Dare al lavoro la qualità del tempo libero: da qualche anno a Kilowatt (l’organizzazione di cui faccio parte) abbiamo deciso di sintetizzare la nostra impact vision con questa formulazione accessibile e di un certo successo. Una frase nata inizialmente dall’osservazione del funzionamento del nostro ambiente lavorativo – le Serre dei Giardini, un community hub a Bologna – e poi diventata generativa per la nostra vita professionale e relazionale.
La (storia della) relazione tra lavoro e tempo libero è una buccia di banana. Obbliga a prendere in considerazione illustri precedenti e presenta il rischio costante di cadere in una prospettiva riduzionista. La nostra frase sembra per certi aspetti un modo per frequentare un cortocircuito, quasi un witz freudiano, che tradisce – in entrambi i sensi – provenienze lettriste, reminiscenze marxiane (e francofortesi) e implicazioni organizzative.
Cercheremo in questo articolo di tirare un colpo gobbo: fare esplodere l’opposizione tra lavoro e tempo libero grazie all’intervento della componente ludica, un gioco “che non cessiamo di spostare” tra le due polarità.
I lettristi (poi passati alla storia come situazionisti) dicevano nel numero 7 del Potlach (il loro bollettino) che una “sola avventura” è “degna di considerazione: la messa a punto di un divertimento integrale”. Per fare questo, sottolineavano, è necessario ribaltare il rapporto tra lavoro e tempo libero. Senza ricostruire l’archeologia del sapere ludico lettrista a partire da Durkheim, Mauss, Horkeimer e Adorno, ecc. (rimando all’ottimo Manuale di psicogeografia di Daniel Vasquez), richiamo qui solo la doppia morfologia di Durkheim, una doppia quotidianità, una doppia organizzazione della società, in base a cui alcune popolazioni organizzano i propri comportamenti sociali: quella dell’estate e quella dell’inverno, quella dell’intimità domestica e della condivisione del piacere sociale, quella del profano e del sacro. Il mondo del lavoro VS il mondo delle relazioni.
Una cosa curiosa in questa archeologia è che ovunque affiora un’ambiguità: quella tra libero e ludico, che si protrae persino nel libro che del gioco fa l’oggetto del dissertare, ossia il celebre Homo ludens di Huizinga (del 1938), che sosteneva che il gioco «non è la vita “ordinaria” o “vera”. È un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria». Una sfera di evasione. Di nuovo la domanda: l’evasione è frame ludico o tempo libero? Sembra rispondere Eco, proprio nella prefazione all’Homo ludens, quando ci fa notare che il problema nasce perché Huizinga non distingue tra game e play, cioè tra gioco come frame ludico in cui inserirsi (ambiente di gioco) e gioco come “messa in gioco”, mettersi in gioco a prescindere dal campo di gioco. Vorrei proporre un’ulteriore differenza, il cui riferimento è un esempio in ambito musicale. Carl Dahlhaus ricostruisce, nel suo libro L’idea della musica assoluta, la genesi in termini di pratiche e storia delle idee di una musica “astratta”, ossia non riconducibile a una funzione specifica (la cosiddetta “musica a programma”). La musica assoluta (che oggi accettiamo come musica classica in senso lato), verso la metà dell’Ottocento, si sviluppa come ambito non funzionale a un obiettivo (intrattenimento, accompagnamento, frame di relazione). La musica assoluta nasce insomma quando si passa da una prospettiva della composizione come mezzo a una sua accettazione come fine.
Allo stesso modo, possiamo riconoscere una prospettiva del gioco come oggetto, come fine, che potremmo chiamare di gioco assoluto e una prospettiva di gioco come “pretesto”, come insieme di strumenti relazionali per ottenere fini specifici in un contesto. Alla prima prospettiva diamo il nome di prospettiva interna (o verticale), perché guarda al gioco dall’interno di un punto di vista “tecnico”, del tecnico del gioco. Alla seconda prospettiva diamo il nome di prospettiva esterna (od orizzontale), perché guarda al gioco come dispositivo di relazione, nelle diverse declinazioni e articolazioni possibili. La mia tesi è che quando si parla di gioco in un’organizzazione (aziendale) si fa confusione tra i due livelli. Si pensa al gioco come ambiente circoscritto, come fine, che però ha un inizio e una fine, e non al gioco come dispositivo distribuito, come prospettiva relazionale.
