Venezia: iperturismo nostalgico e comunità residenti

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    Sabato pomeriggio, sto bighellonando fra Piazzale Roma e Campo S.S. Apostoli e la gente si accalca, cammina lenta, in quella che sembra la prima giornata di un’estate che si è fatta attendere troppo a lungo. Chiunque abbia frequentato Venezia per un tempo sufficientemente lungo troverà lapalissiana la constatazione di quanto non sia né il momento né il tragitto migliore per spostarsi. 

    Comunque, sono qui proprio per questo motivo: avanzare lentamente riordinando le idee – trovare uno spunto – per scrivere di Venezia e turismo percorrendo la direttrice dei flussi turistici che include i principali punti di accesso alla città. Senza scomodare le walking methodologies, cerco di percepire ritmi diversi da quelli che animano la mia esperienza della città e – magari – farli dialogare, confrontarli. Ecco spiegato perché ho scelto un’area particolarmente apprezzata dagli escursionisti. Nel gergo tecnico degli studi sul turismo, una categoria marcatamente eterogenea di visitatori accomunati dalla scelta di spostarsi dal proprio luogo di residenza – oppure da un’altra località dove soggiornano – per meno di 24 ore così da non pernottare nella destinazione appena raggiunta. 

    Non c’è dubbio, a seconda del contesto di riferimento, tutti siamo stati escursionisti per una gita fuori porta, una visita ad una mostra, una passeggiata per le vie di una vicina città d’arte. Forti di un’incrollabile fede nella genuinità delle indicazioni raccolte da una rapida disamina dei risultati di una ricerca online e alimentati dall’euforia della distanza – tanto fisica che mentale – dal nostro quotidiano, ci è sembrato che quella città fosse lì solo per accoglierci, divertirci, intrattenerci. Spogliando la questione di ogni poesia, la nostra escursione si riduce a un’abbordabile giornata di evasione mediata dall’acquisto di beni e, soprattutto, servizi che si suppone permettano di conoscere, esperire ed esplorare l’atmosfera della città, ma che – purtroppo – si traducono molto frequentemente in pratiche di consumo dello spazio urbano. 

    Forse la questione così suona troppo astratta, ma la passeggiata dà i suoi frutti. Lupus in fabula. Mi affianca un addio al celibato/nubilato, sarebbero ufficialmente vietati anche se ne ho incontrati sette in un tragitto di meno di 2 km. In breve, sono stati rimbalzati e si lamentano: «[…] ma neanche un’ombra [in Veneto, un bicchiere di vino della casa]?! Siamo qui solo per oggi e guarda sto @#$!!%&! ÷ø!!»   

    Inconsapevolmente queste poche parole inquadrano la questione. Lo spazio urbano è inteso come un luogo di consumo, un’ambientazione in cui è possibile sospendere le norme di condotta quotidiane in virtù dell’eccezionalità della situazione e/o della brevità della permanenza.

    Tuttavia, questo è solo un caso specifico, la punta dell’iceberg. Cosa potremmo intuire valutando le interdipendenze esistenti fra una moltitudine di pratiche di diversione e lo spazio urbano su cui insistono?  O più esplicitamente, cosa accade ad uno spazio urbano se lo si intende unicamente come contesto funzionale ad ospitare pratiche che, per pervasività e diffusione, ne erodono la pluralità di significati e funzioni? 

    Accade che si innesca una trasformazione, un processo di semplificazione della complessità dello spazio urbano, che ne determina il ripiegamento su una delle funzioni superstiti. Nel caso di Venezia, ad esempio, la città corre il rischio di essere ridotta a mera destinazione turistica, un prodotto modellabile a piacere e per capriccio, un giocattolo. 

    Immagino siano riflessioni simili a questa ad aver ispirato gli editor di Wetlands per la scelta del titolo de Il giocattolo del mondo. Venezia nell’epoca dell’iperturismo (2022) – pubblicazione recentissima che propone una versione aggiornata e tradotta di Venice, The Tourist Maze. A Cultural Critique of the World’s Most Touristed City (2004) di Robert C. Davis e Garry R. Marvin. 

