Abbiamo bisogno dell’arte per turbare l’immagine armoniosa del capitalismo

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    Le pratiche artistiche possono ancora avere un ruolo critico in una società in cui la differenza tra arte e pubblicità è divenuta sempre meno chiara, una società in cui artisti e operatori culturali sono diventati anch’essi una componente necessaria della produzione capitalistica? […]

    arte, spazio pubblico

    Pubblichiamo un estratto dal saggio di Chantal Mouffe contenuto in Design&Conflicts (Krisis Publishing)

    Oggi la produzione artistica e culturale gioca un ruolo centrale nel processo di valorizzazione del capitale e, attraverso il neo-management, la critica artistica è diventata un elemento importante della produttività capitalista.

    Qualcuno sostiene che l’arte abbia perso il suo potere critico, dato che ogni forma di critica è automaticamente recuperata e neutralizzata dal capitalismo. Altri, invece, offrono una visione diversa e vedono nella nuova situazione un’opportunità per sviluppare diverse strategie di opposizione.

    Tale visione è supportata dalle idee di André Gorz: «Quando l’auto-sfruttamento acquisisce un ruolo centrale nel processo di valorizzazione, la produzione della soggettività diventa un terreno privilegiato per il conflitto… Le relazioni sociali che eludono la comprensione dei concetti di valore, dell’individualismo competitivo e dello scambio di mercato fanno apparire questi concetti nella loro dimensione politica, come estensioni del potere del capitale. Si apre così un fronte di resistenza a questo potere, e il campo di produzione della conoscenza viene invaso e arricchito da nuove pratiche del vivere, del consumare e dell’appropriazione collettiva degli spazi comuni e della cultura quotidiana».

    Sicuramente l’idea modernista dell’avanguardia deve essere abbandonata, ma ciò non vuol dire che tutte le forme di critica siano divenute impossibili. Al contrario queste forme sono ancora necessarie per ampliare il campo dell’intervento artistico, agendo direttamente in una molteplicità di spazi sociali, al fine di contrastare il programma della mobilizzazione sociale totale del capitalismo.

    L’obiettivo dovrebbe essere quello di danneggiare l’immaginario attraverso cui il sistema capitalistico si riproduce. Come afferma Brian Holmes: «L’arte può offrire alla società la possibilità di riflettere collettivamente sulle figure immaginarie da cui dipende per la sua stessa consistenza, la sua auto-comprensione». […]

    Accanto all’antagonismo, l’altra nozione chiave per affrontare la questione del politico è il concetto di egemonia. Riconoscere nella dimensione del politico la presenza dell’antagonismo vuol dire riconoscere la mancanza di un terreno ultimo, definitivo, e l’indecidibilità che pervade ogni ordine. In altre parole, riconoscere la natura egemonica di ogni tipo di ordinamento sociale e il fatto che ogni società sia il prodotto di una serie di pratiche che cercano di stabilire un ordine in un contesto di contingenza.

    Il politico è legato agli atti di istituzione egemonica ed è in questo senso che si differenzia dal sociale. Quest’ultimo è il campo delle pratiche sedimentate, cioè quelle pratiche che nascondendo gli atti originali della loro istituzione politica, appaiono come scontate, quasi fossero basate su sé stesse. Esse sono parte costitutiva di ogni possibile società; non tutti i vincoli sociali sono messi in discussione allo stesso tempo. […]

    La frontiera tra il sociale e il politico è essenzialmente instabile e richiede costanti dislocamenti e rinegoziazioni tra gli agenti sociali. Le cose potrebbero sempre essere differenti, per cui ogni ordine si afferma escludendo le altre possibilità.
    È in tal senso che può essere chiamato “politico”, poiché è espressione di una particolare struttura di relazioni di potere, ed è perciò costitutivo del sociale, in quanto quest’ultimo non potrebbe esistere senza le relazioni di potere attraverso cui esso prende forma.

    Ciò che in un dato momento è considerato l’ordine naturale – insieme al buonsenso che lo accompagna – è il risultato di pratiche egemoniche sedimentate, e mai la manifestazione di una più profonda oggettività al di fuori dalle pratiche che lo costituiscono. Ogni ordine è perciò politico e basato su qualche forma di esclusione. Sussistono sempre altre possibilità, che sono state represse e possono essere riattivate.