Salto al presente. Metà aprile 2017, lunedì, molto lavoro, tante visite inaspettate. Entrano in ufficio due signori vestiti da astronauti e mi chiedono: “Chi è il capo qui?” Non è semplice rispondere che da noi non esistono capi. In primo luogo perché essi non stanno chiedendo di un “responsabile” per il piacere di farlo, ma per la necessità di riconoscere a qualcuno una responsabilità. I due non sono astronauti ma disinfestatori che stanno cercando un nido di processionarie da debellare: non possono affidarsi alla prima persona che incrociano.
In questo episodio e in tanti altri simili si manifestano micro variazioni nel quotidiano dipendenti da una strategia organizzativa deliberata: la trasformazione di un’azienda tutto sommato tradizionale, Kilowatt, una cooperativa di lavoro, nata dall’aggregazione di competenze ed esperienze professionali, in un’azienda bossless. Senza capo significa senza gerarchie, con processi decisionali condivisi, ma anche e soprattutto suddivisione dei ruoli aziendali basati sull’emersione di attitudini personali da valorizzare. Si tratta di fidarsi collettivamente di una leadership distribuita e arrivarci piano piano, con strumenti e risultati intermedi misurabili, grazie a processi di continuo allineamento.
Bossless è una parola che sta entrando nell’universo semantico dell’innovazione (specialmente sociale), in Italia. Si scrivono i primi articoli (che, tipicamente, mettono insieme cose molto diverse tra loro, come quando si parla di gioco), escono i primi libri sulle strutture organizzative orizzontali. Da un punto di vista narratologico, bossless è un concetto bizzarro: è la fine di un percorso (di una storia) che porta a una disgiunzione (dal capo), non a una congiunzione, il contrario di ciò che avviene normalmente alle storie. Questo fatto è la sua principale condanna, in termini di credibilità: basarsi sulla ricerca di una mancanza e non su una presenza. Quella del capo. Qui sta l’equivoco.
L’approccio bossless nasce con due obiettivi:
1) Per decostruire la struttura gerarchica aziendale tradizionale con l’obiettivo di creare strutture più snelle e più adeguate all’innovazione. Ossia, dietro all’approccio bossless c’è la necessità di adattare la struttura organizzativa alle esigenze di inseguire, interpretare, anticipare mercati in rapido movimento.
2) C’è poi la necessità di creare modelli organizzativi del lavoro che facilitino l’attivazione di passioni individuali e relazionali – attitudini e talenti – dentro la dimensione del lavoro – ossia all’interno del tempo e delle mansioni lavorativi.
Proprio qui si annida un passaggio importante: l’attenzione a una variazione qualitativa più appassionante del lavoro, basata non solo su competenze ma anche su talenti, va compresa da un punto di vista relazionale, non solo individuale. Non si tratta solo di fare quello che mi piace. L’emersione di un talento da “valorizzare” sul lavoro – che chiameremmo possibilità di effettuare una propria “messa in gioco” – è anche e principalmente riconoscimento reciproco dentro il gruppo di lavoro in cui esso si esprime. In questo bossless significa darsi criteri di giudizio condivisi e fare una valutazione collaborativa (tra pari) della buona riuscita dell’attività di ciascuno in un orizzonte di benessere relazionale del gruppo di lavoro – siamo portati a dire dell’ambiente lavorativo – in cui si è inseriti.
Eclatante a tal proposito l’esempio di Valve, azienda (e struttura organizzativa) benchmark e leader del mercato dello sviluppo di giochi e ambienti ludici digitali. Essa è infatti bossless nel senso più estremo del termine, cioè spinge la mutua valutazione anche a ciò che del lavoro è dominio per eccellenza, che difficilmente cioè può essere appropriato dal tempo libero: lo stipendio, deciso in base a una peer review tra colleghi (non essendoci capi a giudicare).
Il tema è che però dentro Valve tutti sanno giudicarsi. Valve è orizzontale come lo è flatlandia: l’attività principale è una (lo sviluppo software) e non si intrecciano settori diversi, come invece avviene in altre organizzazioni (Kilowatt compresa). Le conseguenze non sono tanto di complessità di processi, ma di complessità interpretativa e di giudizio del lavoro degli altri.
