Cosa sono le comunità ibride di luogo, un nuovo modello di resilienza sociale

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    Comunità ibrida di luogo: insieme di persone in contatto tra loro nel mondo fisico e in quello virtuale, che condividono anche l’attenzione per un luogo (quello in cui vivono e/o quello verso il quale hanno un particolare motivo di interesse) e che, proprio per la loro natura ibrida e radicata, possono operare come comunità resilienti.

    Ritessere le relazioni tra le persone e i luoghi. Ricucire la rete della vita. Queste due semplici linee guida riassumono l’intero programma di quelle che oggi dovrebbero essere le politiche del quotidiano. Dove “oggi” significa dopo che la pandemia ha reso per tutti visibile e tangibile che l’impensabile può avvenire, e cambiare i nostri modi di vivere e di pensare.

    La pandemia, infatti, ci ha mostrato chiaramente che le persone non sono solo consumatori, ma anche soggetti con diverse motivazioni e sensibilità. Che la società non è solo mercato, ma un intrico di forme sociali diverse. Che la Terra non è un’astronave, cioè una macchina che possiamo conoscere e guidare a nostro piacimento, ma un organismo vivente di cui siamo parte e che non conosceremo mai del tutto. Che eventi catastrofici possono avvenire e che, quando capitano, nessuno si slava da solo. Tutto questo, contraddicendo molte delle idee che negli anni passati hanno creato i problemi con cui oggi ci scontriamo, potrebbe aprire la strada a modi di essere e di fare nuovi e migliori. E, in particolare, verso forme di socialità più empatica, amichevole e collaborativa. Potrebbe, ma non sarà facile.

    Lectio Magistralis su Governance e Sviluppo alle 19.30 di Ezio Manzini per Milano Digital Week

    Capita infatti che, al tempo stesso, la pandemia ci ha spinto nel verso opposto: prima ci ha chiusi in casa, e ora ci tiene distanti e sospettosi. E, così facendo, porta alle estreme conseguenze alcuni aspetti centrali delle idee che, invece, dovrebbero essere superate. Prima tra tutte l’idea neoliberista per cui non ci sarebbe una società, ma solo individui in competizione tra loro, cui la pandemia si affianca spingendoci verso modi di vivere sempre più solitari, asserragliati nella nostra sfera protettiva, sempre più dipendenti da infrastrutture di supporto e controllo di cui non abbiamo il controllo.

    E qui entra in gioco il terzo aspetto a mio parere caratterizzante per ciò che è successo e sta succedendo. Nella tensione di cui si è detto tra forze che spingerebbero per una nuova socialità, e quelle che al contrario portano a nuove solitudini, se ne aggiunge una terza, che ha la capacità di trasformare l’alternativa tra socialità e solitudine, in qualcosa d’altro, cui corrispondono possibilità e rischi che sono ancora largamente da scoprire.

    Ibridazione del quotidiano. In questi mesi, volenti o nolenti, tutti (o, se non tutti, molti) sono stati a forza iscritti a un corso intensivo di “vita online”. Con il risultato che il baricentro della quotidianità delle persone si è spostato, di molto e in brevissimo tempo, verso la virtualità. Con tutte le implicazioni che questo sta avendo e avrà.

    Infatti, il lockdown prima, e ora il distanziamento, hanno obbligato un gran numero di persone a superare le inerzie e le difficoltà del primo accesso ai servizi digitali e agli incontri a distanza, con il risultato che ora, in molti, hanno verificato che il digitale può facilitare un gran numero di attività: molte di più e più diverse di quanto prima avessero immaginato. E così, in molti, hanno scoperto che è possibile fare tante cose standosene comodamente a casa (almeno per chi questa casa comoda ce l’ha).

    Tutto ciò, ovviamente, non è solo un fatto tecnico. Oggi è più che mai chiaro ciò che significa la frase che ci siamo spesso ripetuti: “la tecnica, in sé, a non è né positiva, né negativa. Ma non è neppure neutra”. Essa genera nuovi campi di azione. E quindi nuove possibilità, nuovi limiti, nuove regole del gioco, nuovi modi di vivere e pensare. Nel bene e nel male.

    A fronte di tutto questo, le domande che si pongono riguardano dunque il come e quanto la penetrazione del virtuale incide e inciderà anche sugli esiti della tensione di cui si è detto tra nuove socialità e nuove solitudini. Una tensione che era in atto da tempo, ma che la pandemia ha reso ancora più evidente. Il tema è stato trattato da molti con toni diversi, dai più ottimistici ai più distopici.