    Le pratiche articolatorie attraverso cui si stabilisce un certo ordine e il significato delle istituzioni sociali, sono “pratiche egemoniche”. Ogni ordine egemonico potrebbe essere sfidato da pratiche contro-e-gemoniche, che tenteranno di disarticolare l’ordine esistente al fine di installare una nuova forma di egemonia.

    Una volta riconosciuti questi punti teorici è possibile comprendere la natura di ciò che io chiamo la battaglia agonistica e che considero il nucleo di ogni democrazia viva.

    È su questa battaglia che si decide la reale configurazione delle relazioni di potere attorno a cui è strutturata una data società.

    È una lotta tra progetti egemonici contrapposti, impossibili da conciliare razionalmente.

    Una concezione agonistica della democrazia richiede di scendere a patti col carattere contingente delle articolazioni egemoniche di natura politico-economica che determinano la specifica configurazione di una società in un preciso momento.

    Esse sono delle costruzioni precarie e pragmatiche che possono essere disarticolate e trasformate come risultato della battaglia agonistica tra i contendenti. Contrariamente ai vari modelli liberali, l’approccio agonistico riconosce che la società è sempre politicamente istituita, e non dimentica che il terreno in cui gli interventi egemonici hanno luogo è comunque il risultato di precedenti pratiche egemoniche e non è mai neutrale.[…]

    Gli spazi pubblici sono sempre segnati e strutturati egemonicamente. Una data forma egemonica risulta da una specifica articolazione di una diversità di spazi: ciò significa che la battaglia egemonica consiste anche nel tentativo di creare una forma diversa di articolazione tra gli spazi pubblici. […]

    Secondo la teoria dell’egemonia, le pratiche artistiche giocano un ruolo nella costituzione e nel mantenimento di un dato ordine simbolico o nella sfida ad esso: per questo motivo esse hanno necessariamente una dimensione politica. […]

    La vera questione riguarda le possibili forme dell’arte critica, i modi diversi con cui le pratiche artistiche possono contribuire a interrogare l’egemonia dominante. Una volta accettato che le identità non sono mai predeterminate, bensì discorsivamente costruite, la domanda che sorge riguarda il tipo di identità a cui le pratiche artistiche debbano puntare.

    Ovviamente coloro che sostengono la creazione di spazi pubblici agonistici, dove l’obiettivo è svelare tutto ciò che è represso dal consenso dominante, si figureranno la relazione tra pratiche artistiche e il loro pubblico in maniera molto diversa da coloro il cui obiettivo è la creazione del consenso, anche se di tipo critico.

    Secondo l’approccio agonistico, l’arte critica fomenta il dissenso, rende visibile ciò che il consenso dominante tende a oscurare e a nascondere. Essa è costituita da un insieme di pratiche artistiche desiderose di dare una voce a tutti quelli che sono messi a tacere all’interno della cornice dell’egemonia esistente.

    Per quanto mi riguarda, tale approccio è particolarmente adatto per afferrare la natura delle nuove forme di attivismo artistico emerse di recente, le quali, in maniera diversa, mirano a sfidare il consenso esistente.

    Queste pratiche sono molto diversificate, una varietà di nuove battaglie urbane che va dalla Reclaim the Streets nel Regno Unito alle Tute Bianche in Italia, fino alle campagne
 Stop Advertising in Francia e al Nike Ground-Rethinking Space in Austria.

    Un altro esempio può essere la strategia della identity correction degli Yes Men, che, sotto diverse identità – ad esempio come rappresentati dell’Organizzazione Mondiale
del Commercio (OMC) – sviluppano una satira molto efficace dell’ideologia neoliberista.

    Il loro obiettivo è puntare alle istituzioni che incoraggiano il neoliberismo a spese del benessere della gente, assumendo le loro identità per rappresentare delle “azioni correttive”.

    Si veda ad esempio il seguente testo apparso nel 1999 in una parodia del sito dell’OMC:

    «L’OMC è una burocrazia internazionale gigante, il cui obiettivo è aiutare le imprese a rafforzare il libero commercio: la libertà delle multinazionali di fare affari a loro discrezione. L’OMC mette questa libertà al di sopra di ogni altra, compresa la libertà di mangiare, bere acqua, non mangiare alcune cose, curare gli ammalati, proteggere l’ambiente, coltivare il proprio orto, organizzare un sindacato, mantenere i servizi sociali, governare, avere una politica estera. Tutte queste libertà sono messe sotto attacco dalle grandi corporation, che lavorano sotto il velo del libero commercio, quel misterioso diritto che, ci viene detto, deve surclassare tutti gli altri».

