Abitare stanca di Sarah Gainsforth: conflitti e politica attorno alla casa

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    Il conflitto storico tra l’abitare come fatto sociale, esito della collaborazione fra gli esseri umani, e la proprietà privata della casa è il tema intorno al quale Sarah Gainsforth, autrice e ricercatrice, costruisce il suo ultimo libro, “Abitare Stanca. La casa: un racconto politico.”

    È un testo politico, innanzi tutto. Un tentativo di disarticolare la Grande Narrazione dominante e  invincibile, secondo la quale la privatizzazione di ogni spazio è necessaria e inevitabile, e la colonizzazione commerciale di ogni momento sociale è un processo già scritto nei manuali di storia del futuro. E’ un racconto storico e critico di quel dispositivo ideologico che è all’origine del bisogno (indotto) della casa di proprietà, il luogo sicuro per la comunità familiare, ma anche il contenitore nel quale cui l’uomo bianco della classe media occidentale, oppresso dalla competizione, può finalmente esercitare il proprio dominio.

    “Abitare stanca” documenta, si alimenta di dati “macro”, di dialoghi e testimonianze, contiene un’analisi delle stratificazioni normative di lungo corso sul tema della proprietà e della casa, e delle lotte e le resistenze che le hanno accompagnate.

    Ma non è solo un saggio. Nel libro le vediamo farsi carne nell’esperienza di vita personale dell’autrice e nella sua storia familiare. Il risultato di questo riportare la Grande narrazione ad una dimensione domestica e ai suoi meccanismi più minimi è quello di renderla più aggredibile, di mostrarcene le crepe, e di restituirci in qualche modo la capacità di rovesciarla. E’ forse il merito più grande del libro, lo sguardo di una ricerca militante, che esplicita il proprio punto di vista, indipendente dallo scientismo accademico, di cui in tanti ambiti si sente necessità. Che non riporta stancamente a conclusioni già scritte e al realismo “there’s no other way”, e che, a differenza di questo, non restituisce distopie e senso di impotenza, ma umanità e speranza.

    Il racconto si muove liberamente sullo scacchiere temporale, e l’analisi comparativa scivola agilmente sulla carta geografica. Il cambio di registro fra un capitolo e l’altro fluisce in una lettura densa e scorrevole. Per ogni fase storica viene disvelato l’apparato ideologico che giustifica l’intervento del grande capitale privato e poi della finanza sulla casa, a partire dal mondo anglosassone, dove nasce l’idea di proprietà privata come noi oggi la conosciamo, e da cui  proviene la scrittrice.

    Il racconto muove dalla Roma attuale e si allontana nello spazio e nel tempo. Negli Stati Uniti degli anni 30, le banche, approfittando della Grande Depressione, si appropriano delle terre comuni e delle risorse naturali per “efficientarle” attraverso l’agricoltura, causando l’impoverimento di massa dei contadini e la fuga verso ovest, quella che ritroviamo nella pagine di Steinbeck in Furore. A partire da qui si risale all’atto di spoliazione più violenta che ricordi l’occidente, la speculazione finanziaria sulla carestia che tra il 1846 e 1855 colpì l’Irlanda, che fece un milione di morti e provocò la più grande emigrazione di massa mai vista fino ad allora in Europa, alla quale il governo inglese rispose “adottando (…) un atteggiamento di laisser faire, cinismo malthusiano e pura crudeltà.” Anche in questo caso “…alla fame si aggiunsero gli sfratti di massa dei contadini dalle terre diventate improduttive”, che spinsero gli antenati della scrittrice ad emigrare verso gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Qui il processo di privatizzazione delle terre comuni affonda le sue radici nel medioevo, attraverso la progressiva recinzione degli spazi comuni del territorio dedicati alla sussistenza, e culmina con l’enclosure act del 1773, centocinquanta anni prima della Grande Depressione. La giustificazione fu di nuovo quella di “migliorare” l’attività agricola per renderla funzionale alla crescita delle città, che si andavano riempiendo di contadini privati dei propri mezzi di sostentamento, di “nuovi poveri”. Una massa fluttuante di persone alla ricerca di una casa. Una parte della classe dirigente, consapevole delle diseconomie e del disagio che questa situazione produce nelle grandi conurbazioni, e con la giustificazione etica dell’intervento caritatevole, comincia a mettere a punto dei primi provvedimenti che tendono a limitare lo sfruttamento commerciale della proprietà privata. La svolta avviene nel dopoguerra. In Europa, e nel Regno Unito, si affermano i principi socialdemocratici della “prosperità condivisa”. Vengono lanciati grandi programmi di edilizia pubblica che in qualche maniera prefigurano quello dell’abitare, e dell’abitazione, come un diritto sociale, svincolandolo tanto dalla concessione “paternalistica” che dalla proprietà. Le mura del privato tornano ad essere permeabili ai flussi umani. Vivere nei complessi delle case popolari a Liverpool, in quegli anni, poteva essere un’esperienza felice di condivisione, in cui scambiare molto con gli altri e trovare una propria strada nel mondo, fuori dal bisogno. O almeno così appare nei ricordi della madre della scrittrice.