    Le tecnologie digitali hanno sulle dinamiche sociali un duplice effetto: sciolgono le vecchie forme sociali e ne producono di nuove

    Da parte mia, sulla base di ciò che la progettazione per l’innovazione sociale ci ha insegnato negli anni passati, credo si possa dire che le tecnologie digitali e la connettività hanno sulle dinamiche sociali un duplice effetto: da un lato sciolgono le vecchie forme sociali, dall’altro ne producono di nuove. Fino a ora, il primo effetto è stato di gran lunga maggiore e più evidente del secondo (e questo anche perché è totalmente in linea con l’individualismo neoliberale che in questi anni è stato dominante). Mentre il secondo effetto, dovendo andare controcorrente, fino a ora è stato più contraddittorio e meno esteso del primo (trovando così anche meno osservatori dotati degli strumenti concettuali necessari per riconoscerlo, valorizzarlo e amplificarlo).

    Queste osservazioni, fatte a partire delle esperienze dei decenni passati, devono ora essere verificate e, come tutto, aggiornate alla nuova fase: al dopo-lockdown, al tempo del distanziamento sociale e della transizione verso una “nuova normalità”, i cui caratteri sono ancora da definire.

    Comunità ibride di luogo. Oggi, prendendo atto dello spostamento avvenuto del baricentro della quotidianità verso la dimensione virtuale, la tensione tra nuove socialità e nuove solitudini va riformulata. Non può più essere descritta come uno scontro che avviene in uno spazio delle possibilità definito dalle idee e dalle pratiche di socialità e di solitudine, così come si sono intese in passato. Ma aggiornandole, proponendo delle nuove idee e pratiche che possono essere descritte come socialità ibrida, da un lato, e solitudine connessa, dall’altro. Entrambe questi termini, e i modi di essere e di fare cui essi si riferiscono, di per sé, non sono una novità. Esistevano, e sono state studiate, anche prima della pandemia. Ma oggi hanno assunto una diffusione e una profondità nuove. E la trasformazione è avvenuta ad una velocità sorprendente.

    È in questo quadro che le due linee guida da cui sono partito (ritessere le relazioni tra le persone e i luoghi. Ricucire la rete della vita) vanno collocate, adattandole alla novità del contesto, capendole nelle loro attuali implicazioni, e trasformandole in progetto e in politiche del quotidiano.

    Per me, cioè per una persona che si occupa di design per l’innovazione sociale nel territorio, esse portano a mettere a fuoco un più preciso e concreto tema progettuale: come stimolare, promuovere, diffondere e mantenere nel tempo delle comunità ibride di luogo. Cioè: comunità, intese come reti di persone che, con diverse motivazioni, interagiscono in modo collaborativo. Ma anche comunità ibride, per sottolineare che, più di quanto sia mai stato nel passato, esse stanno a cavallo tra lo spazio fisico e quello virtuale. Comunità di luogo, perché, pur vivendo anche nello spazio virtuale, hanno un legame attivo e dinamico con l’ambiente fisico in cui si collocano. E con tutto ciò che, di umano e non umano, vivente e non vivente, lo definisce come un luogo.

    Ecosistema sociale e resilienza. Per chi opera all’incrocio tra società, territorio e tecnologia, le comunità ibride di luogo dovrebbero essere un riferimento verso cui tendere. Le motivazioni possono essere diverse. Già da qualche tempo si è messo in luce il loro significato in termini di qualità sociale e ambientale, di opportunità di lavoro, e di sviluppo di forme avanzate di democrazia locale. Qui lo farò invece considerandole dal puto di vista della loro resilienza: un tema la cui importanza, oggi, nella fase post-pandemica, non occorre più argomentare, ma le cui implicazioni politiche e progettuali sono ancora lontane dall’essere comprese.

    La resilienza sociale richiede l’esistenza di gruppi di persone che interagiscano e collaborino in un contesto fisico che conoscono

    La tesi è questa: la resilienza sociale richiede l’esistenza di gruppi di persone che interagiscano e collaborino in un contesto fisico che conoscono. La vicinanza e le relazioni con un luogo sono infatti ciò che consente a queste persone di auto-organizzarsi e risolvere i problemi in un momento di crisi. In altre parole, la resilienza richiede comunità di luogo.

