Studiare i processi locali e cittadini in un periodo di grandi sommovimenti nazionali ha qualcosa di corroborante: la possibilità di sviluppare uno sguardo strategico, e leggere nella scala ridotta e accessibile delle vicessitudini micropolitiche i riflessi, se non addirittura i precedenti, delle innovazioni di stampo nazionale.
Roma è in questo senso un caso paradigmatico. Le politiche che riguardano l’annosa questione della sua rinascita hanno dato modo a chi l’ha governata negli ultimi vent’anni di sviluppare supposti modelli di crescita e valorizzazione. Ad esempio, uno dei concetti che le amministrazioni capitoline, indipendentemente dal colore politico, hanno sempre rivendicato nei proclami della propaganda è quello della rigenerazione urbana: l’idea per cui, investendo in un tessuto sociale disgregato, lo si possa riqualificare sfruttando le energie presenti sul territorio. Insieme ai modelli nordeuropei di smart city, di città decorose, ecologiche, brandizzate, collaborative, tourist friendly e così via, la rigenerazione è stata sempre propugnata quale cavallo di battaglia del progresso e della modernizzazione, primo e ineludibile passo verso l’Eden urbano che verrà.
La rigenerazione dal basso: la città è di chi la abita
D’altra parte, Roma dovrebbe partire avvantaggiata. L’immensa ricchezza di realtà autogestite che la caratterizza offre ottimi esempi di riqualificazione autofinanziata, di innovazione sociale in contesti di degrado urbano, di rigenerazione spontanea portata avanti da piccole comunità locali che sono le sole, attualmente, a rendere ancora vitale e frequentabile una città altrimenti in perenne decadenza.
L’occupazione di via Umberto Partini denominata OZ – Officine Zero rientra appieno in questa definizione. OZ, multifactory e coworking di 20.000 mq, è uno spazio situato a ridosso della stazione Tiburtina, il nuovo e tanto decantato hub della mobilità romana. Al fallimento dell’azienda nel 2012, la fabbrica – precedentemente sede di RSI, società manutentrice dei treni notte – è stata occupata dagli operai in Cassa Integrazione, in raccordo col vicino centro sociale Strike e gli abitanti di Casal Bertone. L’obiettivo era non solo quello di mantere la produzione e i posti di lavoro che la fabbrica garantiva al territorio, ma di rigenerarlo, questo lavoro, traghettandolo dalla subordinazione all’autonomia, e renderlo libero, cioè senza padroni.
Il progetto è riuscito, è cresciuto e si è radicato nel territorio. Oggi è un luogo vivo che si relaziona con il quartiere e le istituzioni locali, dalla scuola al carcere, vincendo bandi e realizzando progetti comuni e comunitari. La visione rivendicata e soprattutto praticata nel quotidiano è quella di una rigenerazione urbana che parta in primo luogo dalla rigenerazione del tessuto produttivo della città, sempre più sbrindellato e atomizzato in rapporti di subordinazione che ne disgregano le potenzialità conflittuali. In questo senso il co-working di Oz incarna lo spirito di un lavorare insieme dove la solidarietà mutualistica tra lavoratori è il collante necessario alla soggettivazione dei lavoratori stessi. Non semplicemente condividere uno spazio, dunque, pagando con l’affitto il privilegio di lasciare la scrivania di casa, ma condividere un progetto, e attraverso quel progetto migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita in generale.
Ma sono tantissime, in realtà, le esperienze autogestite romane che hanno deciso di sottrarre all’incuria e alla speculazione privata spazi abbandonati, e di restituirli alla cittadinanza. È di qualche anno più vecchia – tre, per l’esattezza – l’occupazione mista di Metropoliz, al margine estremo della via Prenestina. Nel 2009 una ex-fabbrica di insaccati di proprietà Salini-Impregilo, abbondonata allo sfacelo e alla disgregazione, è stata scelta dal movimento BPM come sede abitativa per oltre 200 persone, 60 nuclei familiari. La multiculturalità degli abitanti – provenienti da paesi di tutti i continenti – ha dato vita nel tempo a un progetto artistico parallelo e integrato con l’occupazione abitativa stessa, il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove. In questo caso ad essere motore della rigenerazione urbana sono state le arti visive, utilizzate per creare connessioni, relazioni, mettere in moto processi creativi che rendano il vivere un determinato spazio più vicino a un abitarlo pienamente. La rigenerazione, qui e in molti altri luoghi autogestiti della capitale, parte e si sostanzia di un indispensabile lavoro culturale.
