Ora Rosetta: traduzione al presente

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    Oggi più di ieri abbiamo la sensazione che passaggi epocali, cambiamenti di senso, catastrofi irreparabili stiano avvenendo. Persino l’estetica si sta spostando in due direzioni complementari: da una parte la ricerca nostalgica del passato (e gli effetti collaterali che questo produce); dall’altra la narrazione distopica di un prossimo futuro, che da Handmaid’s tale a Black Mirror ci riporta indietro, perché l’oggi risulta sempre peggiore di ieri, ma meglio di domani. Allo stesso tempo, queste narrazioni non vengono ancorate alla capacità di intercettare, descrivere o alterare i processi, si perde il più delle volte il quadro d’insieme.

    Così, giusto a titolo di esempio, il voto odierno è tragedia, ma viene letto nel particolare, e non nelle interrelazioni che attraversano l’occidente, e che hanno prodotto fenomeni simili nel passato recente e in contesti limitrofi. Il presente sembra insopportabile (in giornate come ieri, a volte, lo è) ma non appare come tale solo sul piano dell’immanenza, ma anche in quello del progetto. Così o si balza nel domani, o nel dopodomani, o si rifugge nei good old days.

    Sebbene questo fenomeno si possa ritrovare ciclicamente, sicuramente la recessione della seconda metà degli anni ottanta ha fatto piombare sugli anni zero e gli anni dieci una serie di cambiamenti strutturali. Si tratta di una panoramica che non è né esaustiva né sufficiente a restituire solo una parte di quella complessità, ma che permette di poter affermare che quel mondo novecentesco (in cui molti di noi sono nati e buona parte cresciuti) è diventato passato, e luogo in cui rifugiarsi.

    Il presente, il passato prossimo, non si sono sviluppati in maniera lineare o progressiva, e il processo di vita, di immanenza, ci ha spesso reso inadatti al lavoro di interpretazione. Si va dalla epocale crisi economica al terrorismo internazionale, dall’impatto dell’innovazione tecnologica sulle nostre vite alle rivolte e i sommovimenti primavere arabe, dall’aumento delle diseguaglianze ai meme, dal conflitto siriano alla manifattura 4.0. La memoria bidimensionale di quel tempo amplifica i processi negativi alla luce degli eventi successivi. In tal senso, la linea storica avanza in peggio, senza che vengano indagate né le ragioni né le possibili soluzioni.

    Oggi più di ieri, con le urne ancora da sigillare e le buste di schede in viaggio, mentre si contano preferenze e proporzioni tra i collegi, questo tempo scandito da scadenze ci impone tentativi di riflessione, mentre tutti, concordi, evocano “La terza Repubblica”, senza che il senso e le modificazioni della seconda, di quei vent’anni che hanno assunto l’epiteto dispregiativo di “Berlusconismo” siano stati sezionati o compresi; sono stati semplicemente digeriti, e nella notte decretata la parola fine.

    Perciò, nonostante il percorso di senso che abbiamo costruito per il 2018 di Rosetta fosse pronto nel cassetto da qualche mese, lanciarlo significa fare uno sforzo in più, e ci richiede un impegno più forte.


    Milano. Rosetta 2018

    Martedì 6 marzo 2018 alle 19.o0 presentiamo la nuova stagione di ROSETTA alla Santeria di Via Privata Paladini, 8 a Milano.


    In un paese spaccato tra posizioni politiche all’apparenza inconciliabili, diviso tra Nord e Sud da differenti populismi, incattivito e scagliato contro gli ordini di senso che avevano governato gli ultimi vent’anni, può essere importante partire dal senso delle cose, dal significato, dall’uso e dal disuso dei concetti, dal percorso di elaborazione sulla società, sul solco tracciato dai nove incontri precedenti.

    Un anno fa, giorno più/giorno meno, sono iniziate le riflessioni itineranti di Rosetta. Il punto di partenza è stato Borges, l’idea che originale sia infedele alla traduzione e che quell’infedeltà sia il vero scarto interessante, perché in quegli slittamenti di senso si nascondono le novità, il contemporaneo, il complesso e il ludico, il leggero e al contempo il senso profondo. Come obiettivo primario c’era il piacere di interrogarsi sull’oggi, immaginando il domani, attraverso un processo in divenire.

