Il ‘civic crowdfunding’ raccoglie miliardi di euro, ma deve basarsi su una comunità reale

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    Questo contributo apre una serie di approfondimenti in collaborazione con il Master U-RISE dell’Università Iuav di Venezia sul rapporto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale. La serie vuole discuterne gli impatti socio-spaziali, raccontare pratiche virtuose e allo stesso tempo imparare da ciò che non ha funzionato. I docenti del Master U-Rise Elena Ostanel, Adriano Cancellieri e Ezio Micelli (Università Iuav di Venezia), Ilda Curti (IUR – Innovazione Urbana e Rigenerazione), Martina Bacigalupi (The Fund Raising School) e Nicoletta Tranquillo (Kilowatt Bologna) ci accompagneranno in queste settimane con le loro analisi e riflessioni. Buona lettura.

    In questo periodo, il tema delle donazioni effettuate per i progetti territoriali ha riscosso l’attenzione anche di chi non è strettamente un addetto ai lavori, anche grazie alla popolarità del crowdfunding e a misure fiscali quali l’art bonus e il social bonus.

    Parlando di attivazione sociale, la parola più utilizzata è “civic crowdfunding”, civico perché coinvolge la cittadinanza che diventa il motore per la creazione di una community, che si ritrova a collaborare per ripensare un bene o una porzione di territorio oltre che a partecipare nella raccolta di risorse, determinanti alla rigenerazione dello stesso.

    La stessa parola community o comunità è un concetto di cui tanti si fanno fregio, quando poi si evince che manca una omogeneità nella definizione stessa di comunità

    Rende bene l’idea del fenomeno in atto questo numero: a oggi sono più di 12.700[1] i progetti finanziati in Italia attraverso piattaforme di crowdfunding donation and reward based. Considerando che la percentuale di successo si aggira intorno al 58%, è facile quantificare gli operatori che provano questo strumento per ricercare il sostegno economico auspicato: sono moltissimi!

    Il conteggio della community

    La facilità nell’accesso alle piattaforme e la notorietà del tema “crowdfunding” stanno creando grandi aspettative negli operatori sociali e culturali, una sorta di ottimismo incosciente che fa credere a chiunque abbia un progetto di rigenerazione di poterlo vedere finanziato dalla “sua” community.

    Tra l’altro la stessa parola community o comunità è un concetto di cui tanti si fanno fregio, quando poi, analizzando i diversi progetti, si evince che manca una omogeneità nella definizione stessa di comunità, a cui sono assegnati significati assai diversi.

    La mancanza di una definizione comune e condivisa, spesso ritagliata e adattata ai propri desiderata, diventa l’humus ideale per lo sviluppo di un secondo azzardo: da parte delle organizzazioni, soprattutto quelle culturali, si coglie una sorta di sopravvalutazione della propria comunità.

    Troppo spesso capita, infatti, che la comunità è fatta coincidere, attraverso una semplicistica equazione, con il numero di persone con cui entrano in contatto. La realtà però è ben più complessa e gli effetti di questa semplicistica lettura non possono essere positivi: possiamo avere migliaia di like, possiamo contare gli indirizzi e-mail e avere un ampio database, ma sono numerosi gli esempi di campagne di crowdfunding che, fondate su questi conteggi, hanno fallito.

    Un settore vivo

    La nota – assai – positiva è che il fundraising civico è vivo, con numeri in crescita quando si contano le donazioni verso progetti territoriali.

    Dal punto di vista numerico, le donazioni da individui al terzo settore hanno superato i 5 miliardi di euro nel 2017[2] con una crescita delle “buone cause” locali a dispetto di quelle internazionali.

    Nel 2018 i progetti civic-based e di match-funding in Italia hanno raccolto complessivamente circa 4 milioni di euro

    La chiave di lettura che, in prima istanza, appare più evidente è piuttosto ovvia: la gente dona maggiormente a progetti “vicini”, che toccano bisogni percepiti come propri, i cui risultati siano concretizzati in un bene comune materiale e visibile o percepito come tale.

    L’appartenenza territoriale è un fattore che ha una presa molto forte e riesce ad attivare con maggiore facilità le reti, così come la capacità di intrecciare diversi canali di finanziamento.

    Il valore del match-funding

    C’è una peculiarità, che completa la riflessione sul crowdfunding civico. I progetti “vicini” sono spesso promossi dalle stesse pubbliche amministrazioni (PA), attraverso partnership con organizzazioni del territorio, con l’obiettivo di «generare un senso di appropriazione del bene comune»[3].

