Correvano i primi giorni 2020 quando iniziava un percorso che poi sarebbe durato almeno un paio d’anni, ma forse, con il senno di poi, non si è mai interrotto davvero. Stavamo iniziando un complesso progetto di pianificazione e valutazione d’impatto delle politiche culturali del Settore Cultura del Comune di Bologna, allora (e anche oggi) unica amministrazione ad aver usato la metodologia dell’impatto in direzione strategica partendo dalla cultura e dal suo specifico. Si possono vedere gli esiti di quel progetto qui.
Ma, anche, come ne sono germinate altre occasioni progettuali. Quella analoga che ha portato alla definizione della Teoria del cambiamento del Settore biblioteche, sempre del Comune di Bologna. Di nuovo, prima e oggi unico sistema bibliotecario che se n’è dotato. Proprio in questi giorni ha visto la luce uno degli esiti, il questionario qualitativo distribuito nelle biblioteche comunali della città; poco meno di un anno fa presentavamo invece un’indagine sulla lettura molto speciale, nata in seno a quel progetto e grazie alla definizione di un impatto intenzionale del Settore.
O quella con l’Ufficio politiche giovanili della Provincia autonoma di Bolzano e Alto Adige.
Con le amiche e gli amici di cheFare si è pensato, già da tempo, di provare a tener traccia di alcuni apprendimenti che abbiamo maturato con queste esperienze. Abbiamo deciso di farlo in maniera non troppo lineare e convenzionale: attraverso alcuni dialoghi, da un lato, e attorno ad alcune parole chiave, dall’altro.
Ne sono nate alcune conversazioni (frutto delle riflessioni fatte da Gaspare Caliri insieme a Francesca Calzolari, Cecilia Colombo, Anna Romani). Con il semiologo Francesco Marsciani abbiamo affrontato la parola valutazione. Con l’economista della cultura Paola Dubini (che ha condiviso con noi il percorso con il Settore cultura del Comune di Bologna, all’interno del Comitato Scientifico di progetto) abbiamo dialogato attorno alla relazione tra la parola impatto e la parola cultura. Con Bertram Niessen (direttore scientifico di cheFare e, anche lui, membro del Comitato Scientifico del percorso con il Settore cultura del Comune di Bologna) e Daniele Gasparinetti (di Xing) abbiamo invece discusso attorno ai concetti di valore intrinseco e strumentale della cultura. Ognuna di queste conversazioni (più un piccolo bilancio conclusivo) è diventato un articolo. Insieme compongono una piccola rassegna qui su cheFare, che sarà pubblicato nelle prossime settimane. Sapendo che, come si dice in questi casi, ci sono punti fermi ma anche punti di domanda ancora aperti.
Buona lettura!
Quando un approccio diventa di moda, come la valutazione d’impatto da qualche anno a questa parte, non è difficile che si inizino a dare diverse cose per scontate. Esempio: quando si parla di impatto, si è già fatto un passo avanti se non si è appiattito il discorso sul sociale in senso stretto (dopotutto, l’acronimo più usato è VIS, che sta per “valutazione d’impatto sociale”); oppure, su questa scia, se non si è ceduto al colonialismo di ritorno del cosiddetto “welfare culturale”.
Una questione centrale, per noi, è anzitutto problematizzare la parola valutazione, che spesso viene male interpretata e finisce per assorbire su di sé le critiche che vengono mosse all’approccio: quelle secondo cui esso sia strumentale a giustificare azioni e sforzi economici, alla luce di un giudizio basato su risultati soprattutto quantitativi.
Queste critiche, ci sembra, non partono dal significato più stratificato (quindi più pieno) della parola valutazione. In questa sede, cerchiamo allora di ripartire da cosa significa valutazione, attraverso un dialogo con il semiologo Francesco Marsciani.
