Roma: diritto alla sicurezza senza sicurezza dei diritti

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    “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no” scriveva Albert Camus nel 1953. “Qual è il contenuto di questo ‘no’? […] Questo no afferma l’esistenza di una frontiera. Si ritrova la stessa idea di limite nell’impressione dell’uomo in rivolta che l’altro esageri, che estenda il suo diritto al di là di un confine altre il quale un altro diritto gli fa fronte e lo limita”.

    A questo dobbiamo pensare oggi. A quanto stiamo esagerando, a quanto stiamo estendendo diritti pretesi oltre i limiti, e a quanto sia fondamentale la rivolta per capire, per capirci, per svegliarci dall’assuefazione che ci permette di accettare, quotidianamente, le violazioni dei diritti minimi e per decidere, ancora una volta, da che parte stare.

    “Siamo rifugiati! Non siamo terroristi! Siamo rifugiati! Non siamo terroristi!” Le parole dette dai migranti eritrei in risposta allo sgombero del palazzo di via Curtatone e replicate nel presidio spontaneo in piazza Indipendenza a Roma rappresentano la risposta al sillogismo securitario che sembra guidare le recenti politiche di polizia del nostro paese.

    Se da una parte in nome della lotta al terrorismo si stanno riducendo gli spazi di mobilità e di speranza delle persone che chiedono il diritto alla fuga, e il diritto a stare, abitare, vivere nelle nostre città, dall’altra la giornata di oggi ci dice in modo chiaro che questa confusione è ingiusta, che non è quella la direzione da percorrere. Ci ricorda che stiamo superando un limite, e che quello che ci aspetta oltre non può che essere nefasto. Sono parole di rivolta, che rendono visibile la frontiera della civiltà che stiamo costantemente infrangendo.

    Quelle parole rappresentano una forma di resistenza, una domanda di diritti, uno status di esistenza ancor prima che di cittadinanza sociale e politica, e suonano come l’avamposto di quel mondo possibile che riempie pagine di trattati ma che sembra, giorno dopo giorno, sempre più lettera morta.

    Ancora una volta, il senso ci viene restituito da coloro che stanno subendo un trattamento inumano (se per umanità ed umanitario si intende quella corrente di pensiero politico che dalla seconda guerra mondiale ha visto come base democratica il celebre “diritto ad avere diritti”) e degradante, perché la reiterazione delle violazioni è costante e massiccia e non distingue diritti e non diritti. Il senso ci viene restituito da chi non ha voce e trova la forza e il desiderio della rivolta, il bisogno di essere riconosciuti e di vedere i propri diritti legittimi tutelati.

    I fatti sono noti: il 19 Agosto viene sgomberato un palazzo in via Curtatone a Roma, che da anni rappresenta una delle più grandi occupazioni della città. Nel palazzo vivono circa 1000 persone, eritree, molti con documenti e con riconosciuto status e persecuzioni pregresse, in un paese di provenienza che versa nel caos, sotto l’egida di Isaias Afewerki, che non ha più indetto elezioni dal 1993, quando è salito al potere.

    A seguito dello sgombero, molti degli occupanti si spostano nelle adiacenze di piazza Indipendenza. La mattina del 24 Agosto vengono svegliati dalla polizia che sgombera la piazza con idranti e spray urticanti, adducendo come giustificazione “le informazioni di alto rischio pervenute, inerenti il possesso da parte degli occupanti di bombole di gas e bottiglie incendiarie”.

    Tra le dichiarazioni raccolte dai video sul luogo, un funzionario viene filmato mentre afferma “Questi devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio!”. Senza volere entrare nel merito della legittimità dello sgombero di via Curtatone, colpiscono i modi, i toni e le pratiche dell’intervento in piazza Indipendenza.

    Le immagini ricordano Gezi Park, lo sgombero e gli scontri che avevano infervorato Istanbul e la Turchia tutta. Perché quella scena a Roma, oggi? Perché quella veemenza? Cosa c’è di intollerabile in quel sit-in? Forse, è proprio il timore di quella rivolta, il timore di quelle parole, ad essere non accettabile, quel ricordarci che andiamo affermando recinti e confini propri; quel costante esercizio di rimozione dell’altro, del noi, in nome delle paure, reali ed immaginate.

    Poiché nessuna parte politica si assume la responsabilità della richiesta di quello sgombero, possiamo supporre (in malafede, ovviamente) che il quadro che va delineandosi è un quadro di riappropriazione dello spazio politico che si declina secondo le modalità classiche descritte da molti sovranisti nei momenti di crisi: protezione dei confini esterni e mantenimento dell’ordine pubblico all’interno del territorio come strumenti principali per rafforzare la relazione fragile cittadino-stato.

    Non a caso il ministro Minniti, fresco di nomina promulga in tempo record due decreti poi tradotti in legge sulla sicurezza urbana e sulla gestione delle migrazioni. Se da una parte il primo va affermando i confini sempre più netti tra la città dei consumatori e la città degli esclusi, soprattutto perché poveri, spesso perché migranti (poco importa se rifugiati); il secondo focalizza il tema del controllo del confine Mediterraneo, ed è stato presupposto giuridico per la regolazione dei flussi dalla Libia e per il codice di condotta delle ONG nello spazio SAR.