    Questa relazione tra comunità di luogo e resilienza è stata osservata più volte nel Sud del mondo. Ed è stata poi studiata più a fondo, da quando le catastrofi hanno cominciato a colpire il Nord del mondo (e in particolare dopo che l’uragano Sandy, si è abbattuto su New York, nel 2012). Ciò che i ricercatori hanno osservato è che, dopo un evento catastrofico, quando non ci sono più modi normali di fare le cose e quando collassa la comunicazione top-down standard, le persone che si conoscono e conoscono il luogo in cui vivono sono in grado di trovare il modo di organizzarsi e di utilizzare al meglio le risorse esistenti.

    La conclusione che se ne trae è che, di fronte a eventi catastrofici, sia la teoria che l’evidenza empirica indicano che una società articolata in una varietà di forme sociali radicate nel territorio presenta maggior capacità di adattarsi a situazioni difficili e impreviste, e così facendo, di imparare dall’esperienza. D’altro lato, purtroppo, il trend dominate fino ad ora è andato nel verso opposto: quello verso una società di individui, con la riduzione della numerosità e della diversità delle forme sociali, che porta all’impoverimento e alla desertificazione dell’ecosistema sociale. E un ecosistema desertificato è, per sua natura, un ecosistema fragile.

    Quando il quotidiano diventa straordinario. Uno sguardo più ravvicinato a come le persone si comportano in momenti di grande e imprevista difficoltà consente di fare un’altra osservazione rilevante, che si somma a quella precedente: l’esistenza di un ricco tessuto di comunità, associazioni, luoghi di aggregazione permette di realizzare quella che può essere definita come un’infrastruttura spontanea. Per esempio: un centro sportivo può diventare un centro di raccolta, e i suoi membri diventano la rete di volontari, già connessi e attivi, che possono aiutare e gestire il da farsi. Il bar può diventare una cucina. I campi coperti un dormitorio. Gli asciugamani dalle lenzuola. Insomma: le attrezzature e le competenze dell’ordinario quotidiano possono essere riproposte in risposta allo straordinario.

    L’insegnamento che ne possiamo trarre, che deriva dalle esperienze post-catastrofiche osservate, ma che è generalizzabile, è il valore della ridondanza. Che è come dire: i pericoli e l’intrinseca fragilità della specializzazione.

    Si è visto infatti che una comunità è resiliente non (o no solo) perché dispone di alcuni luoghi e alcune organizzazioni specializzati, cioè specificatamente dedicati alle attività da mettere in campo dopo una catastrofe (e quindi che, in tempi normali, attendono vuoti e inutilizzati l’ora x). Lo è perché ci sono gruppi di persone, luoghi e infrastrutture che sono operativi tutti i giorni per altri scopi. E che, se arriva l’ora x, diventano disponibili per fare altro. Cioè per fare quello che è in questa nuova situazione si rende necessario.

    La ricerca esasperata dell’efficienza porta all’iper-specializzazione e quindi alla fragilità

    Ma, affinché ciò possa avvenire, occorre, che questi stessi questi luoghi e le relative organizzazioni (associazioni di vicinato e le loro sedi, centri sportivi, chiese, magazzini, negozi, e le persone che a essi fanno riferimento quotidiano) abbiano la possibilità e la capacità di farlo. Il che significa: presentino flessibilità e ridondanza nelle strutture fisiche e nelle organizzazioni che se ne occupano. Cioè, come si diceva, non siano troppo specializzati: così specializzati da non essere utilizzabili per nient’altro. Il che, purtroppo, è il contrario di ciò che sta avvenendo. Il trend dominate nelle società contemporanee non è solo la desertificazione di cui prima si è detto, ma è anche la iper-specializzazione: luoghi, infrastrutture e organizzazioni sono pensate per fare con la massima efficienza solo quello che, in quel momento, risulta più conveniente. Ma sappiamo che la ricerca esasperata dell’efficienza porta all’iper-specializzazione. E quindi, come si è visto, alla fragilità.

    Distanziamento fisico e socialità ibrida. Quanto si è verificato accadere per le calamità classiche, è stato confermato anche per questa calamità anomala che è la pandemia. Infatti, si è visto che, dove esisteva una comunità di luogo, questa ha contribuito a superare le difficolta (non solo quelle psicologiche, ma anche e soprattutto, quelle pratiche). E dove questa comunità non esisteva qualcuno ha fatto dei passi per costruirla, a partire dalla riconquista del senso sociale dei balconi come strumento di integrazione sociale. Con la differenza rispetto alle altre calamità, che molto di ciò che in quei casi era fatto nel mondo fisico ha dovuto, per forza di cose, migrare in quello digitale.

