«La cultura è, senza dubbio, ciò che di meglio fanno le città», dice Zukin, e distingue la cultura prodotta dalle industrie culturali, «in cui artisti, designer e performer producono e vendono il proprio lavoro creativo» dalla cultura come «repertorio visuale, nel senso di linguaggio pubblico» in cui i diversi gruppi sociali che vivono nelle città producono simboli e li mettono, di fatto, a disposizione di chiunque [1995, 264].
Il padre di Spike Lee, come il figlio, è un produttore di cultura, e ha creato linguaggi musicali integrati nel quartiere afroamericano di Fort Greene nella Brooklyn tra gli anni Sessanta e Novanta. Quello che lamenta il figlio, dall’alto della propria posizione nel campo del cinema internazionale e in quello dell’intellettualità afroamericana, è che la moneta di scambio culturale prodotta dal padre, il «jazz sul pianerottolo», non viene vista dai nuovi abitanti ricchi come una forma apprezzata di cultura locale quotidiana, come qualcosa da rispettare e apprezzare, ma considerata invece alla stregua di «rumore domestico».
La vita afroamericana di Brooklyn di ogni giorno, che aveva sostituito negli anni quella ebraica e quella italo-americana, viene ora a sua volta spiazzata dall’arrivo di una nuova popolazione, questa volta più ricca, e piuttosto ambigua nei confronti della cultura precedente [Zukin 2010]. insomma, come dice ancora una volta bene Zukin, «i simboli culturali hanno conseguenze materiali» [1995, 268] ed è esattamente questo il problema sollevato dalle politiche culturali e, dunque, dalla gentrification.
Come hanno mostrato gli studi culturali degli ultimi decenni, spesso sulla scorta del lavoro seminale di Pierre Bourdieu sulla Distinzione, guardare alle frontiere culturali tra gruppi e classi sociali consente la presa in considerazione di come le nuove forme di disuguaglianza si basino sempre di più sui consumi, gusti e repertori simbolici [Lamont e Molnár 2002; Lash e Urry 1993].
Una galleria d’arte, in sé, non rappresenta certamente un «problema sociale» ma la sua presenza all’interno di un quartiere che era stato disertato dagli artisti per diversi decenni segnala che è in corso un cambiamento, che «qualcosa» si sta muovendo.
Come abbiamo infatti già visto, i nuovi spazi del consumo sono legati in maniera diretta alla gentrification perché gli attori coinvolti nell’acquisto degli appartamenti rimessi a nuovo sono gli stessi che producono, in qualità di stilisti, insegnanti, architetti ma anche camerieri, baristi e avventori, la rappresentazione collettiva del consumo pubblico negli spazi urbani.
Consumo e produzione sono, nel quadro dell’economia simbolica, una cosa sola perché «gli stili di vita urbani non sono semplicemente il risultato, ma la materia prima della crescita dell’economia simbolica» [Zukin 1998, 826]. Le transumanze notturne verso alcuni quartieri e vie per il «rito dell’aperitivo», l’offerta di feste di strada, di mercati all’aperto itineranti, di tutto quell’insieme di effervescenze urbane che fanno sembrare una città vivace, dinamica e attrattiva sono parte della cultura urbana, sono un testo attraverso il quale leggere le trasformazioni contemporanee, a cominciare dal fatto che la vita quotidiana non è più incentrata sui ritmi del lavoro fordista e sull’alternanza tra produzione e riproduzione sociale ma si sarebbe, viceversa, «liberata» grazie al ruolo del consumo.
L’interconnessione tra stili di vita, forme culturali e produzione di spazio poggia certamente sui mutamenti generazionali legati all’incedere progressivo dei baby boomer e, soprattutto, dei loro figli, ma anche sui mutamenti delle economie dei paesi capitalistici e la progressiva sostituzione della produzione manifatturiera con quella immateriale.
Secondo Zukin, dobbiamo considerare anche altre due trasformazioni [1998, 825]: da un lato lo sviluppo di una cultura postmoderna, e in particolare l’esaltazione della capacità individuale nel distruggere e ricomporre le identità attraverso il consumo, e dall’altro la crescente differenziazione delle metropoli, dovuta all’intensificarsi delle mobilità internazionali di migranti e turisti. Le città sarebbero dunque sempre più multiculturali e super diverse [Amin e Parkinson 2002; Baumann 1999; Vertovec 2007], in un quadro culturale che esalterebbe la manifestazione pubblica di queste differenze, in particolare attraverso le pratiche del consumo [Hannigan 1998].
Questo spiegherebbe, ad esempio, l’enfasi contemporanea per le cucine etniche, dove l’esaltazione di regionalismi e di differenze culinarie implicherebbe una critica costante e diffusa verso la normalizzazione e la standardizzazione delle pratiche di consumo moderne (quelle, per intendersi, tipiche della vita suburbana). Consumare visibilmente, reggendo in mano un kebab oppure sorseggiando un mojito, secondo questo approccio, è dunque parte della diffusione di stili di vita urbana di una classe media che, come segnalano diversi studi, rifiuta di essere considerata una classe sociale e insiste viceversa sulla propria irriducibile differenza e individualità.