    Nel frattempo, anche in Italia, nel dopoguerra, la legge Sullo attribuisce all’urbanistica il compito di contribuire a “migliorare la vita delle persone”, e per qualche decennio il possedere o non possedere una casa smette di essere percepito come la prima condizione per la sopravvivenza. Anche nelle grandi città, nonostante le tensioni tra interessi dei grandi proprietari e le spinte dei nuovi immigrati, la casa diviene, per molti uno spazio di socialità e liberazione. L’autrice ci racconta come negli anni Sessanta il centro storico di Roma fosse diventato un laboratorio di nuove pratiche abitative. Ed è qui che approda suo padre, anche lui d’origine irlandese, dopo un viaggio rocambolesco partito da Fremont, in Nebraska, in un momento in cui la casa smette di essere sinonimo di ultimo rifugio, e si trasforma in un ambiente dove scorrono socialità, interculturalità, arte. Nel frattempo, nelle aree periferiche della città sono le donne che si fanno capofila di questa trasformazione semantica dell’abitare, nel quadro delle lotte per il superamento della divisione tra la sfera privata, che le opprime, e la sfera pubblica, che le esclude.

    Sono anni di grandi conflitti. A Roma gli interessi immobiliari, forti dei legami con dei pezzi di politica, impediscono l’affermarsi di un diritto “di fatto” alla casa e si adoperano perché queste esperienze rimangano sempre fuori il perimetro della legalità. Oggi, dice Giancarlo Storto, ex direttore generale del Ministero dei Lavori pubblici, in un dialogo con l’autrice, l’intera città di Roma è per un buon terzo di origine abusiva.

    Con il primo esperimento neoliberale nel Cile di Pinochet inizia la battaglia contro l’edilizia pubblica, che si afferma definitivamente con Ronald Reagan negli Stati Uniti e soprattutto Margareth Thatcher nel Regno Unito, e che segna l’inizio di un nuovo assalto del capitale speculativo all’abitare. In un mondo dove “la società non esiste”, l ’individuo diviene il terminale delle politiche sociali. La progressiva sostituzione del welfare con il workfare, che condiziona il riconoscimento dei diritti al “merito”, è solo la prima delle tappe in direzione di una “deuniversalizzazione” della cittadinanza, che riguarderà anche la casa. In Italia l’urbanistica come strumento di redistribuzione sociale viene esautorata e relegata in uno spazio residuale.

    Il profilo ideologico dell’ultima narrazione, quella che si afferma col New Labour, passa attraverso la sostituzione del welfare con il concetto della “pubblica utilità”, che viene demandata al capitale privato, nello specifico di quello finanziario, che usa la cittadinanza attiva per riqualificare i luoghi e trae profitto dalla crescita del valore mercantile dei suoli.  L’autrice torna su un tema di cui si è molto occupata negli ultimi anni, quello del “decoro urbano”, un nuovo dispositivo ideologico che invocando la necessità della rigenerazione ambientale e umana all’interno delle città diviene utile a giustificare l’allontanamento degli abitanti originari e l’appropriazione dello spazio pubblico e dei diritti sociali da parte della finanza. E torniamo alla vita vissuta, ai conflitti sugli spazi comunitari nel tessuto del quartiere di San Lorenzo a Roma, e allo scandalo dell’affare degli studentati a Milano, che sta avendo dirompenti sul mercato delle abitazioni.

    In Italia l’irruzione del capitale finanziario porta al naufragio definitivo del progetto economico implicito dell’ideologia proprietaria in versione democratico popolare, quella sintetizzata dalle parole di Guido Gonella nel discorso introduttivo del I congresso della Democrazia Cristiana, che immagina la nuova repubblica come un paese senza conflitto di classe. Non “tutti proletari”, ma “tutti proprietari”.