    Come per l’originale, l’argomentazione è organizzata attorno a timescape, landscape, seascape e worldscape, quattro declinazioni specifiche del costrutto prospettico scapes elaborato da Arjun Appadurai. Una scelta che, offrendo diverse prospettive, intende trasferire sulla pagina la complessità della relazione fra Venezia e il turismo. Con uno stile agile e scorrevole, l’analisi si articola in una descrizione della cultura materiale che aiuta a far emergere e individuare tanti dei problemi che affliggono la città: lo stato di salute della laguna, la reale direzione delle politiche dell’amministrazione comunale, una tendenza sempre più marcata alla privatizzazione dello spazio pubblico, la gentrificazione, lo spopolamento e si potrebbe continuare, ma la questione più pressante è proprio l’ultima. Non è uno spauracchio retorico, è un rischio incombente considerando che, molto probabilmente, sarà durante il 2022 che la popolazione ufficialmente residente nella città antica scenderà sotto la soglia delle 50000 unità – anche se c’è chi sostiene che sia accaduto ormai da tempo. 

    Nell’accezione più ampia possibile, la tematica legata all’abitare a Venezia è complessa e problematica per molti aspetti che includono: gli elevati costi per acquisto, restauro o manutenzione di un immobile; la sensibilità del mercato degli affitti ad orientarsi verso comunità transitorie – prima gli studenti e poi, sempre più, i turisti – con una disponibilità economica più elevata rispetto a quella delle comunità residenti; l’erosione dei servizi dedicati alla residenzialità in alcune aree della città a vocazione prettamente turistica; la competizione per l’accesso a servizi e risorse sottodimensionati rispetto alle necessità dei fruitori come suggeriscono le frequenti polemiche legate al trasporto pubblico locale; la scarsità di offerte di lavoro non ascrivibili all’indotto turistico; la tendenza alla privatizzazione dello spazio pubblico. 

    Non per scadere nel mal-comune-mezzo-gaudio, ma queste considerazioni possono aderire alle realtà di molte città che hanno votato le proprie economie al turismo. Nel caso di Venezia sono le proporzioni del fenomeno, la morfologia della città e la visibilità internazionale a rendere drammaticamente reali queste riflessioni. Tuttavia, le narrazioni legate alla decadenza e al declino di Venezia non ricorrono solo ad analisi o dati scientifici. Molto spesso sono intrecciate a pregiudizi legati alla natura e al funzionamento di memoria, tradizione e autenticità. Termini di uso comune che intesi nelle loro accezioni più banali finiscono per trasformarsi in impermeabili e immutabili monoliti riferiti ad un passato a-storico, un’età dell’oro. 

    Tutte queste narrazioni legate al topos dell’autentica Venezia ormai decaduta fanno riferimento a un prima in cui riecheggia il c’era una volta di favole e fiabe. Il vero dato da registrare non è un’idea precisa, condivisa o condivisibile di quale sia il momento storico a cui tornare, ma l’esplicitazione di una serie di necessità e istanze rilevanti per la sopravvivenza delle comunità residenti.  Infatti, ad oggi, Venezia è ancora una città e, proprio in quanto tale, ha un margine per invertire il processo di erosione del tessuto sociale che anima la realtà urbana. 

    Nonostante i reali problemi legati allo status di Giocattolo del mondo, Venezia ospita ancora comunità residenti che, conoscendo la natura policentrica e poliritmica della città, ne sfruttano le geografie mobili ed effimere per rinsaldare il legame e l’appartenenza reciproca fra lo spazio urbano ed i suoi abitanti. Le realtà associative e i “veneziani per scelta” citati nelle ultime pagine del volume edito da Wetlands sono un riferimento a queste comunità anche se la sinteticità con cui sono presentati gli eventi che li riguardano restituisce il peso della sproporzione quantitativa fra visitatori e residenti, oltre alla constatazione che è difficile credere che la situazione generale della città si evolva per il meglio in un prossimo futuro. Dispiace solo che la riflessione si chiuda così, con la nostalgia per un passato immaginato mentre lo sguardo al futuro si vela di rassegnazione. 

    Sotoportego Falier – appena in tempo – scoppia un acquazzone e per poco più di un minuto l’odore della pioggia invade la città, è ora di tornare a casa a sistemare gli appunti.  

    Note