Il consumo, per molte classi medie contemporanee, sarebbe propriamente l’arena in cui illustrare al resto della società la propria piena integrazione e legittimità [Sassatelli, Santoro e Semi 2015]. Il diritto a consumare pubblicamente e vistosamente sarebbe perciò la traduzione di classe (media) del diritto alla città teorizzato in passato da Lefebvre [1968].
L’estetizzazione delle pratiche di consumo è perciò una doppia produzione di cultura urbana: in primo luogo perché il palcoscenico dove queste rappresentazioni avvengono giorno dopo giorno va progettato e costruito. La città è fatta anche di insegne, arredamenti, mezzi di comunicazione e forme espressive adeguate, ma anche di viabilità e infrastrutture digitali [Graham e Marvin 2002]. In secondo luogo, come già detto, perché la visibilità di queste pratiche è un modo per alimentare la spirale dell’economia simbolica.
Un quartiere è «alla moda» se è visibile la sua trasformazione, se ospita abitanti giovani, se viene celebrato dai media locali, nazionali e talvolta internazionali come luogo in cui passare un gradevole fine settimana. Soffermiamoci però sugli effetti problematici locali e torniamo dunque alla gentrification.
Il problema essenziale che investe questo tipo di trasformazione è che, pur volendosi cosmopolita, accessibile a chiunque e dunque universale, in realtà non può per definizione includere ogni abitante della città. Se la moneta di scambio è culturale, è necessario essere in grado di riconoscere il linguaggio in uso, e per fare questo occorre esserne parte, avere avuto una socializzazione che comprenda almeno una parziale conoscenza di che cos’è il vino biodinamico, una tematica lGBtQ o il significato di trend-setter o hipster.
Come ha scritto Caroline Mills, «La gentrification è una “soluzione ambientale” a determinati obblighi sociali: rende le cose “fattibili”. ciò che è legittimamente “fattibile” dipende, però, da ciò che è “pensabile”» [1988, 164].
Pensare la propria vita all’interno di un quadro urbano piacevole, pieno di servizi e di elementi attrattivi, da condividere con amici dai gusti simili, implica l’adozione di un linguaggio che descriva questo ideale di vita e di società.
Un linguaggio che i professionisti del settore come gli agenti immobiliari devono saper maneggiare per poter convincere i possibili acquirenti che un’architettura vittoriana, ad esempio, è davvero ciò che fa al caso loro [Jager 1986].
Questo linguaggio, come ogni linguaggio, è una forma di potere e disegna delle mappe di disuguaglianza in cui anziani, immigrati, ma anche classi medie tradizionali, possono trovarsi relegati ai margini e considerati dei «consumatori tradizionali» se non proprio dei «conservatori».
Parole come «loft» o «open-space» non costituiscono necessariamente un panorama lessicale condiviso, dunque, e servono semmai a costituire quelle frontiere simboliche che rendono le disuguaglianze sociali «pensabili» e, successivamente, «fattibili».
Potremmo perciò rovesciare la prospettiva sino a qui adottata e sostenere che la gentrification rappresenti in sintesi la manifestazione immobiliare e commerciale dell’irresistibile avanzata dell’economia simbolica. Essa non solo allontana fisicamente gli abitanti precedenti, quando ciò accade, o impedisce che altri tipi di abitanti si stabiliscano nei confini centrali della città più innovativa e moderna: stabilisce soprattutto un linguaggio legittimo di descrizione e comprensione di questa trasformazione che esclude chi non sia in grado di comprenderlo e maneggiarlo.
I gentrificatori sono parte integrante di questo meccanismo e non solamente alla stregua di un pubblico di spettatori. Sono, per dirla con Zukin, «l’infrastruttura critica» che «esemplifica e scrive a riguardo dei nuovi trend culturali» [1998, 831] operando come traduttori e mediatori culturali tra il mondo della produzione e del consumo.
Studiare il linguaggio della gentrification, e le culture che in essa trovano un ambiente adeguato per svilupparsi e imporsi, significa perciò prendere in considerazione i meccanismi di dominazione sottile che operano nella città. Quelli che, per intendersi, sono più difficili da scovare e da criticare: attaccare la «cultura», dirsi preoccupati dinnanzi al miglioramento dei servizi locali, criticare la vivibilità di un quartiere, mette chi osa farlo nella spiacevole posizione di doversi difendere dall’accusa di conservatorismo, di mantenimento dello status quo o, peggio ancora, di tradimento della propria condizione di privilegio intellettuale.
Su questo punto occorre dunque essere particolarmente avvisati e consapevoli: non si sostiene la tesi del «si stava meglio quando si stava peggio», ma la valutazione delle trasformazioni urbane non può avvenire indipendentemente dall’interrogativo circa chi ne usufruirà e chi ne verrà escluso.
Estratto da Gentrification di Giovanni Semi (Il Mulino)