L’essenza del cambiamento non sta appena nei suoi esiti (rispetto ai quali a volte ci avvitiamo in rendicontazioni solo formalmente inappuntabili), ma, come sostiene Hirschman, soprattutto nella consapevolezza della sua possibilità. Il passaggio a cui le organizzazioni sono chiamate, dipende, infatti, dalla consistenza di questa consapevolezza e del bisogno di “agire il cambiamento”, quasi a prescindere dal fatto che si riesca o meno (o solo in parte). A tal proposito Havel distingueva l’ottimismo dalla speranza dicendo “La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire”. È solo dentro a questa consapevolezza che anche il fallimento assume una rilevanza generativa e in termini di apprendimento. Su questo dovrebbero anche puntare le risorse di recovery: assumere l’apprendimento che migliora le capacità e rilancia le aspirazioni come indicatore per l’allocazione e la valutazione, altrimenti non “ristoreranno” nulla e saranno davvero “a fondo perduto”.
È rispetto a questa rappresentazione del cambiamento inteso come discontinuità che interroga il contesto, l’economia e la politica, che il terzo pilastro – rappresentato dalle comunità e dalle loro organizzazioni (d’impresa in particolare) – si gioca la sua missione sostanziale e non solo normativa. Una prospettiva questa profondamente corrispondente ai soggetti che abitano la “Terra di Mezzo” che il carattere pubblico del loro orientamento e la loro capacità di mutualizzare risorse, è in grado di far emergere peculiarità che non solo arricchiscono l’offerta esistente, ma soprattutto il quadro di senso e, con esso, anche le relazioni fra gli altri attori. Il terzo pilastro è infatti in grado di iniettare nel sistema sociale ed economico una quantità e qualità di beni completamente diversa da quelli tradizionalmente pubblici e privati, generando (in maniera spesso non controllata) un effetto autenticamente trasformativo.
Alcuni esempi sono già evidenti e non più allo stato di buona pratica o di testimonianza eroica, ma ormai come vettori di cambiamento sociale dove il neo-mutualismo, inteso come meccanismo sociale prima che come set di forme giuridico – organizzative, fa da collante. Si va da movimenti sociali di cittadinanza dal basso per la cura dei beni comuni alle filiere economiche sostenibili e inclusive che investono sulla dimensione di luogo per intercettare economia e socialità dei flussi; dalle politiche pubbliche mission-oriented e coprogettate che estendono in senso comunitario il welfare, fino agli investimenti che tengono insieme innovazione tecnologica e impatto sociale trattando la conoscenza come un valore condiviso tra comunità scientifica e apporto dei practitioners.
“La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso indipendentemente da come andrà a finire.”
Affinché questo sia effettivamente possibile è necessario però imparare a gestire, in tutti gli ambiti e livelli appena citati, la sfera digitale sia per destrutturare che, soprattutto, per risocializzare diversamente le “risorse di legame” che generano significati condivisi dell’azione collettiva. Il fatto che si tratti ancora questa dimensione in termini di potenziale dice di un notevole ritardo, ma chi ha saputo, soprattutto nel contesto pandemico, educare la propensione al rischio e, insieme, migliorare la capacità di osservare, si è messo in una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti.
Una posizione capace di generare un’innovazione sociale ad alta densità tecnologica che poggi su presupposti culturali in buona parte diversi da quelli che hanno monopolizzato fin qui il contesto – e riconducibili all’archetipo della Silicon Valley – ma che oggi denotano una sempre più evidente crisi di legittimazione del loro modello di crescita basato su criteri di massimizzazione e di concentrazione del valore.
Oggi il “comparto comunitario” ha la possibilità di fare socializzazione e inclusione con una tecnologia che non è un surrogato, ma un elemento strategico per un’azione che Andersen e Pors definiscono di “potenzializzazione”. In sintesi non stiamo parlando dell’ennesimo tool, ma un nuovo veicolo di relazione dove “il mezzo” è sempre più coerente con il processo sociale di elaborazione del contenuto.
Nell’era della purpose economomy – che, va ricordato, rappresenta la più importante realizzazione del terzo pilastro – il vero passaggio trasformativo non risiede quindi più, o non solo, nel misurare la quantità di “bene” di un determinato servizio o attività (magari guardando semplicemente alle sue esternalità), ma nell’assegnare valore al bene prodotto. Si tratta, in sintesi, di innestare nella catena del valore il bene affinché sia trasformativo e non “fare del bene” solo una piccola parte, limitandosi a gettare qualche granello di sabbia nella macchina delle value chain oppure consolandosi citando Diderot quando diceva “non basta fare il bene, bisogna farlo bene”. Imprese, istituzioni sono, non a caso, sempre più ispirate al bene comune, per effetto del quale il valore è l’esito di un’alchimia (una produttoria) che non separa l’utilità dalla produzione di significati e relazionalità.
Se quindi il valore generato postula “il bene” come primo movente e non come esito, continuare a propugnare un’ideologia di separatezza tra il terzo pilastro e gli altri, segnala non solo un limite concettuale e strategico, ma, al fondo, una scarsa fiducia nel suo potenziale trasformativo, ammantata da esigenze di tutela dell’integrità. Invece, come ricorda Zamagni, il terzo pilastro è emergentista, non più però rispetto a sé – perché la sua fase nascente è ormai terminata simbolicamente con l’approvazione della riforma normativa – ma nel senso che è in grado di sviluppare peculiarità che cambiano tutto il resto, a iniziare dalle relazioni fra gli altri attori istituzionali.
La comprensione di questo passaggio non è però solo razionale, ma legata al fatto che sia desiderabile.
E purtroppo in queste posizioni di separatezza si coglie l’assenza di desiderio rispetto alla possibilità di un cambiamento positivo e duraturo, rischiando così di lasciare mano libera a pratiche opportunistiche e di colonizzazione da parte dello stato e del mercato e sacrificando così il carattere trasformativo che caratterizza l’intraprendenza comunitaria in una fase in cui la transizione verso nuovi assetti sta fortemente accelerando.