    Qualcuno scambiò questo sito per quello vero e gli Yes Men passarono addirittura per rappresentanti dell’OMC in diverse conferenze internazionali, dove proponevano, a mo’ di provocazione, l’utilizzo negli ambienti di lavoro di un dispositivo di sorveglianza a forma di fallo dorato lungo 90 cm.

    È chiaro che queste espressioni di attivismo artistico rappresentano solo una possibile forma d’intervento politico. Esistono infatti molti altri modi in cui gli artisti possono assumere un ruolo critico.
    Secondo Richard Noble se ne possono distinguere quattro: il primo è rappresentato da quel tipo di lavoro che più o meno è criticamente coinvolto con la realtà politica, come quello di Barbara Kruger, Hans Haacke o Santiago Sierra.

    Troviamo poi le opere d’arte che esplorano posizioni o identità assoggettate, definite dall’alterità, dalla marginalità, dall’oppressione o dalla vittimizzazione.

    Questo è stato il principale modo di fare arte critica negli ultimi anni: l’arte femminista, omosessuale o prodotta dalle minoranze etniche e religiose. Doveroso è un cenno anche all’opera di Kryzstof Wodiczko.

    Continuando, c’è quel tipo di arte critica che indaga la propria condizione politica di produzione e circolazione, come quella di Andrea Fraser, Christian Phillipp Mueller o Mark Dion.

    Infine, vi è l’arte come sperimentazione utopica, un tentativo di immaginare modi di vita alternativi: società o comunità costruite attorno a valori in opposizione all’etica del tardo capitalismo. Troviamo qui i nomi di Thomas Hirschhorn (Bataille Monument), Jeremy Deller (Battle of Orgreaves) o Antony Gormley (Asian Field).

    Ciò che rende critiche queste diverse pratiche artistiche è il fatto che, in maniera differente, possono essere considerate interventi agonistici nello spazio pubblico.

    Sicuramente il loro obiettivo non è determinare una rottura totale con lo stato attuale delle cose, al fine di creare qualcosa di assolutamente nuovo.

    Oggi gli artisti non possono più far finta di costituire un’avanguardia che offra una critica radicale, ma ciò non significa che il loro ruolo politico sia terminato. Si deve invece abbandonare l’idea che essere politico voglia dire offrire una tale critica radicale.

    Per questo motivo alcuni affermano che oggi non sia possibile per l’arte avere un ruolo critico, dato che in un modo o nell’altro viene sempre neutralizzata.

    Un errore simile è compiuto da coloro che credono che il radicalismo significhi trasgressione e che più le pratiche sono trasgressive, più sono radicali. Quando poi ci si accorge che non c’è alcuna trasgressione che non possa essere recuperata, gli stessi concludono che l’arte non può più avere un ruolo critico.

    C’è anche chi considera l’arte critica in termini moralistici, impegnata in un’attività di condanna morale. Considerato infatti che ci troviamo in quella che Danto definisce “condizione di pluralismo”, in cui generalmente mancano criteri attraverso i quali giudicare le produzioni artistiche, c’è una marcata tendenza a sostituire i giudizi estetici con quelli morali, facendo finta che questi ultimi siano anche politici.

    Tutti questi approcci sono a mio avviso anti-politici, perché incapaci di cogliere la specificità del politico. Al contrario, una volta che la battaglia politica è considerata secondo l’approccio che ho delineato, diviene possibile comprendere il ruolo cruciale occupato dalla dimensione culturale nei processi di istituzione egemonica e la ragione per cui gli artisti possono giocare un ruolo importante nel sovvertire l’egemonia dominante.

    Nelle nostre post-democrazie, in cui il consenso post-politico viene celebrato come un grande passo in avanti, le pratiche artistiche critiche possono turbare l’immagine armoniosa che il capitalismo aziendale cerca di diffondere, portando alla luce il suo carattere repressivo. E, in diversi modi, possono contribuire alla costruzione di nuove soggettività. In questo senso considero tali pratiche come parte fondamentale del progetto democratico radicale.

    Note