Quando invece passiamo a un’organizzazione dove si mettono insieme ambienti produttivi che fanno riferimento a settori diversi, flatlandia non basta più. Douglas Hofstadter parla, nel suo celebre Gödel Escher Bach. Un’eterna ghirlanda brillante, di gerarchie aggrovigliate. “Si ha una Gerarchia Aggrovigliata quando quelli che si presume siano livelli gerarchici ben precisi e netti inaspettatamente s’intrecciano in un modo che viola i principi gerarchici”.
Sotto (o sopra) una gerarchia aggrovigliata c’è sempre un livello inviolabile, sostiene Hofstadter, lo hardware del sistema. Per il cervello è sotto (è il sistema hardware dei neuroni). E per un’organizzazione qual è?
Forse a vostra volta vi starete chiedendo: cosa ha in comune la relazione lavoro / tempo libero con la relazione tra organizzazioni gerarchiche e organizzazioni orizzontali? Le righe che seguono si insinuano dentro strani anelli per scovare punti di osservazione differenziali su questi temi. Ossia, propongono uno sguardo sul nostro mondo del lavoro a partire da una questione organizzativa e relazionale del lavoro e della sua relazione con il tempo libero. Riassumendo per punti:
1 Ogni relazione (come qualsiasi opposizione o assiologia) dipende da dove la si guarda. Se guardo il tempo libero dal punto di vista del mondo del lavoro, esso assume un’accezione di tempo “liberato”, marxianamente parlando, per ridare linfa al lavoro. In questo caso il gioco non può che essere game, simulacro ludico funzionale al tempo del lavoro stesso, sia che esso si traduca in frame ludici dentro il lavoro sia che serva a generare o rigenerare energia per il lavoro. Se il punto di vista è una forma di colonialismo, colonizzare il lavoro con il tempo libero significa guardarlo dal punto di vista del tempo libero stesso, ossia giudicarlo in base a una prospettiva opposta; e così, usare il gioco come play, come attenzione relazionale distribuita.
2 La struttura bossless, se vogliamo definirla in positivo, è una struttura relazionale. Il livello inviolabile del suo funzionamento è fatto da un insieme di strumenti di osservazione, mutua attenzione, allineamento, coinvolgimento di attori che costruiscono un ecosistema relazionale, il vero hardware dell’organizzazione senza capi. Questo, va detto, vale per il cuore dell’organizzazione ma anche per chi vi passa accanto o la incrocia, ossia per tutta la filiera della relazione. Se prendiamo come riferimento la Teoria del cambiamento di Angela Kail e Tris Lumley, nell’ecosistema relazionale dell’azienda bossless non si può considerare solo chi dell’organizzazione fa parte, ma chiunque (partner, pubblici, altri soggetti) contribuisca a generare il cambiamento.
Il nostro modo di sgrovigliare una gerarchia aggrovigliata è una spirale relazionale che va dal livello informativo (i pubblici tradizionalmente intesi) a un livello gestionale (i soci dell’organizzazione), passando dal livello consultivo, co-progettuale e co-produttivo. Questa spirale è un continuo passaggio dal sé al gruppo (non a caso si parla, nelle organizzazioni bossless più avanzate, di self management) e significa non dare mai per scontato che un grado di coinvolgimento e di comprensione dello hardware relazionale sia definito una volta per tutte.
3 L’habitat lavorativo – da un punto di vista spaziale e processuale – deve essere strutturato attorno a questa spirale, che significa agio relazionale, dove ogni soggetto è in continuo movimento, verso l’interno ma anche verso l’esterno. Ecco perché:
- serve un ambiente di lavoro che permette una continua via di fuga che non sia un’evasione ma un guardarsi da fuori;
- non bisogna dare per scontato e anzi “forzare” momenti di allineamento, darsi strumenti di gestione dello stress, costruire un profilo partecipativo dell’osservazione, come dice Edoardo Lucatti in Eccedere l’empirico;
- bisogna darsi indicatori di valutazione dell’andamento dell’organizzazione che siano, oltre che di risultato economico, qualitativi e relazionali.
Enrico Baj osservava, a proposito di una celebre spirale (“simbolo di eterna ricerca, rotante senza fine su sé medesima”), che “tutto è patafisico eppure pochi lo mettono in pratica coscientemente”. Servono pratica, consapevolezza, osservazione (strumenti di emersione di ciò che è già in essere) e misura (trasformazione del qualitativo in confrontabile), come in tutte le soluzioni, anche quelle (per ora) considerate quasi immaginarie.
Immagine di copertina: ph. Paul Carmona da Unsplash