L’idea di rigenerazione espressa da realtà come OZ o Metropoliz è completamente diversa da quella che solitamente propongono alla città i grandi attori dei processi rigenerativi urbani, ovverosia i costruttori, per i quali “rigenerare” significa soprattutto “abbattere e ricostruire”, e il cui valore è misurabile numericamente in premi di cubatura.
OZ oggi è sotto sgombero: una lettera recapitata dagli addetti del Tribunale Civile ha comunicato agli occupanti l’ordine di abbandonare i locali, in conseguenza del processo di curatela fallimentare che insiste sull’area. Poco importa che quei locali oggi diano lavoro a più di cinquanta persone, e che da cinque anni sia attivo un processo di riqualificazione partecipata e di rilancio economico e culturale del territorio.
La nuova proprietà fa capo alla BNL, il gruppo finanziario che ha comprato l’intera zona attorno alla sua nuova colossale sede centrale a Tiburtina: 100.000 mq, 10 ettari di terreno, del cui destino la popolazione è a tutt’oggi oscura. Pochi sono i dati attualmente accessibili: sembrerebbe che la BNL abbia intenzione di costruire servizi per i suoi dipendenti e dirigenti – coworking, campi sportivi, asili nido, etc. Servizi dunque strettamente aziendali, dedicati, privati, a differenza di quelli offerti oggi da OZ e Strike, ad esempio, accessibili e popolari, comuni prima ancora che pubblici.
L’equivalente di dieci campi da calcio che finirebbero sotto l’egida di un pezzo di finanza internazionale, senza che la cittadinanza sia mai stata chiamata in causa o abbia potuto indirizzare o quantomeno intervenire a latere nel processo.
Gli effetti di questa enorme e futuribile trasformazione urbana sono già sotto gli occhi – e nelle tasche – degli abitanti: i prezzi degli affitti hanno iniziato a salire, e il costo della vita si sta rapidamente innalzando.
I processi di rigenerazione messi in campo dalle realtà autogestite romane – di cui OZ e Metropoliz non sono che un semplice e parziale esempio – sono stati spesso supportati e coadiuvati dalle tre università romane, che ne hanno curato, in toto o in parte, i progetti di ristrutturazione. Hanno connessioni e relazioni stabili con le istituzioni di prossimità, con i Municipi, le scuole, i Comitati di Quartiere, in qualche caso persino con il Vicariato. Malgrado tutto ciò, e malgrado le critiche entusiastiche e le visite spot dei politici di turno, OZ rischia di scomparire, mentre l’Impregilo ha denunciato gli occupanti di Metropoliz, accusandoli di furto e vandalismo. Ma ad essere veramente vandalico non è forse l’abbandono di immensi complessi industriali al degrado e alla marcescenza? E lo sgombero di posti del genere non sarebbe un furto alla cittadinanza?
La rigenerazione dall’alto: la città è di chi se la compra
La questione che dunque si pone è questa: di che tipo di rigenerazione urbana parlano le istituzioni romane quando parlano di rigenerazione urbana? Il caso di OZ e quello di Metropoliz sono particolarmente interessanti perché permettono a chi li osservi con occhi disincantati di mettere a fuoco un processo generale, che trova in questi luoghi gli ultimi residui di un conflitto sociale che altrove risulta totalmente calmierato. Sia OZ che Metropoliz sono infatti occupazioni di proprietà private: certo non nel senso di singole abitazioni di singoli cittadini – come a volte i detrattori della pratica dell’occupazione paventano in mala fede; ma proprietà di grossi gruppi imprenditoriali multinazionali – e finanziari, come nel caso della BNL – che sistematicamente perseguono i loro interessi a danno della popolazione locale.
