In città non si parla d’altro. Sono scattate le petizioni, migliaia le firme raccolte in poche ore. L’annuncio che la Casa dei Tre Oci è stata messa in vendita dalla Fondazione di Venezia ha lasciato un senso di smarrimento. Più che un annuncio è stata una conferma, visto che già da mesi la decisione era nell’aria. Ma l’idea di poter perdere anche la Casa dei Tre Oci è arrivata come una frustata in una Venezia svuotata dalla pandemia, l’economia al tappeto, chiusi i tanti luoghi d’arte e di cultura.
Ce lo conferma anche Emanuela Bassetti, componente del Consiglio Generale di Fondazione di Venezia e presidente di Civita Tre Venezie, la società che in questi anni ha gestito la Casa dedicata alla fotografia: «La decisione è stata presa e ci sono già contatti con alcuni possibili acquirenti. Da parte nostra stiamo cercando una nuova sede, perché crediamo che l’esperienza vissuta in questi anni ai Tre Oci possa continuare nel centro storico veneziano». Una tabella di marcia c’è già: «Nel 2021 la retrospettiva in programma su Mario De Biasi e prepararci l’anno seguente per trasferirci in un altro luogo».
Tempi stretti. E la Casa dei Tre Oci? Michele Bugliesi, ex-rettore dell’Università Ca’ Foscari, da sei mesi ai vertici della Fondazione, ha più volte ribadito di voler «vincolare la vendita solo a chi ha affinità statutarie». Come dire: si prendono in considerazioni offerte da chi la vorrà usare per scopi culturali. Non diventerà un albergo, insomma. I nuovi proprietari potrebbero mantenerla a casa della fotografia? «Mi sembra davvero un’ipotesi difficile», sottolinea Bassetti.
Per i veneziani la sensazione è di aver perso un altro pezzo. Persino l’amministrazione comunale ha espresso contrarietà, anche se fino a poco tempo lo stesso sindaco, Luigi Brugnaro, si diceva pronto a vendere un po’ di opere d’arte per ripianare i buchi di bilancio e pure i suoi predecessori di centrosinistra hanno gestito negli anni il patrimonio pubblico con molta disinvoltura. Eppure la Casa dei Tre Oci non è di proprietà pubblica. Perché allora la vendita è sentita come una ferita? Per il suo valore simbolico? O affettivo? O ha a che fare con tutto ciò che non è pubblico né privato? E cosa può raccontare a chi non è veneziano?
La Casa dei Tre Oci è uno di quei manufatti eccentrici che sbucano nella città d’acqua, finendo per stamparsi nella memoria. Le tre grandi vetrate, i famosi occhi, fissano imperscrutabili il bacino di San Marco.È stata disegnata non a caso da un artista, Mario De Maria: la sagoma neo-gotica, che svetta alle Zitelle della Giudecca, si mostra come un perfetto pastiche di quell’architettura eclettica che tanto piaceva agli inizi del secolo scorso. Un po’ come il Mulino Stucky, ora Hotel Hilton, che troneggia nell’altro capo dell’isola. Entrambi hanno contribuito molto ad alimentare il sottofondo sornione e neoromantico della fama di Venezia.
Vent’anni fa la Fondazione acquistava la Casa dei Tre Oci e dopo un lungo restauro nel 2012 la apriva al pubblico, facendone il principale luogo dedicato alla fotografia. A dire il vero, se la fotografia è atterrata a Venezia come fenomeno d’arte, il merito è di Ziva Kraus: quarant’anni fa, ha fatto irrompere nella città d’acqua i grandi artisti delle immagini impresse, in contemporanea con il celebre festival diffuso «Fotografia 79». Il festival è poi evaporato, mentre lei ha continuato a fare dell’arte fotografica quasi una pedagogia urbana, anche se spesso in solitudine.
La Casa dei Tre Oci ha in qualche modo raccolto quelle intuizioni e quelle piste di lavoro seminate negli anni, confezionando importanti mostre: Erwitt, Salgado e Berengo Gardin, Burri, Newton, LaChapelle, Bischof, Roiter, e poi Ronis, Battaglia, Scianna, Lartigue.