    In entrambi i casi, l’accesso alla ricchezza è il presupposto per l’accesso alla sicurezza, e per la possibilità di stare o attraversare gli spazi della città, i territori, i confini. La scena di ieri ricorda i due blitz in Stazione Centrale a Milano, e allo stesso tempo, per ragioni differenti, gli interventi anti-movida a Torino e ai rastrellamenti dei tossicodipendenti di Rogoredo.

    Richiama alla mente una serie di interventi in cui la sproporzione tra esercizio della forza pubblica e rischio reale è palese, al punto che spesso risulta facile immaginare che quell’esercizio della forza pubblica sia il fine, e non il mezzo, di quegli interventi.

    Quello sfoggio di potere statale, quella costante pratica del controllo degli ultimi, rafforza l’idea che ci sia una capacità risolutiva dei problemi, rassicura, risolve rapidamente con spazzole e aspiratori le paure dei cittadini.

    In particolare, queste paure sembrano raccogliersi attorno allo stazionamento di persone negli spazi pubblici. Sono le aiuole, le rotonde, i marciapiedi, i piazzali delle stazioni i campi di battaglia della paura. Sono questi i terreni dell’invasione.

    L’assenza di un posto proprio, di una casa, di un’invisibilità all’occhio dell’osservatore è l’esigenza principale e la matrice fondamentale delle fobie quotidiane. Non è chiaro se sia l’attenzione posta su questi fenomeni a generare l’allarme sociale ad essi connesso o viceversa, tuttavia, l’aspetto fondamentale è restituire, in tempi rapidi e attraverso immagini e video, la capacità delle “nostre” forze dell’ordine (leggi Stato/classe dirigente/governo) di risolvere i problemi, di svuotare le piazze, di pulire le città, di “far sparire” quelle marginalità che vanno ad alimentare l’immaginario (precedentemente amplificato) dell’insicurezza.

    Allo stesso modo, rispetto al confine “esterno”, il controllo delle ONG, la criminalizzazione delle stesse come Pull Factor, l’accordo con la Libia che permettono di sbandierare numeri in calo negli sbarchi, vanno ad agire sullo spazio mediterraneo, anch’esso teatro di paure ed invasioni; poco importa se il prezzo da pagare sarà la riduzione dello spazio dei diritti, il maggiore costo dei viaggi e la superiore rischiosità degli stessi.

    Rassicurare attraverso la legalità, rafforzare i confini (reali e simbolici della sicurezza) sembrano le armi apotropaiche sfoderate per allontanare la paura sempre più reale di un possibile attacco terroristico, e al contempo lo strumento vincente per le prossime, ipotetiche elezioni. Un paradigma che si ripete indipendentemente dal colore politico sin dal 2008, nei giorni concitati dopo la morte di Giovanna Reggiani, ma che ha rafforzato frequenza e veemenza nella domestica e ancora ipotizzata war on terror.

    Nella costante campagna elettorale, nella ricerca permanente di consenso e di voti, è come se lo spazio del politico, della politica, del dialogo e della negoziazione, ormai atrofizzato, avesse lasciato il campo ad un esercizio smisurato del controllo sociale, molto più capillare e sistematico di quanto visto in precedenza, del tutto disarticolato dagli indirizzi politici degli amministratori, che riporta oneri ed onori in capo al Viminale.

    E mentre veniamo rassicurati dalle immagini degli idranti, dall’installazione a profusione di new jersey a ridisegnare le geografie metropolitane tra blocchi ed esclusione, sulla frontiera di quella protesta ci stiamo giocando la sicurezza dei diritti che Baratta invocava come vera risposta al diritto alla sicurezza.

    Camus, nei passi successivi, afferma che l’uomo in rivolta è tale perché desidera e giudica. Quel desiderio di giustizia, di giustiziabilità, di libertà che ha mosso il pensiero politico democratico nello scorso secolo si ferma in quella frontiera. L’abbiamo messa noi, e stiamo quotidianamente rafforzandone i piantoni. Affermando quotidianamente la nostra differenza, alimentando la diseguaglianza, stiamo, di fatto, allontanando i diritti dalla loro realizzazione.

    La protesta di oggi, quella parola in rivolta che giudica, è al contempo lo slancio di libertà, lo spiraglio sul possibile. Quella fatica, quello sforzo, giudicano la nostra pigrizia, l’apatia, la passiva accettazione, la colpevolizzazione assolutoria del “paese reale”.

    Quella rivolta sgomberata con gli idranti fa appello al nostro desiderio di diritti, desiderio che non può che essere collettivo, perché quei diritti negati sul selciato romano riducono la democrazia tutta, restringono anche il nostro spazio democratico. Perciò sta a noi, decidere da che parte di quella frontiera vogliamo stare e quali diritti e città vogliamo desiderare, perché quel no, quella rivolta, quella protesta e quei diritti non possano essere sgomberati.

    Note