità – sul sito www.marememoriaviva.it i report annuali -. Una media di 5000 visitatori l’anno, di cui 1800 studenti, in una periferia dove non c’è niente, e senza budget per i primi tre anni (solo quest’anno, nel 2017, il Comune ha stanziato 20.000 euro per le attività di valorizzazione dell’intero anno), sono il risultato di un lavoro quotidiano di tessitura di fili fragili; di incontri nelle scuole, con le associazioni, i volontari, gli abitanti; di creazione da zero di un’offerta educativa tutta da inventare e saper comunicare, di esperimenti vari per avvicinare le persone a uno spazio narrativo non convenzionale, per modificare la rappresentazione della “città oltre l’Oreto”.

    È stato ed è un lavoro quotidiano per prove e tentativi, perché puoi anche avere come obiettivo la “rigenerazione urbana”, ma in un territorio devastato dal sacco edilizio senza una pianificazione strategica condivisa e ampia non puoi fare molto altro che agopuntura e cercare di darle un senso; perché puoi anche credere nel turismo di comunità e nelle narrazioni di quartiere, ma se non c’è una visione politica complessiva su come orientare i flussi cittadini, e per arrivare al tuo museo non c’è segnaletica, è probabile che i tuoi bellissimi tour rimarranno senza prenotazioni. Perché puoi anche iniziare dicendo che vuoi fare progetti di comunità, ma puoi anche scoprire che la comunità non c’è, e allora bisogna cominciare a fare un primo cerchio e poi allargarlo piano piano.

    Penso spesso che quella dell’ecomuseo è una storia di cerchi, dei tanti cerchi che qui si sono fatti, e dei più disparati: bambini che fanno barchette di carta, nonni che raccontano, attivisti no borders, ortisti sinergici, urbanisti hipster, danzatori e scout per dire i primi che mi vengono in mente. E poi quelli che abbiamo disegnato fuori dal museo con i pescatori del porticciolo vicino, i commercianti di via Messina marine, i ciclisti, gli studenti.

    Così oggi la creazione di relazioni passa attraverso la voce e gli sguardi  del gruppo che si prende cura del museo, ne conosce le storie, i volti, gli spazi, i problemi.

    A volte siamo come una barca a vela: a bordo si creano relazioni forti, si stabiliscono legami, si deve lavorare insieme e rispettarsi, anche stare al proprio posto al momento giusto. Scrive Larsson ne La saggezza del mare: «Ci sono molte cose utili e preziose da imparare dalla frequentazione del mare. L’umiltà, la tenacia, la pazienza, la cooperazione e la vigilanza. Ma soprattutto, la libertà». Ci penso spesso quando penso al team dell’ecomuseo: la passione multiforme per il mare e le storie ci fanno incontrare, e tenacia, pazienza, cooperazione sono parole chiave, così come libertà. C’è qualcosa di anarchico che permane, forse per lo spazio aperto o per il tanto raccontare di mare e vite corsare, forse perché i bambini quando entrano si mettono subito a correre o perché noi ci ostiniamo a volere cambiare le cose e non accettare le regole ingiuste come immutabili.

    Scrive sempre Larsson: «Se si è svegli e affamati, si vede una tormentosa quantità di cose. Se si è apatici e indifferenti, poco importa quali orizzonti scivolino nei nostri giorni». È un essere “affamati” tanto diverso da quello di Steve Jobs, è quello della gente di mare e della gente del Sud, fame e sete di giustizia, di movimento, di cambiamento, di vita dignitosa e libera. In mare l’individualità scompare tra i flutti, in acqua è più facile sentirsi parte di un tutto. Fame di non sprecare e proteggere la bellezza che ci circonda e renderla disponibile a quante più persone possibili.

    Nel nostro Ecomuseo proviamo a far sì che il mare insegni e racconti il diritto alla città, al paesaggio, all’acqua, al patrimonio e al tempo libero così da  ispirare azioni collettive, pensiero divergente, attivazione e creatività indipendente.

    L’ecomuseo è una narrazione collettiva di Palermo e del suo mare. Prima di uscire e trovarsi nello spazio aperto dove campeggiano i murales colorati dei bambini del quartiere, l’ultima delle installazioni audiovisive è il frammento di un film documentario su Giuliana Saladino, scrittrice e giornalista del Giornale L’Ora, forse la migliore chiusa di questa nostra narrazione volutamente aperta perché appartiene al presente e al divenire: una sintesi poetica, amara e lapidaria che descrive ciò che Palermo era nel 1970 e ancora oggi. Le parole sono tratte dal  libro Romanzo politico, un elenco ipnotico di rovine e meraviglie: «È bella. Mentre l’ora legale tiene sospesa la sera ha il mare rosa e le montagne celesti, o il mare celeste e le montagne rosa, poi tutto sfuma in un viola malva e resta solo il neon. È brutta. Volta le spalle al mare e si protende verso i giardini di limoni, li inghiotte e avanza con casermoni pullulanti, con strade senza fondo senza alberi senza fognature, con gli ingorghi di auto, con i boss in testa, con immondizie accatastate agli angoli, con nuovi vecchi abitanti carichi di elettrodomestici e cambiali». E poi conclude: «Non è Europa e non è Africa,  non è capitalismo e non è feudalesimo. È solo una sacca».

    Ecco, a volte mi sembra che tutto quello che facciamo è per liberarci, uscire fuori da questa sacca: a volte ci riusciamo, nuotando, continuiamo a provarci con dedizione, fatica e bellezza. Quello che serve è tempo, tempo per durare. Non c’è cambiamento nelle periferie senza durata, senza lavoro quotidiano, da formiche.

    L’abbiamo chiamata “rigenerazione umana”: non è illuminata dai riflettori, non passa dal Piano Regolatore o dalle Smart Cities, quasi sempre non è notiziabile, nel breve termine non sarebbe forse nemmeno premiata dagli indicatori di impatto sociale, ma si realizza prendendosi cura dei gruppi, ascoltando le persone, rispondendo alle richieste, contrastando gli ostacoli che rendono difficili anche le cose semplici, facendosi domande scomode e avendo il coraggio di virare, ogni volta che è necessario, rimanendo aperti e accessibili ma anche sostenibili, imparando molte cose facendo insieme e, con un immenso lavoro organizzativo, tenere tutto insieme.

    Ai ragazzi che vengono in visita diciamo sempre: «la città è fatta di persone, siamo noi che le diamo forma, siamo noi che vivendo lo spazio possiamo modificarlo». Per questo non può esserci rigenerazione urbana che non passi dalle persone, dall’educazione, dalla creazione di legami, dalla comprensione dei problemi e delle risorse.

    La pinna nobilis è un mollusco endemico del mediterraneo che produce un filamento con cui la conchiglia si attacca al fondale. Da questo filamento si tesseva il Bisso, forse il più prezioso dei tessuti: leggero, iridescente come madreperla, fatto di quei fili sottilissimi ma resistenti nati per ancorarsi al fondo marino e resistere alle tempeste.

    Una bellezza che è un misto di fragilità e perseveranza, come lo è Mare Memoria Viva e la sua rigenerazione umana. Perché la bellezza bisogna saperla trovare non chiudendo gli occhi davanti all’ingiustizia

     

    Immagine di copertina: ph. Alessio Rinella da Unsplash

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