Emanuela Bassetti lo riassume così: «Abbiamo cercato di alimentare empatia, coniugare mostre rivolte a un pubblico vasto e allo stesso tempo rigorose: è un’esperienza che non vogliamo perdere. Magari i nuovi spazi potrebbero essere persino più elastici e farci scoprire nuove piste». E forse colmare anche la lacuna che sottolinea Giovanna Silva, fotografa celebre ed editrice di Humboldt Books: «Un luogo dove pensare la fotografia, laboratorio di idee e di pratiche e pure di progetti espositivi, ma capaci di allargare lo sguardo oltre ai grandi nomi di richiamo».
Nel 2019 ai Tre Oci sono entrati 50 mila visitatori, e attorno a quella cifra si sono assestati negli anni precedenti. La Fondazione qui ha concentrato anche il suo archivio fotografico, come il Fondo De Maria, con più di 100.000 immagini, l’Archivio Italo Zannier, con quasi 2.000 fotografie dall’Ottocento ad oggi, e una biblioteca di 12 mila volumi. «È davvero qualcosa di unico a Venezia – riflette Giovanna Silva – Quello che a me colpisce è come in Italia ci siano pochi luoghi davvero dedicati alla fotografia, che continua a essere pensata non come forma d’arte, ma una sorella minore. E mi colpisce che fra i luoghi di cultura, già colpiti dall’emergenza sanitaria, quello dedicato alla fotografia sia il primo a chiudere».
La domanda rimane aperta: cosa ha portato la Fondazione alla decisione di venderla? In molti a Venezia puntano il dito sull’M9, il nuovo Museo del Novecento a Mestre, ma forse è solo un altro borbottio nel rapporto irrisolto tra città acqua e di terra. Qualcosa comunque non funziona.
Facciamo un passo indietro. Negli stessi anni in cui comprava i Tre Oci, la Fondazione faceva partire uno dei progetti più ambiziosi di riqualificazione urbana in terraferma, nel centro di Mestre, affidato allo studio Sauerbruch Hutton. Il 1° dicembre 2018 inaugurava così il nuovo M9, un magnifico edificio destinato a Museo del Novecento, il più tecnologico tra i musei italiani, a fianco di un ex-convento abbandonato da anni e restaurato per l’occasione. Un distretto culturale e commerciale con l’intento di ricucire e rilanciare il centro città. Un investimento da 110 milioni di euro.
In questi due anni, mentre il progetto veniva premiato ovunque a livello internazionale, non decollava nessuno degli obiettivi, né la macchina culturale né quella commerciale. Un disavanzo di 6,9 milioni di euro, 54 mila visitatori nel 2019 e immobili mezzi vuoti, pochissime attività culturali. Chiunque abbia avuto a che fare con l’M9 si è scontrato con una caotica organizzazione, un’apatia di iniziative, alcune deboli mostre temporanee, i pochi negozi che avevano preso casa nel distretto (tra cui una splendida libreria e una raffinata galleria d’arte contemporanea) praticamente abbandonati a sé stessi.
Nell’aprile del 2020 l’agenzia DGM Consulting consegnava un audit impietoso, indicando tre interventi urgenti: due a breve termine (nuova organizzazione e nuove risorse) e una a medio: una nuova identità. Traduzione: bisogna ripartire da zero.
La crisi della Fondazione veneziana più che finanziaria sembra uno stordimento identitario e di strategie. Fabrizio Panozzo, che all’Università Ca’ Foscari si occupa di management ed economia culturale, la riassume così: «Una crisi di astinenza da tossicodipendenza immobiliare». Il problema, dice, è alla fonte, «quando nel 1992 vengono create le fondazioni: fino ad allora le Casse di Risparmio finanziavano attività del territorio e venivano sentite come parte della comunità. Erano una cosa unica nel panorama degli istituti di credito tradizionali, con radici storiche nel nostro paese. Quando dividono le funzioni, quelle strettamente bancarie dall’impegno nel territorio, creano le Fondazioni che sono soggetti dalla natura molto ibrida: tecnicamente privati, eppure sentiti come patrimonio locale e con un ruolo esplicitamente pubblico. Nessuna fondazione privata può vantare qualcosa di simile». E questo forse spiega il legame sentimentale dei veneziani per i Tre Oci e le accese discussioni attorno alla Fondazione.