Valutare vuol dire anzitutto dare valore. Fare una valutazione, ci dice la Treccani, significa “ragguagliare” secondo un sistema di riferimento; assegnare un valore a un’attività, a un esito, a un risultato, vuol dire dunque portare alla luce la rilevanza e la pertinenza di un fenomeno all’interno di un contesto. Fare emergere una figura dallo sfondo.
Valutare significa cioè decidere di marcare una differenza: pensate al “maschile sovraesteso”, a quanto oggi la marcatura sia più presente, quando si usa la parola /uomo/ per intendere “umanità”. A quanto, invece, usare la parola /persona/ significhi non marcare il tema, la questione.
Detto questo, se il compito della valutazione d’impatto di organizzazioni e progetti culturali è dare valore al ruolo dell’arte e della cultura nella nostra società, ciò significa marcare una differenza. Valutare come dare valore, dunque, ossia come individuazione del dove si fa differenza. In questo senso, la pianificazione d’impatto, che definisce un percorso intenzionale e desiderabile di cambiamento – che non può essere standardizzabile ma nasce da questioni “aperte” di contesto – ci sembra particolarmente interessante: proprio come approccio che permette di marcare una differenza a partire da un’intenzione di cambiamento.
Ci viene in aiuto la semiotica, che dice anzitutto che un valore non esiste di per sé, ma solo in rapporto a qualcos’altro e a un soggetto che lo colga. Francesco Marsciani ci fa una panoramica, a questo proposito, sui diversi punti di vista delle scienze sociali.
«Il termine valore è una questione significativa in tutte le scienze umane, al di là della semiotica: in generale, il valore è ciò che consente di determinare la pertinenza, o validità, di qualsiasi cosa. Quando ci si chiede se un qualsiasi elemento sia davvero valido per un sistema di riferimento, si valuta dunque la sua pertinenza, che non è assoluta ma relativa.
In linguistica, è in base a una struttura di riferimento, a un sistema di relazioni, che si decide se qualcosa vale: cioè se ha un posto nella maglia di questo sistema di relazioni, e non a un altro. In fenomenologia, ma anche in semiotica, il valore è ciò che un soggetto attribuisce a un oggetto: è una relazione dinamica, dove si mette in gioco un’idea di investimento da parte di una soggettività. Il mondo ha valore per un soggetto che lo sente come valido: non è una relazione simmetrica, c’è un’idea di “desiderio”, di “presa”, di “senso” per un soggetto, anche se la relazione tra soggetto e oggetto può essere reversibile. Detto altrimenti: un soggetto può essere oggetto e viceversa.
Queste due prime accezioni di valore sono combinabili: se qualcosa ha valore per un soggetto, quel qualcosa deve pur essere “qualcosa”. E, per essere qualcosa, non deve essere “qualcos’altro”. Perché questa differenza avvenga, è necessario che avvenga sotto gli occhi di qualcuno e dentro un sistema di relazioni.
C’è infine la visione sociologica, dove il valore ha a che fare con “i valori”, che hanno rilevanza per una pluralità, per una comunità di riferimento, ossia in base agli interessi di un gruppo sociale. In questa visione, una delle chiavi per comprendere le dinamiche sociali è proprio la dialettica tra valori alternativi per i diversi attori sociali.
In sostanza, il punto di vista è fondamentale in tutti gli approcci al valore. Il punto di vista è il “campo” nel quale la valutazione può esercitarsi».
A maggior ragione, ci sembra di poter dire che la valutazione non può essere standardizzata, perché la validità di un “campo di gioco” valoriale è sempre locale… Ma come fare quando gli interessi in gioco sono diversi, in conflitto tra di loro?
«Si pensi alla situazione geopolitica. Vale di più la libertà o la vita? Meglio essere tutti liberi ma morti, o tutti vivi ma schiavi? Sono due valorizzazioni in conflitto. In questi casi si tratta di esplicitare qual è l’interesse in gioco, mettersi in una posizione neutra, cioè relativizzare i termini della questione e vederli come termini di quel campo di cui loro sono due espressioni possibili. Bisogna allora chiedersi qual è il campo rispetto a cui compariamo, specialmente in arte e cultura. Qual è la posta in gioco».