    È stato un anno stimolante, in cui abbiamo attraversato la città di Milano, abbiamo costruito confronti e ascoltato visioni e visionari. Abbiamo cercato di rispondere alla domanda aperta che dà il nome all’associazione attraverso un confronto in nove tappe, riflettendo sul senso di appartenenza al presente che si può riassumere in cittadinanza sociale. E l’abbiamo fatto bilanciando quello iato tra originale e traduzione, tra presente e ciò che sarà. Attualizzare il pensiero, rendere piacevole la discussione, avere voglia di investire due ore del proprio tempo per un piacere che è leggero ma critico: discutere insieme, in una dimensione collettiva.

    Quest’anno pensiamo che sia importante partire da quel presente che abbiamo provato a fotografare e intrecciarlo con i passati e con il futuro. Parlare di concetti, fare in modo che il senso delle parole ritrovi la sua storia e la sua funzione nell’oggi è operazione linguistica, ma anche sociale e politica. Salvatore Veca sostiene che una delle forme di diseguaglianza più diffusa e più crescente oggi è la diseguaglianza epistemica, la disparità nella capacità di comprendere il mondo e gli eventi attraverso categorie comuni. Oggi più di ieri queste parole assumono una valenza profetica, echeggiano come monito. Perché il punto centrale non è per forza o solamente l’analfabetismo funzionale, le differenze di capitale culturale, il divario tra le persone e le città. Non vogliamo fare una riflessione sulle élite e sull’incomprensione del sapere. I seggi hanno fotografato i bisogni di un paese, e lo smarrimento della politica classica, delle analisi, delle progettualità.

    Alcuni lo chiamano voto anti-sistema, ma in quel sistema assieme a molte storture, sono custodite anche le vittorie sulle diseguaglianze. Perciò questo processo di trasformazione necessita di consapevolezza, e di trovare le parole per descrivere i processi e il presente, senza fraintendimenti tra passato e futuro. La questione centrale è, per noi, provare a risignificare nove concetti alla base della vita politica e culturale comune, che nel corso degli ultimi vent’anni hanno assunto traiettorie differenti, ma che sono centrali per il confronto e per immaginarsi liberi, democratici, solidali. Pensiamo solamente all’idea di ceto/classe.

    Le lotte operaie, i movimenti studenteschi e femministi avevano reso superata l’idea di classe sociale, in parte per le battaglie per i diritti economici e per ridurre le diseguaglianze, tramutando l’Italia un grande paese del ceto medio. Ma questo processo è ancora attuale? Non assistiamo forse ad un’inversione di tendenza? Quanto l’erosione dei diritti sostanziali a fronte di un permanere di diritti formali ha amplificato la forbice tra le persone? Quanto i processi migratori hanno sollevato sfide incredibili che non hanno mai trovato spazio di elaborazione, sia in termini economici che politici e sociali?

    Un altro tema centrale del cambiamento, su cui l’innovazione ha inciso modificando le forme e le pratiche ma utilizzando lo stesso lessico è la definizione di comunità. Cosa significa oggi parlare di comunità? Quanto questo concetto si può sovrapporre all’idea sempre più intercambiabile di community? Come mai alcuni termini utilizzati oggi si discostano dalla tradizionale operazione di senso che è andata a costituirli?

    Si tratta di un tentativo, piccolo e dal basso, di ritrovarsi e pensare insieme, ma anche di rendere leggera e piacevole la complessità del contemporaneo. Dovevamo iniziare giovedì, rimandare ad oggi ci carica di una responsabilità in più, ma anche del desiderio di provare ad uscire dai centri, dalle strade conosciute, e invitare al confronto coloro che sono parte fondante del nostro presente. Perché, come dice Bourdieu, “ce que parler veut dire”: e in quell’economia degli scambi linguistici, si possono ritrovare le traiettorie del presente perduto, e forse le prime talee del futuro.

    Note