    Secondo i dati di Starteed[4], nel 2018, i progetti civic-based e di match-funding in Italia hanno raccolto, complessivamente, circa 4 milioni di euro. Altro dato interessante è quello riportato dall’European Crowdfunding Network nel report Trigger Participation[5], che afferma come il tasso di successo delle campagne di raccolta fondi a sostegno di progetti per lo sviluppo sociale ed economico del territorio aumenta dal 60% al 90% quando viene utilizzato il match-funding, ossia la combinazione tra risorse raccolte tramite il crowdfunding e fondi pubblici (ad esempio i fondi strutturali).

    Si sta delineando una linea d’azione efficace e vincente, ma le potenzialità di un fundraising per progetti civici, attività intesa come complessa e di lungo periodo, sono ancora tutte da esplorare.

    Il fundraising è uno strumento strategico

    Va sottolineato, però, che sono pochi gli esempi di progetti di rigenerazione il cui fulcro è legato alla produzione di beni comuni, sostenuti regolarmente da donazioni.

    Chiedere soldi per un progetto di rigenerazione significa chiedere di interessarsi di qualcosa che tocca la nostra vita

    Più facile è individuare iniziative di attivazione sociale innescate a seguito della vittoria di bandi (viene in mente l’esempio del bando Culturability) o azioni di rigenerazione/riqualificazione di specifici beni, sostenute attraverso campagne di crowdfunding (molto studiato l’esempio del Portico di San Luca di Bologna).

    Gli esempi di progetti di rigenerazione dove il fundraising viene inserito come funzione strategica sono pochi. Fare fundraising non è un’azione puntuale, ma riguarda l’innesco di un processo che si sviluppa nel tempo, che ha la capacità di tenere unita la comunità intorno all’esistenza e allo sviluppo di un progetto, in cui la chiamata a raccolta per raggiungere l’auspicato finanziamento rappresenta solo la forza centripeta che attrae attorno a un tema da vivere in modo comunitario. Chiedere soldi per un progetto di rigenerazione significa chiedere di interessarsi di qualcosa che tocca la nostra vita.

    Solo quando impareremo a considerare questa tipologia di dialogo, ne comprenderemo le potenzialità in termini di attivazione continuativa di una comunità, senza la quale non può avvenire la rigenerazione.

    Troppo spesso, invece, si fa raccolta fondi improvvisando o rispondendo a un bisogno nel breve termine, senza possedere una visione matura di sostenibilità: il fundrising è inserito nei progetti già in corso o viene schiacciato sulla progettazione per bandi in una logica di brevissimo termine.

    Non è un GrattaeVinci

    Lode ai bandi e alle risorse economiche che infondono sui territori, ma non sono un GrattaeVinci, come qualche campagna di marketing provocatoriamente pubblicizza.

    Quando un bando è inserito in una strategia di sostenibilità, guarda all’impatto dei progetti e non si limita a valutare i risultati conseguibili grazie al finanziamento.

    Ne consegue che un’azione di fundraising per l’attivazione sociale di un territorio, per avere successo, abbia bisogno di almeno tre condizioni.

    La prima, fondamentale, è la capacità di visione del territorio e l’ideazione di progetti che abbiano un impatto trasformativo sul territorio, coerenti con quella visione. Senza canalizzare un’approfondita lettura del contesto e dei suoi bisogni verso una direzione lucida è difficile, per non dire impossibile, avviare un precorso virtuoso.

    La seconda precondizione riguarda la costituzione di un insieme di persone che sentano propria quella visione e che creino una community in grado di attivarsi per rispondere a bisogni comuni. Si tratta, quindi, di individuare un gruppo coeso capace di infondere l’energia necessaria a contrastare la forza d’inerzia, che è propria delle fasi iniziali di ogni progetto.

    La terza qualità di cui si abbisogna è capacità del progetto e dell’istituzione proponente, qualunque essa sia, di tenere viva questa comunità. Perché un processo di rigenerazione non termina con il taglio inaugurale del nastro, ma deve costituire un elemento vivo per il territorio, capace di essere alimentato con continuità dalla comunità. Che poi è l’unico risultato che conta, l’unico davvero utile a misurare il successo di un progetto di rigenerazione.

    Immagine di copertina ph. Mauro Mora da Unsplash


    [1] I dati si riferiscono a STARTEED, Il Crowdfunding in Italia. Report 2018, www.starteed.com, 01/02/2019

    [2] I dati sono quelli pubblicati da Vita, dicembre 2018

    [3] STARTEED, Il Crowdfunding in Italia. Report 2018, www.starteed.com, 01/02/2019, cit., p. 35.

    [4] I dati si riferiscono a STARTEED, Il Crowdfunding in Italia. Report 2018, www.starteed.com, 01/02/2019

    [5] Triggering Participation: A Collection of Civic Crowdfunding and Match-funding Experiences in the EU. https://eurocrowd.org/wp-content/blogs.dir/sites/85/2018/01/REPORT-final2.pdf

    Note