L’impatto lavora forse proprio su questo: sull’esplicitazione della posta in gioco, che permette di comparare punti di vista differenti.
«Sì, ma in questo caso bisogna che ci chiediamo prima cosa sia cultura. Ciò che genera cittadinanza consapevole? Ciò che produce una “buona” economia? E poi, a proposito di “significato locale”, il problema è che a volte i principi generali non hanno sufficienti portavoce, a livello locale».
È qui che entrano in gioco i dati. Che spesso, come un “feticcio”, avrebbe detto Latour, suppliscono alla mancanza di radicamento contestuale del senso della cultura.
«Effettivamente i tempi moderni sono tempi in cui sembra che il capitale dei dati sia tutto quello che conta. I big data sono effettivamente capitali di scambio, gestiti dall’interpretazione di algoritmi come quelli che possono essere costruiti dal mercato pubblicitario. Il problema è che l’algoritmo è una costruzione (da combattere “costruttivistamente”) da un punto di vista di economia di mercato. C’è l’illusione del quantitativo e del misurabile: “è matematico”.
C’è bisogno di immaginare modalità di interpretazioni diverse, costruendo i dati per generare storie, narrazioni. Più le costruisci, più li animi: li fai diventare materiale di apprezzamento. Ma c’è anche bisogno di demistificare: far capire le motivazioni nascoste che si celano dietro ai fenomeni che sto leggendo attraverso i dati.
Questa sarebbe radicalità: essere sempre pronti a lavorare per demistificare. Se fosse possibile una valutazione partecipata, aprirebbe ogni volta un piccolo campo laboratoriale con un pubblico chiave/specifico di quella intenzionalità. Bisognerebbe cercare di immaginare la possibilità di aprire dei luoghi gestibili in cui la proposta viene raccontata e accolta, nel senso di presa seriamente. Piuttosto che avere qualcuno delegato a valutare, aprire ogni volta un piccolo spazio di dialogo non gerarchico».
Viene in mente l’esempio della scuola. L’Italia è uno dei pochi paesi europei in cui a scuola non si valutano gli insegnanti. Sarebbe interessante se l’ente pubblico e gli operatori attraversassero un processo di valutazione, nel senso di emersione dei valori e del loro campo di azione, come apprendimento tra pari.
«L’esempio della scuola è particolarmente interessante perché mi ha fatto capire una cosa che si sa: una scuola dove la valutazione diventa un momento in cui anche l’insegnante impara “dal poterne parlare” è immaginabile soltanto se si modifica (credo molto) l’idea di insegnamento, non solo nei modi (es. essere più inclusivi, meno gerarchici, ecc.) ma soprattutto nei contenuti: c’è un problema di messa in discussione dei modelli pedagogici ministeriali per costruire possibili pedagogie alternative».
Ultima domanda. Per noi, a proposito di posta in gioco e campo di azione, è fondamentale riservare un posto all’inatteso, a proposito di cittadinanza e cultura. C’è contraddizione tra valutazione e accettazione dell’inatteso?
«L’inatteso è quello che fa sì che la cultura viva. C’è un libro molto bello e fine di Greimas che si chiama Dell’imperfezione, dove si mette in guardia dall’attesa dell’inatteso: quando si vive nella routine ed emerge l’inatteso, riemerge anche la vitalità di comprendere e semiotizzare le cose. È un risveglio dell’attenzione. Sarebbe molto bello se in una valutazione di impatto culturale fosse integrata la capacità di accogliere l’inatteso anche quando mette in discussione il cambiamento positivo pianificato. Forse quell’idea di cambiamento deve contenere già in sé quella apertura. Perché poi comunque l’inatteso arriva. Ce l’aspettavamo una guerra due anni fa?»