Il conflitto tra interesse pubblico e interesse privato è dunque al centro dei processi di rigenerazione urbana, a Roma e altrove. I termini utlizzati sono spesso gli stessi, come dimostrano gli statuti delle Fondazioni di beneficenza patrocinati dai vari Unicredit, Enel, Eni, Impregilo, e così via: processi collaborativi, economie circolari, riconversione ecologica, tutto condito da render futuristici e grandi convegni pieni di belle speranze. Ma all’atto pratico si tratta di due visioni estremamente differenti, l’una improntata all’uso sociale, partecipato, condiviso dei beni comuni, l’altra al profitto, che hanno effetti diametralmente opposti sul tessuto urbano e sulla vita delle persone.
Chi dovrebbe mediare tra i due poli, ovverosia la politica, risulta tragicamente assente, quando va bene, e quando va male pienamente connivente con gli interessi privati. A partire dalle opere di compensazione, sempre chieste e mai realizzate dai vari costruttori, negli ultimi vent’anni la classe politica romana si è dimostrata e continua a dimostrarsi prona agli interessi degli investitori privati, chiamati sempre più spesso a sanare i deficit di bilancio e dunque d’iniziativa.
Ai capitali esterni sono così delegate le decisioni sulle destinazioni d’uso di intere fette di città, di interi quadranti o quartieri, in barba a qualunque progettazione unitaria, a qualunque idea anche vaga di città. Alle regole e alla legalità è destinato il compito di vegliare e calmierare la brama di profitto degli investitori; e poco importa che il banco sia truccato in partenza, che le regole siano state scritte per favorire chi ha liquidità da investire, più che idee da vendere: la città è di chi se la compra.
D’altronde, se la politica è sempre estremamente attenta a far rispettare le regole e ad imporre la legalità al mondo autogestito e variamente difforme che si è prodotto in questi anni a Roma per contrastare il degrado e l’abbandono istituzionale, lo è sempre di meno con chi mostra di avere soldi da spendere. Un caso su tutti, l’ex-Dogana, lasciata incontrastata a fare il buono e cattivo tempo in una zona come San Lorenzo, che avrebbe bisogno di investimenti nell’edilizia pubblica per il diritto allo studio e nella creazione di servizi adatti ad un quartiere giovane e multiculturale; e che invece viene lasciato preda di speculazioni come il futuro Student Hotel olandese, complesso di alloggi di lusso per la popolazione studentesca, ancora una volta nel nome del co-working e del co-living e della rigenerazione urbana.
Sembrerebbe un’idea di città e di legalità dove il rispetto delle regole vale solo per i deboli, e mai per i forti. In città siffatte, dove l’onestà e la giustizia restano concetti astratti, a guidare le scelte politiche e i progetti di riqualificazione non figura mai il principio di redistribuzione della ricchezza, né trova spazio l’autodeterminazione dei territori, intesa come meccanismo partecipativo fra abitanti e amministrazione, l’unico che ha dimostrato di poter produrre una rigenerazione vera e propria, e che viene invece puntualmente contrastato e messo a repentaglio da una politica pavida e suddita.
Prendere parte allo scontro tra interessi pubblici e privati nei processi di riqualificazione urbana si configura dunque sempre di più come un terreno di conflitto possibile per tutti quelli che, insieme a un’altra idea di città, vogliano ragionare sulle linee guida di un’azione politica a carattere nuovo, che tenga conto dei principi di inclusione e di giustizia sociale, attualmente difesi sorpattutto dalle realtà autogestite. Lavorare in questi laboratori permanenti, lottare per rimettere al centro del dibattitto l’autodeterminazione di chi i territori li vive, diventa allora cruciale per iniziare a ragionare, partendo dal concreto, su che tipo di sviluppo, progresso, modernità stiamo inseguendo, nel locale come nel nazionale.
Immagine di copertina: Metropoliz