Ogni Fondazione bancaria ha preso strade diverse: alcune, come la torinese Compagnia Sanpaolo o la Cariparo padovana, hanno scelto di continuare la strada delle erogazioni ai soggetti impegnati nel settore culturale o sociale o di ricerca, provando a sostenere le eccellenze o a rafforzare il tessuto culturale urbano. Altre, come la Cassamarca trevigiana e la Fondazione di Venezia hanno puntato sull’immobiliare. «Nei primi anni del nuovo secolo sono diventate delle vere e proprie imprese immobiliari, comprando e costruendo con una sorta di bulimia. A un certo punto ti ritrovi con un enorme patrimonio che devi gestire o giocare di compravendite, come qualsiasi immobiliare». Erano gli anni della bolla dell’edilizia «e dei projet financing: strutture pubbliche, dalle autostrade agli ospedali, costruite da privati con cui il pubblico si indebitava per decenni. Una sorta di thatcherismo alla veneta cui ormai nessuno in buona fede crede più».
In queste settimane il presidente della Fondazione, Michele Bugliesi, sta ripetendo di aver trovato «un grande patrimonio bloccato in immobili, un eccesso che è necessario ora muovere, smobilitare». Su un patrimonio di 400 milioni di euro, ha spiegato, 120 circa sono immobili. La Casa dei Tre Oci è valutata 6 milioni, la sede storica di Rio Novo in centro storico 16 e il nuovo museo mestrino 87.
Insomma, la Fondazione di Venezia ha dimostrato di saper costruire un museo così ambizioso come l’M9 e non saperlo gestire. Ha provato a implementare un’operazione di riqualificazione strategica, senza sapere come fare rigenerazione urbana; ha scoperto di non avere legami reali col territorio e di non conoscere la città, se non pensando di usare il percolato di turisti che nel frattempo ingolfavano la città d’acqua. Neppure poteva contare sulla sponda dell’amministrazione locale che, ormai da anni, sembra aver dimenticato cosa significhi disegnare politiche pubbliche, soprattutto sociali e culturali. Di questa mancanza, l’amministrazione Brugnaro ha solo accelerato la deriva e se n’è vantato.
Ora che i nodi sono venuti al pettine, la Fondazione si è dotata per l’M9 di un piano triennale di attività (presentato i giorni scorsi), con un programma, una politica di bigliettazione (e finalmente tariffe più basse), di autosufficienza energetica e di una spiccata apertura al territorio. Il distretto, da commerciale, vuole diventare direzionale e di incubazione d’impresa: è di questi giorni l’annuncio di una partnership con Bio4Dreams, «il primo incubatore italiano a capitale interamente privato», così si definisce, per realizzare un eco-sistema di start-up, co-working e manifattura digitale nel chiostro dell’M9. E’ come ripartire daccapo.
Peraltro, Bugliesi giura che non ci sia alcuna relazione tra la vendita dei Tre Oci e l’M9, «due partite distinte: nessuno smobilizza immobili per ripianare debiti. A meno che non sia in crisi grave e non è il nostro caso e comunque significherebbe solo rimandare i danni». L’obiettivo, dice, è di far fruttare gli introiti della vendita e di «arrivare a raddoppiare le erogazioni alle attività nel territorio, dai 4,5 milioni attuali ai 10 milioni».
Si prospetta, insomma, proprio un re-hab da dipendenza immobiliaria? La Fondazione potrebbe far convergere il focus sul sostegno al tessuto sociale e di ricerca culturale del territorio? Emanuela Bassetti si dice convinta che questa sia «la strada giusta: riorientare la Fondazione alla sua vocazione, per di più in un momento di grande difficoltà del territorio, di tutti i territori».
Resta il fatto che, quando una Fondazione bancaria fa una manovra di questo tipo, è un intero pezzo della comunità che riorienta, qui come altrove. «Per questo la dismissione dei Tre Oci colpisce così tanto i veneziani – riflette Panozzo – La sentono un parte del tessuto pubblico che si ridisloca ed è comprensibile che sia così». Quello che colpisce, dice, è «l’assoluta mancanza di dibattito, sulle scelte compiute dalla Fondazione in questi vent’anni, da parte della comunità locale, le università, il tessuto culturale e sociale: posizionandosi in un quel limbo ambiguo tra privato e bene comune, molte Fondazioni, non solo a Venezia, si sono mosse senza alcun contrappeso nella sfera pubblica, avallando invece meccanismi di cooptazione, e non attingendo a idee e competenze».
E così la sensazione amara dei veneziani di fronte alla vendita dei Tre Oci è come un testo di cattive pratiche. E che emerga ora, magari è un altro effetto collaterale dell’involontaria intelligenza dell’epidemia.
Immagine di copertina: ph. Till Niermann da Wikipedia