    Anche nel mio lavoro sulle aree non urbane del paese è visibile la crisi di un progetto di spazio pubblico costruito intorno alla piccola proprietà privata e a un welfare non eccellente ma distribuito capillarmente sul territorio, che ha garantito un certo equilibrio del sistema fino alle ripetute crisi economiche degli ultimi 20 anni, e che ha riattivato i flussi migratori verso le città e lo spopolamento delle aree interne.

    E qui, come nelle città, per facilitare la penetrazione del capitale finanziario la prima condizione è infatti quella di svuotare i luoghi. Il meccanismo ce lo descrive l’autrice, facendo un richiamo alla “accumulazione per spossessamento, o spoliazione” di David Harvey. Di cosa si tratta?  “Un sistema di accumulazione che non ha niente a che vedere con la produzione o con lo sfruttamento della forza lavoro, ma che è il risultato di speculazioni finanziarie sul valore dei beni. E’ un processo estrattivo e violento di appropriazione e di espulsione” scrive Sarah Gainsforth . “Oggi dei quartieri, delle aree, degli edifici sui quali il mercato vuole mettere le mani, si dice debbano essere valorizzati. Spesso li si presenta come vuoti, dimenticati, abbandonati, degradati, quando non lo sono affatto, e se lo sono è grazie a precise strategie di abbandono messe in campo dalle amministrazioni che preparano il terreno per il ritorno del capitale. Perché dovunque atterra il capitale, produce vuoto”.

    Per produrre questo vuoto, il cavallo di Troia con cui il capitale speculativo si infila in un ambito di diritti sociali, qual è quello dell’abitare, oggi è la valorizzazione turistica, tanto nelle città italiane, a Roma innanzitutto, dove Sarah Gainsforth vive e lavora, quanto nei piccoli centri, dei quali mi sono occupato questi anni.  Quello stesso turismo che in molti, inclusa l’autrice, in un altro suo libro “Oltre il turismo”, sostengono che nel frattempo si sia trasformato in una vera e propria diseconomia, che produce più costi che benefici, tanto per la collettività che per la stragrande maggioranza dei singoli.

    Efficientamento, decoro, valorizzazione, riqualificazione, rigenerazione, me anche merito, sono i “trucchi semantici” usati per far passare come di interesse generale l’appropriazione da parte del capitale finanziario degli spazi collettivi. Ma non è una macchina che produce sviluppo, economie “reali”, migliori condizioni di vita e salute, lavoro, relazioni sociali, ma solo ricchezze stratosferiche per pochi. Si tratta secondo l’autrice di un vero e proprio furto ai danni della collettività: mai come oggi, infatti, con le tensioni su vaccini e sul gas, speculazione finanziaria e democrazia sembrano essere radicalmente alternativi.

    La dimensione storica del conflitto sulla proprietà torna nel finale del libro, attraverso la voce di Patrick, il fratello della scrittrice, che ci offre un racconto quasi visuale della disastrosa, eppure in qualche maniera riuscita, rivoluzione irlandese del 1916. Scegliere sempre di sperare nel cambiamento, anche nella situazione più disperata, è la condizione per fare la storia.

    Sono moltissimi i tentativi, negli ultimi decenni, di costruire teoricamente narrazioni sistemiche altrettanto grandi, ma di segno opposto, al feroce dispositivo ideologico e comunicativo della Grande narrazione, che nel corso dell’era moderna si è incarnato negli individui fino a trasformarsi in quel riflesso condizionato che sembra animare l’umanità di fronte alle sfide del futuro, in direzioni oltre che ingiuste, irrazionali, come lavorasse al di sotto della soglia di consapevolezza.

    E sono così tanti questi tentativi che ormai compongono quasi un genere letterario, che nella ricerca teorica sulle grandi dinamiche socioeconomiche e ambientali che traversano il mondo attuale, tende a dare importanza più al carisma del disegno ideologico che alla proposta di liberazione che contiene, alla cornice del quadro più che a ciò che si vede all’interno dell’opera.

    Sarah Gainsforth racconta attraverso la sua esperienza cos’è l’abitare oggi a Roma, chiedendosi quanto in fondo sia desiderabile e naturale possedere una casa. Gli “have not” non si sentono orfani di un’ideologia. Nella lotta quotidiana non c’è tempo per rimpianti, e le crepe del mondo si disvelano in maniera più vivida. C’è da guardare avanti, e fare con fiducia.

    Note