    In effetti, questo incontro a distanza tra inquilini che cantano insieme sui balconi, non sarebbe stato possibile se quelle persone, che erano chiuse in casa, in isolamento, non si fossero potute incontrare e coordinare per via digitale (non a caso, gli appuntamenti sui balconi erano, correttamente, definiti dei flashmob). Uso questo esempio, di per sé molto esile, non per sovraccaricarlo di significati, ma perché ci indica in modo trasparente come si strutturi il tema della socializzazione in momenti difficili e operando in un ambiente ibrido: delle persone possono scambiarsi attenzione e cura nel mondo fisico, grazie al fatto che hanno potuto incontrarsi ed accordarsi nel mondo digitale. Altri casi di solidarietà e collaborazione (meno visibili di quello dei balconi, ma più significativi in termini di risultati) hanno avuto la stessa struttura: le attività nel mondo fisico sono state possibili grazie a quelle che avevano luogo in quello virtuale.

    Questa relazione virtuosa tra i due mondi, con una finalità orientata a ciò che succede in quello fisico, si sta ora riproducendo anche nella fase di transizione post-pandemica: se per molti mesi il ritorno alla vita sociale produttiva dovrà essere nel quadro della nuova prossemica del “mai meno di 1-2 metri di distanza”, i servizi digitali possono essere di notevole aiuto. Di fatto, stanno già emergendo prodotti e servizi che supportano una socializzazione secondo le regole del distanziamento fisico. Cioè che indicano dove sia meglio andare per fare qualcosa senza che la socialità diventi assembramento (dal più semplice braccialetto che avvisa quando si è troppo vicini, ai servizi digitali di prossimità che ci dicono in quale supermercato c’è meno fila o in quale ristorante c’è un numero accettabile di avventori).

    Nuova normalità ed emergenza ecologica. Le calamità del passato e quella recente ci mostrano che, in definitiva, le comunità più resilienti sono quelle che funzionano bene in tempi di “normalità”. Il che porta anche a dire che la discussione sulla resilienza sociale a fronte delle calamità, tende a coincidere con quello della costruzione di una società aperta e diversificata, ricca di corpi intermedi. D’altro lato, occorre tener conto che la nuova normalità cui si aspira è quella in cui, quando diminuirà l’emergenza sanitaria, ci saranno altre emergenze da affrontare. Prime tra tutte quella sociale e quella climatica ed ecologica. Pertanto, l’obiettivo di costruire una società resiliente non è dettato solo dal rischio che, prima o poi, si riproduca una catastrofe nella forma che fin qui abbiamo conosciuto. Ma anche dalla concreta possibilità che si presenti un’inedita serie di disastri sociali, ecologici e climatici tra loro collegati.

    La politica deve creare le condizioni perché le comunità ibride di luogo possano emergere e fiorire

    D’altro lato, l’opportunità di costruire una società resiliente come intreccio di comunità di luogo emerge anche senza evocare crisi catastrofiche di maggiori dimensioni. Le comunità di luogo sono infatti rilevanti anche per confrontarsi con la crisi economica e sociale che ha caratterizzato e caratterizza le nostre società nei periodi della loro “normalità”. Anche in questi periodi, le reti di persone che vivono nelle vicinanze e che sono organizzate in reti sociali aperte e flessibili possono darsi reciprocamente non solo un supporto pratico ed economico, ma anche il supporto psicologico necessario per affrontare eventi difficili e imprevisti con un senso di solidarietà. Ma, ripetiamolo, per fare tutto questo, servono persone che si conoscano e si frequentino e conoscano i luoghi in cui ciò avviene.

    Giunti a questo punto, nel mezzo della fase di transizione dall’emergenza sanitaria alla nuova normalità dell’emergenza ambientale, la politica dovrebbe creare le condizioni (normative e economiche) grazie a cui queste nuove comunità, le comunità ibride di luogo, appunto, possano emergere e fiorire (cercando – anche – di intrecciare le comunità tradizionali ancora attive con le nuove, in modo di rivitalizzare le prime e dare più profondità alle seconde).

    Va da sé che a questa politica dovrebbe tradursi anche in attività progettuali a forte impatto politico, offrendo alle persone l’opportunità di anticipare modi di vivere più resilienti e sostenibili. Aiutandole così ad affrontare i molti problemi del presente e, al tempo stesso, alimentando una più vasta conversazione sociale sul futuro.


    Originalmente pubblicato su Milano Digital Week, il 22 Maggio.

    Note